Poesia 2.0

La mano ozia nel nido delle tue cosce,
è sera, e la sera rinnova la pioggia,
mai cessata di fremere.
— Alessandro Ricci

MONOGRAFIE DEI POETI


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Note su “Volevo essere Jeanne Hébuterne” e “Fragilità del bene” di Loredana Magazzeni

di Leandro Di Donato

copertina_magazzeni-jeanne-def1Gli ultimi due libri di Loredana Magazzeni hanno diversi punti in comune e un filo, sottile ma tenace, che li lega. Il primo affronta, nelle diverse sezioni che compongono il libro, il tema dell’amore, scavando, con l’uso di diversi registri di scrittura, dentro i suoi significati, attraversando e riattraversando confini e reticolati alla ricerca di altre strade, altri incroci per lanciare come frecce altre direzioni, altri luoghi da scoprire, altre sorprese da interrogare.  Il corpo, carico di simboli e dei pesi della vita,  e i moti dell’animo tessono lo spazio concreto e ideale di questo libro che Gabriella Musetti, nell’introduzione, definisce “una raccolta complessa che si articola come un percorso a più strati, veri e propri cunicoli sotterranei in cui si può smarrire la strada, che a volte si intersecano e a volte si fanno più distanti, senza mai separarsi.”

Loredana Magazzeni esplora questi cunicoli, ne apre di nuovi, crea connessioni imprevedibili montando e smontando la sua tenda e lanciando ponti di liane amorose, linee mobili di un disegno che si apre come un paesaggio nuovo.  La prima sezione, Il Martorio della bellezza, si apre nel segno di due donne, Jeanne Hébuterne e Sofia Tolstoj,  non un semplice omaggio a due vicende accomunate dalla scelta di donare la vita all’altro, ma paradigma di due concezioni, due possibilità che, ieri come oggi, definiscono uno dei modi possibili per spendere i talenti dell’amore e della propria vita.

L’amore abita, può abitare, tutti i corpi e quel che conta non è tanto la perfezione quanto la capacità e la consapevolezza di contenerlo perché, ci ricorda l’Autrice, Lei non è bella./ Ha le gambe grosse,/ è grassa/ è una macchina da guerra./ Ma il suo amore ha fondato regni,/ innalzato città.

A volte ci si può smarrire nel proprio corpo come in una città che diventa improvvisamente straniera. Nella sezione La bambina o serie del colesterolo Magazzeni entra in questa città, percorre le vie del sangue grasso,  sale sulla torre del colesterolo da dove osserva la bambina diventare sempre più somigliante al padre che divenne obeso per la fatica di vivere. Ora anche lei/ è un piccolo Buddha la cui pancia non conosce saggezza/ piuttosto l’estenuante lentezza dei cambiamenti.

Il rapporto con il cibo determina il susseguirsi dei vuoti e dei pieni nel muro di cinta del corpo-città, in un gioco di dinamiche in cui la soddisfazione, l’accettazione, il desiderio e le sublimazioni corrono l’una accanto all’altra, portando ognuna il proprio carico e le proprie parole fino al bivio decisivo: Ma il corpo deve scrivere o vivere?/ Pensa la bambina./Ma le parole sono sassi o carezze?Si chiede/ Mentre scrive, filtra la vita, produce miele.

Domanda cruciale che interroga il potere della scrittura e l’apparente insondabilità di quell’amore che non può essere scritto, né essere detto da lontano. Quell’amore costretto entro l’orizzonte dei colori modesti, dell’umiltà, del posto e del ruolo assegnati e accettati che nasconde, dietro  la supposta naturalità, l’ordine di un altro potere e che viene pagato dalle minestre riscaldate ingurgitate a forza, dalle conferme della tristezza del disamore che sembra essere l’unico dono concesso alla bambina, dono che tuttavia non riesce ad entrare nella casa di carta delle sue poesie. Una casa le cui pareti ospitano i fogli sparsi dei Taccuini, pensieri e notazioni che si disperdono lungo volute ed ellissi in cerca di nuovi punti di passaggio. Passaggio che -tornando all’immagine propostaci nell’introduzione- porta alle labbra serrate e genitori da cui imparare il silenzio, alle pallide madri che avanzano guardinghe per non fare male, sul collo il segno del giogo che qualcuno impose con la gentilezza. Se i desideri che hanno perso il nome e si sono smarriti negli addomi arrotondati guidano i passi che scartano sentieri e possibilità, solo Le poesie per dire la verità (titolo della terza sezione) possono riscattare la sconfitta e  spazzare via i cumuli delle rinunce che rischiano di imprigionare lo sguardo.

