Sarò sempre un po’ meno di quello che sono,
e anzi, molto meno. Polvere. Ho perso molto.
— Carlo Bordini

Commento a quattro poesie inedite di Giorgio Linguaglossa

 

di Luciana Sanguigni

C’era la questione del baratro. Si può vivere anche senza respirare. Quel corridoio, che attraversavo in allarme. Il poeta morto. 

Le poesie «C’era la questione del baratro», «Si può vivere anche senza respirare»,  «Quel corridoio che attraversavo in allarme» presentano «interni» in movimento in un impianto strutturale di tipo prosastico, alternano versi con sintassi lineare e definita  a versi molto brevi, talora costituiti da una o due  parole, quasi una inconcinnitas  dal tono sapienziale con lo scopo di sprigionare il massimo significato possibile attraverso il minor numero di parole: il «peso» della frase e delle parole non deve consistere nella sua ampiezza ma nella sua acutezza. Tale struttura sintattica sembra sottolineare la voluta e consapevole frammentarietà del testo, cui si aggiunge l’uso di una punteggiatura che, apparentemente eccessiva, chiarisce, fin da subito, le intenzioni dell’autore. In primis i punti di sospensione introducono il lettore in una situazione irreale espressa chiaramente nella poesia «Si può vivere anche senza respirare»  e sottolineato dal «corridoio buio» nella poesia «Quel corridoio» e ancora nella poesia «C’era la questione del baratro» con l’espressione «la strada in salita», ma verso dove? La pianura o una discesa verso il baratro? L’uso della punteggiatura invita il lettore (tra stupore, incertezze, indeterminatezze e dubbio) all’interrogativo esistenziale: «Il baratro dentro o fuori di me?», «C’è questa confusione?», «Felice?…come puoi dire questo?»

Il lessico risulta colloquiale,ma il dialogo in realtà è il monologo dell’io lirico, confermato dall’uso del pronome di prima persona.

 Le poesie sono costruite su parole che sono «cose» e le «cose» sono parole; così il baratro indica la rovina morale, l’aria vetrificata la fragilità, il treno il dinamismo mentre la macchine la staticità dell’esistenza. Ancora «la strada era una ipotenusa» quasi una forma geometrica ben definita ma non ci può essere una definizione schematica e regolare ( e il poeta dice: «pensavo che dopo la pianura ci fosse un baratro ma tu non vedevi nient’altro che una pianura»). La vita non ha schemi preordinati e prestabiliti.

In tutte l’autore si esprime in maniera concettuale: il baratro, il corridoio, l’aria che sembra vetrificarsi suggeriscono, ad un lettore  attento, da un lato la sensazione del timore («io pensavo terrorizzato…» e «tutto è irreale», «quel corridoio che attraversavo in allarme»…«cercando» però «la luce») dall’altro l’io lirico non sembra aver paura del vuoto esistenziale è il vuoto ma non ma non ho paura…a destra c’era un vuoto, uno spazio vuoto, una palla vuota» che egli tocca).

Altro spunto interessante è l’inconsapevolezza dello scorrere del tempo, suggerito dall’ unica immagine classica delle Parche, («tu eri cieca…felice senza saperlo, senza vederlo» nella poesia «Quel corridoio») da parte della figura femminile tratteggiata, quasi vezzosamente, da tre elementi:i  tacchi che la fanno inciampare esprimendo incertezza; il trucco;  la quotidianità con il termine «cucina» e le unghie che sanno graffiare e far male…).

Pertanto, le poesie  offrono la possibilità di una lettura trasversale.  Il poeta propone una riflessione sull’esistenza e sulle cose. Attraverso immagini concrete vuole esprimere la sua alienazione, il suo rifugio verso il presente per rifugiarsi in un tempo indeterminato. Il vuoto diventa allegoria del tempo passato, dell’uomo che procede alla cieca, come viene espresso anche nella poesia «Il poeta morto». L’incipit di questo brano poetico  ripropone l’atmosfera dantesca, la porta dell’Inferno che apre al dolore e alla perduta gente.