Quelle verità da cercare dentro le paure e le stive dove si ammassano disperati i profughi, sui marciapiedi, scansando le parole addomesticate su cui saltano, come se fossero mine,  corpi e progetti per togliere tutti i confini dal futuro, perché la speranza non può essere contenuta dentro reti di contenimento.

La poesia che si inoltra in queste contrade, che non ha paura di sporcarsi l’abito può davvero diventare l’orma di chi cammina e la lama che aguzza le parole; questa poesia qui trova il destino dell’uomo nella politica e dona la bisaccia del domani ad Amir che ha imparato a cantare e a Fatima che sa l’italiano. Una poesia che accetta il rischio di balbettare poche parole ma vere, piuttosto che chiudersi nel laboratorio a lucidare la veste della lingua per portarla alla brillantezza fredda dell’irrilevanza.

In questo percorso la poesia diventa, nella sezione seguente, Le porte blu. Poesie per guarire, la lampada che arde, brucia e ridà luce ai giorni cuciti sulla pelle, come piccoli soli appannati. Poesie che ospitano tracce di citazioni, un piccolo pantheon, che aiuta a convivere con i nostri dèmoni quotidiani addormentati sulle spalle e  con quella rabberciata, sublime corte dei miracoli/ di cui vive la vita, e che vive con noi. Vita che trova un altro e diverso canto nelle Preghiere laiche rivolte al Signore delle strade insanguinate e delle madri antiche, angelo custode che la renda piena di libertà luminosa ma, e qui c’è lo scarto laico che innalza la richiesta a consapevole processo di liberazione e di accettazione dei rischi conseguenti, libera anche della sua luminosa presenza, libera anche del bisogno ossessivo di luce accettando solo quella, forse più flebile, della trasparenza che spinge, testardamente, ad amare. Necessità dell’amore che diventa il discorso, anzi Il canzoniere,  con tutti gli echi petrarcheschi che suscita, come nota Marina Giovannelli nella postfazione, che dà voce all’anima attualmente amante per rispondere ad una domanda fondamentale, domanda che apre la carne come un coltello: di che genere è l’amore?  Amore che transita dal maschile al femminile e viceversa, lungo rotte e luoghi nuovi e ancora senza nome.

Ma come dar voce e parola a questa magmatica, ribollente materia che non entra negli stampi?  Solo la poesia, scrive l’Autrice nel Prologo, antidoto al presente/, bocca di tutte le bocche appassionata/ scrittura, può nominare il senza nome.

In questo poemetto, Tutte le forme dell’amore. Transonetti. Sonetti d’amore transessuale, articolato in Premessa interlocutoria, Prologo, Congedo e Postfazione, a sottolineare la
struttura complessa,  che chiude,

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 anche idealmente, il libro Loredana Magazzeni affronta un viaggio dentro la costellazione dei corpi e dei desideri, senza portare con sé mappe già pronte o classificatori rilegati dalla rassicurante forza del già noto. Anche qui la sua poesia accetta di balbettare parole nuove e ruvide, non levigate dall’uso, pur di provare a dar voce e quindi significato alle tante, diverse, contraddittorie pulsioni e ambiguità che scavano gole e spaccano le pianure dei continenti-corpi. E lo fa affidandosi al sonetto, una scommessa e una provocazione portate nel cuore della forma più tradizionale, per provare a dar luogo ad una nuova possibilità. Scommessa felicemente vinta, visti i risultati,  che conferma, una volta di più, la forza dirompente della poesia. Ai versi è affidato qui non solo il compito d’indagare, di rivelare ma anche di definire profili che sembrano sovvertire le strade certe dell’umano sentire. Maschio lei, ed io sono fatta uoma è l’indicazione di percorsi diversi per vivere l’amore e raggiungere il fondo del nostro ideale. E se al tempo che passa il corpo cede, al proprio sogno ognuno poi appartiene se alle parole seguono le cose. I versanti dell’amore vengono interrogati tutti e tutti danno risposte nuove, provvisorie, a volte incerte come incerto è il nostro cammino lungo i crinali del desiderio alla ricerca, attraverso di esso, di noi stessi e delle nostre profonde, scomode e necessarie verità umane. In questo libro Loredana Magazzeni, forte di una curiosità senza pregiudizi e di una visione poetica nutrita anche dalle elaborazioni del pensiero femminista, ci consegna un nuovo e importante Discorso sull’amore che si misura, con vera empatia e rispetto, con tutte le fragilità e le potenzialità della ricerca del nostro ben-essere. Questa ultima notazione ci porta all’altro libro Fragilità del bene, che fin dal titolo si può connettere alle tematiche fin qui trattate, perché in fondo stiamo parlando della stessa aspirazione di fondo e cioè la ricerca, la protezione del nostro bene e, quando ci riusciamo, il dono del nostro bene per una nuova e più feconda sintesi.

Libro che si apre con un esergo, dello psichiatra Eugenio Borgna, che ha viaggiato a lungo dentro volti sofferenti, che è una chiara indicazione di una direzione e di un luogo:

Il volto dell’altro mi parla, e il mio volto parla agli altri che lo intendono e lo fraintendono.

Muovendo da qui Loredana Magazzeni compie il suo viaggio attraverso le fragilità del bene, del tempo e della terra, tessendo il filo della sua ricerca e della sua narrazione. Così se la costruzione di un volto che non è mai definitivo/ è paesaggio sublimato devastato dominato dal tempo quello che in questo percorso decade/nutre la figlia, il figlio/ e non torna mai il conto tra il guadagno e la perdita rimangono le silenziose braci da raccogliere ai piedi del tronco e la fatica di ascoltare le ore trascorse che ci assegnano ciascuna un silenzio.

Questo silenzio da capire, da imparare o reimparare ad ascoltare è l’altra fragilità che accompagna il cammino delle nostre parole dentro il sentire dentro il patire.

E il catalogo delle assenze è il coltello che serve a divellere/l’anima e l’osso/ due scorze di sole alla ricerca del dono alterno della parola, viatico per raggiungere quel punto preciso di un esilio conquistato e sottratto alle obbedienze, quel punto preciso da dove ci si può chiedere: quale libertà è migliore/ di quella che infrange il sogno?  La fragilità del tempo ci dice che la risposta a questa domanda non si adagia lenta/ là dove il mondo è ancora aperto e occorre passare di confine in confine per capire che c’è un tempo/ per ogni ritornare. 

Ritorni e partenze scavano i solchi della memoria e della terra, della fragilità della terra, dove arriva questa pioggia di voci, dense come legami  e dove il giorno cresce in ciò che unisce.

Unire può essere quindi una scelta per rafforzare gli argini della nostra ricerca del bene, lavoro che richiede una particolare opera di riparazione. Infatti Nel riparare è il gesto del cucire,/Né nel distruggere, né nel costruire/ Nel riparare è il gesto più sapiente. Questi versi chiudono la sezione Fragilità del bene, e richiamano la riparazione della scrittura,  verso presente nel Prologo del poemetto che chiude il libro Volevo essere Jeanne Hébuterne. La riparazione è quindi una metafora che diventa cifra identificativa, assunzione del rischio di aprire una possibilità che richiama quel paziente lavoro di ricerca di bordi, punti, fili che consentono di stabilire o ristabilire connessioni, comunicazioni, ponti. Lavoro questo che necessita degli altri, delle relazioni con gli altri e con i desideri e le aspirazioni degli altri. E, notazione forse marginale, ma che io vedo come una possibile chiusura di un cerchio ideale, nelle poesie di Loredana Magazzeni c’è una parola ricorrente ed è miele. Parola che evoca il lavoro e la riparazione di tante api, la condivisione e, alla fine l’offerta di un bene. Ecco credo che la metafora del miele possa saldare i due libri di Loredana Magazzeni e rimandare alla fatica di conquistare ogni giorno la nostra porzione di bene-miele e di farlo con gli altri perché il bene è come una tela che non si può tessere solo con i colori propri, ma servono anche i fili e i disegni degli altri per farla tanto grande da ospitarci e non imprigionarci.


Leandro Di Donato è nato a Teramo e vive a Nereto. Ha pubblicato nel 1978 la raccolta Parole dei miei giorni con le edizioni Pan Arte di Firenze. Nel 1987 è stato inserito nell’antologia Voci nuove del parnaso abruzzese, curata dal professor Vittoriano Esposito. É presente nell’antologia 4 poeti abruzzesi, pubblicata nel 2004 dalle Edizioni Orizzonti Meridionali. Nel 2006 ha pubblicato con le Edizioni del Leone la raccolta Le strade bianche, con la prefazione di Renato Minore. Leandro Di Donato è direttore artistico del Festival di arti Emergenze mediterranee e membro della giuria del Premio nazionale di poesia Oreste Pelagatti di Civitella del Tronto, dove cura anche Alle cinque della sera – Salotto di scrittori e scritture.

Fondata e diretta da Luigi Bosco, grazie al contributo di una lunga lista di persone, Poesia 2.0 nasce nel maggio del 2010 come risposta ai quesiti ed alle esigenze emerse all’interno di una lunga discussione su Poesia e Web che ebbe luogo sul blog di Stefano Guglielmin Blanc de ta nuque ( http://golfedombre.blogspot.com.es/2010/04/vimercate-poesia-caldo.html ).

  • loredana magazzeni

    Grazie a Leandro dell’attenta lettura e a Luigi per aver ospitato questa nota.

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