Un bosco parlante, tramite la personificazione, introduce l’io lirico nell’indeterminatezza spaziale-temporale «il presente è passato e il passato è presente» in un continuum cronologico.

Il poeta si addentra nel regno dei morti, ombre che lottano con altre ombre e l’anima del poeta è come il palcoscenico di questo scontro furioso.

Ma tutto è vano, tutto è «vuoto» ( termine quest’ultimo caro al poeta e riproposto anche nelle altre poesie),  e la poesia è ricca di immagini concrete che esprimono dolore e morte.

Le stesse immagini tratte dal mondo pagano (altro topos caro a Linguaglossa) sono semplici squarci che sottolineano incertezza   e stupore. Il pagano si mescola con il sacro, l’«imperatore» con l’«angelo della nebbia» e  il poeta gioca nell’accostare due realtà, due idee, due simboliche, due mondi.

Il sintagma «il giorno è la cicatrice del dolore» viene contrapposto, quasi un bilanciamento, a «La notte è la tomba di Dio». L’introibo è la discesa  nel mondo e questa «cicatrice»  è la Terra. Anche questa immagine ci conferma quanto  al poeta piacciano tali accostamenti tra parole che sono cose e le cose sono parole. La poesia si snoda mediante un incastro di metafore in movimento. Così, la notte è una tomba, il giorno è la cicatrice del dolore: è la Terra.

Ancora dolore, ancora vuoto esistenziale.

Fondi, lì  22.11.2012

Il poeta morto

«La notte è la tomba di Dio e il giorno la cicatrice del dolore».
V’erano scritte queste parole in alto sopra la prima porta a destra;
una voce risuonò nell’androne: «Benvenuto nella galleria del dolore!»;
fu così che mi decisi… ed entrai.

C’è un bosco pieno di foglie parlanti che gridano:
«il presente è il passato e il passato è il presente».
C’è un chiasso del diavolo. Tante parole quante
sono le foglie. Una quercia mi parla:
«apri la prima porta a destra – mi dice – e segui la via della mano destra
che porta a sinistra»;

apro quella porta:
ci sono tre vascelli a vele spiegate
che un vento fuori cornice gonfia tumultuosamente.
Ma restano immobili. Anche il mare crestato
è immobile. Ogni dettaglio è nitido e percettibile
come seppellito nell’ambra da un milione di anni millimetri;
apro la seconda porta a destra:
c’è una colluttazione di ombre che entrano
dentro altre ombre e ne escono; lottano furiosamente
per il palcoscenico della mia anima;
«ma non c’è nulla per cui lottare, sono già morto!»,
pronuncio con un filo di voce;
“farsesca costipazione di ombre”, penso con tristezza
che anche loro sono morte e non possono udire le mie parole

attraverso come a nuoto la stanza; apro una finestra:

c’è una statua sulla piazza deserta
portici risucchiati dal vuoto
pontili su un mare di basalto
città di cristallo…

a tentoni nel buio della stanza apro un’altra finestra:

c’è una torre su un cortile deserto che
puoi udire il tonfo di una farfalla che cade dall’alto
e il lucore fosforescente di una luna gialla
che si posa sulla toga di un imperatore triste…
mi precipito alla cieca in avanti, apro una terza finestra:
c’è un calendario dal quale si staccano i fogli, un orologio,
una lapide sulla quale v’è inciso il mio nome e cognome
e la mia data di nascita… una scrittura annerita che gratto con l’unghia:
«Benvenuto nella cicatrice chiamata Terra»

«È tutto qui? – mi chiedo -  non c’è nient’altro?».
L’angelo della nebbia piange in un angolo in ginocchio.
La notte profuma di tomba; anche la rugiada profuma di tomba;
La cicatrice chiamata Terra è un immenso campo santo di lapidi.

C’era la questione del baratro

… la strada era una ipotenusa, ripida –  e potevo
scendere giù come su una slitta…
tu invece pensavi fosse una salita…
«si aprirà un baratro! – mormoravo  –
dopo la pianura c’è il baratro!…»;
io pensavo che dopo la pianura ci fosse un baratro
ma tu non vedevi nient’altro che una pianura…
ma c’era la questione del baratro (dentro di me (!?)
(fuori di me (!?) – e tu dicevi:
«vedi, qui si può nuotare!», ed io
ne ero terrorizzato
perché non vedevo acqua ma aria… (tanta aria (!?)
- ma non c’era una pianura da qualche parte? -
«devo stare immobile – mi dicevo –
con tutte le mie forze!»,
e tu dicevi: «devi camminare, camminare sempre!»;
“per andare dove?” – io pensavo terrorizzato….
tu mi chiedevi: «è possibile dirsi addio?»
“addio? – che parola è questa?” io mi chiedevo
col pensiero rivolto al tuo pensiero
e ti rispondevo: «dirò addio all’addio,
prenderò congedo dall’addio», mentre
tu inciampavi
con i tacchi a spillo sulle mattonelle sconnesse
del marciapiede…
e ripetevi: «è possibile dirsi addio?»
«è che c’è la questione del baratro!…»
- pensavo io ad alta voce -
Cloto, Lachesi, Atropo…
ma tu eri cieca, non le vedevi!
«ma com’è possibile – mi chiedevo – non vedere
quella cosa là (il baratro (!?) che si apriva e si avvicinava…»;
«davvero? questa cosa qui è il vuoto (!?)»
– tu mi chiedevi in preda al panico –
«sì – rispondevo io –  è il vuoto ma
non ho paura; è che lui è qui,
è sempre qui…
mentre noi siamo là (e viceversa!)»;
«è che occorre fare presto!»
– tu mi dicevi smarrita –
(“fare presto?)- (oh, santo iddio, che parola è questa?”)
- ti rispondevo con il pensiero -
«è buio pesto qui»
-  dicevo mentre andavo a tentoni – «non c’è corrimano
a cui tenersi…»,
«occorre far presto!» (!?!)

«presto!?»

 

 

Si può vivere anche senza respirare

…perché qui tutto è irreale:
le macchine parcheggiate lungo il muro
di calcestruzzo, il terrapieno con sopra i binari, quel
maledetto treno che fischiava, le foglie degli alberi,
la tosse degli uccelli…
«qui tutto è irreale – mi ripetevo –                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                      c’è troppa ombra nel salotto,
i tappeti ben stirati, i vasi di porcellana, i divani con i
cuscini allineati…
qui ogni cosa è al suo posto… il posto giusto, intendo…»
«qui tutto è in ordine»  – mi ripetevo –
«qui tutto è pace…»
«è come se non potessi respirare…
è strano; davvero, non riesco
a respirare…(…) l’aria sembra vetrificarsi…»
«si può vivere anche senza respirare» – mi rispondevi
dalla cucina – oh, la tua voce vetrificata!
«sì, si può vivere-  mormoravo – anche senza respirare…»
e guardavo il terrapieno (con quei maledetti binari (!) dall’alto,
il treno che slittava veloce,
le macchine in sosta parcheggiate in fila indiana,
il semaforo rosso e verde che lampeggiava…
«è che le cose non stanno mai lì dove sono, ogni giorno
stanno in un altro posto, e traslocano…»
«vedi – ti dicevo – è che sono confuso;
c’è questa confusione in me )( c’è questa confusione (!?)
è come se non potessi parlare… )( o qualcosa, qui in gola,
che mi impedisse…»;
«sì, si può vivere anche senza parlare», – mi dicevi
guardandomi sulla fronte, sotto gli occhi,
a lato degli zigomi, agli angoli delle labbra -
«sì, si può vivere – pensavo – anche senza parlare…»;
«e il silenzio? dove lo mettiamo il silenzio?»
- interloquivo tentando di spezzare il tuo assedio
di vetro -
«oh, dobbiamo cancellare il silenzio!» – mi rispondevi dall’
antibagno dove ti rifacevi il trucco, ed io:
«possiamo vivere senza il silenzio e senza le parole?»;
«sì, certo», replicavi come se avessi visto un palombaro…
«davvero, non lo avrei mai pensato – pensavo – si può vivere
senza il silenzio e senza le parole…»;
e guardavo quella tartaruga col carapace che si illumina
e che tace che tu tenevi in salotto accanto al telefono
e i libri

«perché qui tutto è irreale» – mi ripetevo -  «e non c’è bisogno
di parole né di silenzio…»

 

 

 

Quel corridoio, che attraversavo in allarme

… quel corridoio… che attraversavo in allarme,
a tentoni nel buio…
«maledizione, dov’è l’interruttore della luce?»,
a sinistra c’era l’attaccapanni in ferro battuto
con le mie giacche, la cravatta, il soprabito,
e a destra, sulla mensola, il telefono… e poi?
non ricordo, ah sì,
lo specchio (dove non mi guardavo mai (!) e poi
la porta stretta:
la prima,  la seconda, e poi la terza…
sì, lì c’era il bagno, e l’antibagno… e poi?
ecco, mi vergogno a dirlo, adesso:
a destra c’era un vuoto, uno spazio vuoto
-  lo toccavo con la mano… – e, più in avanti,
anche a sinistra…
c’era come una palla vuota;
«c’è tutto ciò che ci dev’essere»,
- mi dicevo in preda al panico -
e tu: «c’è tutto ciò che c’è», ribattevi sicura…
e poi quella maledetta musichetta
- non riuscivo proprio a digerirla… -
e uscivo sul balcone a fumare una sigaretta…
«che cosa?», – chiedevo nel fumo -
«nulla – rispondevi – qui tutto è a posto,
non c’è un bel niente
da ricomporre…»,
«sì, ma le unghie? graffiano, sanno
graffiare…»
«ci sono delle cose – replicavi in angoscia –
quelle stanno ferme»,
«per fortuna ci sono le cose», mi dicevo
- in realtà parlavo a me stesso –
«forse un giorno…» dicevi
sottovoce dal vano della cucina…
«ricorderò? vuoi dire che un giorno ricorderò?
che cosa dovrei ricordare, dimmi,
che cosa?», replicavo
indispettito…
«come eravamo felici…»
«felici? oh, dio, come puoi dire questo!?»,
«felici, senza saperlo, senza volerlo…»

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  1. ne “Il poeta morto” c’è un tono alto apocalittico che confluisce nel basso parlato, nella lingua media degli uomini medi; nelle altre tre poesie c’è un «quotidiano» pensato in un «interno»: uno spazio tridimensionale in cui avvengono gli eventi. Quello che colpisce in questi inediti, così a caldo, è che il linguaggio poetico metaforico sprigiona maggiore forza comunicativa se calato in un contesto colloquiale e quotidiano, e quest’ultimo entro il binario di una sintassi «forte». Qui non c’è nessuna inversione o ellissi né rocaboleschi giochi di prestigio linguistici o metaforismi meta semantici. La macro metafora è sempre incardinata nelle metafore periferiche; in quotidiano è semrpe calato in una situazione oggettiva determinata nei correlativi spaziali e temporali.
    Mi sembra che qui Linguaglossa abbia ripiantato il consunto «quotidiano» di area un tempo lombarda nel continuum storico e stilistico di una poesia tutta proiettata nel «futuro». Si ha qui un respiro ampio. Dentro queste composizioni ci si può respirare, si può passeggiare, si può prendere il tram del desiderio; si ha la sensazione di trovarci finalmente in un luogo aperto, piena di aria e di vento, e anche di pioggia e di ombre, e di nuvole minacciose che si addensano all’orizzonte… Insomma, c’è aria di libertà.

  2. > Caro Giorgio

    io credo che mai prima d’ora tu abbia raggiunto una
    > profondità di pensiero, una padronanza del gioco poetico come in queste
    > quattro poesie. Angoscia del tempo, il camminare sull’abisso
    > guardandolo e sfidandolo,la tua visione del mondo che mi annichilisce,
    > il dialogo con l’Altro da sé, l’ncubo e il sogno, la ricerca di una
    > impossibile luce, di una salvezza negata e tante altre considerazioni
    > che bisognerebbe fare, ma soprattutto una grande emozione nella
    > lettura, una commozione di spirito e di anima e di intelletto, in uno
    > stile che è solamente tuo, in questa narrazione epica tra storia e mito
    > e spazio quotidiano, un descensus ad infera avvelenato dalla bellezza
    > della poesia.Come puoi decrittare da queste mie sconnesse parole sono
    > stato profondamente colpito.
    Affettuosamente
    Salvatore Martino

  3. un amico poeta mi ha chiesto lumi su questo mio nuovo stile. Come ci sono arrivato?
    Io gli ho risposto semplicemente che bisogna far riferimento alla sintassi e alla metafora: la logica è la grammatica profonda del linguaggio, al di là della sua grammatica concettuale che ne è la sintassi. È Essa che pone in evidenza le relazioni di senso (che non si dicono in quel che si dice ma che si mostrano, e che ciascuno è in grado di comprendere in quanto semplice utilizzatore di lingua naturale).
    Il linguaggio poetico è la tematizzazione esplicita di ciò che è contenuto nel linguaggio naturale; per cui il secondo viene prima del primo. È un linguaggio in quanto scritto, decontestualizzato, in cui tutto è chiaro, univoco, intelligibile da subito perché costruito per questo scopo. Esso è il prodotto della riflessione del linguaggio su se stesso, l’esplicitazione delle sue strutture di senso soggiacenti alle relazioni dei parlanti immersi nel linguaggio naturale.
    Dal linguaggio relazionale del linguaggio naturale al linguaggio poetico c’è una frattura e un passo, un salto e un ponte.
    La problematizzazione del linguaggio poetico si esprime (quale suo luogo naturale) in metafore e immagini. Tutto il resto appartiene al discorsivo-assertorio che serve ad unire una immagine all’altra, una metafora all’altra. A rigore, si può sostenere che un linguaggio poetico privo di metafore e immagini non è un linguaggio poetico. e con questo scopriamo l’acqua calda, ma è indispensabile ripeterlo adesso in tempi di semplicismo filosofico-poetico.
    Lo scetticismo – che data da “Satura” (1971) – in giù nella poesia it. e non solo, ha dato i suoi frutti avvelenati: ha ridotto la poesia italiana ad ancella dei mezzi di comunicazione di massa, ad un surrogato di essi; l’ha resa sostanzialmetne un linguaggio non differenziato da quello della comunicazione.
    Che nessun poeta it. da “Satura” in giù sia degno di stare allo stesso livello di un Tranströmer deriva da questo nodo non sciolto dell’Istituzione poesia così come si è solidificata oggi in Italia. La poesia che si fa oggi in Italia è un linguaggio ingessato (nel migliore dei casi) e un linguaggio comunicazionale (nel peggiore).

  4. Nelle poesie di Giorgio Linguaglossa c’è l’allucinazione del quotidiano. Dal contatto con le cose scaturisce il senso di una realtà altra che contrasta con quella delle cose e della visione dell’alter ego che pure ama, ma che vive una contestualità normale in cui il poeta non può entrare. Il baratro è il contrario della piatta pianura, la felicità con il dolore.
    C’è innanzi tutto il senso del dolore che neppure l’angelo di nebbia può attutire. (i meravigliosi angeli del Paradiso di Linguaglossa). Eppure l’uccello tossisce e il bosco parla. Dalla realtà può nascere la poesia, non importa se non è lirica, ma è vicina alla prosa, in una dimensione giocosa di contrasti che fanno provare un senso di liberazione.

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