Domenico Cara: “Pietra scissa”

di Walter Nesti

Pietra scissa“La forza dell’aforisma è nella sua perentorietà, come quella dello sgherro nel ceffo. Forza – sopruso”. Questa definizione di Camillo Sbarbaro, premessa in limine al volume di Domenico Cara Pietra Scissa, illumina molto bene il percorso accidentale che l’autore intende svolgere per arrivare a una “non soluzione” dei medesimi percorsi linguistici, a una loro, in qualche modo delimitazione; bensì a portarli ad avvolgersi e svolgersi in spirali centrifughe e centripete verso immaginari punti di fuga o di coagulo.

Già i titoli dei capitoli che compongono questa originalissima esperienza nel campo della “provvisorietà intellettuale” per usare un’espressione di comodo che sta ad  indicare il profondo disagio che coglie lo scriba di fronte alle infinite “possibilità / non possibilità” espressive della parola intesa come coagulo di segni capaci di trasmettere corti circuiti e di mandare in tilt intere zone del pensiero, la dicono molto lunga sugli stati d’ansia o sui patemi d’animo che stanno alla base di una riflessione portata sulla necessità di conferire alle parole un carisma che spesso sfugge a definizioni astratte.

Per es.: ”Da lingua odorosa”, “Acidi obliqui”, “Lembi di velo”, “Peripli della nebbia”, “Inondazione di fuochi”, ecc. sono fanali accesi su un percorso segnato dalle Intermmittences de la connaissance che stabiliscono cesure là dove la parola si arresta al limite della comprensibilità (“Un’ombra amica, ma dove sta la luce che riassume una minore dispersione del suo contatto?”). Però su quel limite si innerva e germoglia l’intima consapevolezza della parola che “dice” e dicendo respira la vita la sua profonda essenza. E’ così che allora si stabiliscono due registri: uno apparente e uno interno, e l’uno e l’altro scambiandosi spesso i ruoli si intersecano su scrimoli dove l’equilibrio si fa tanto più precario quanto più si cerca di rassodarlo (“La mia lingua non si sottrae alla corsa. ma le chimere cercano nel vento un luogo di preminenza, discordante, sconcertante, con un’angoscia finale e la voluttà di aver commesso un reato!”).

Ecco che allora i “segni di cava ed altra rapida carta” (notare come gli opposti trovano, in modo sintetico, una loro non precaria collocazione), si fanno veramente “forza – sopruso”, attaccano alla base il castello delle parole per sgretolarlo ed anche per “cavarlo e ricavarne” percorsi altrimenti inimmaginabili. In questo “sistema di solchi”, come viene definita una sezione del libro, si incunea la torre di babele (un’altra definizione cara a Cara!) del linguaggio che compatto all’esterno mostra le sue intime crepe nel momento in cui cerca analogie e corrispondenze oltre il significato della parola, oltre il suo stesso essere.

Definire queste scritture sic ed simpliciter aforismi non dà la misura piena dello stato di grazia che le avvolge  e le involge definendone contorni di tolleranza oltre i campi magnetici dove si accendono i fuochi fatui sulla palude dei reliquati linguistici cari a scrittori che vedono nell’aforisma solo la “massima”, la “sentenza”, una certezza cioè per circoscrivere il pensiero della vita, definirlo una volta per tutte e nel linguaggio mummificarlo.

In queste scritture di Cara, i fonemi vengono come attratti da una calamita per formare strutture sintattiche organizzate, un “linguaggio – mucchio”, composito, variegato, contraddittorio, pieno cioè di tutte le contraddizioni che l’uomo si porta dentro e riverbera fuori di sé, oltre il limite della propria ombra, fino ad anatemizzarle, vedendo in quel farsi e disfarsi il limite del proprio potere.

Un potere del resto messo in dubbio, soggetto a continue verifiche e riverifiche della propria intima inconoscenza, o proprio come Cara stesso mi ha scritto nella dedica “la sottile atrocità propria dovuta all’inquietudine del tempo comune, ed alla stessa mancanza di centro di tutte le (stesse) effimere consolazioni”.

Non è un libro facile; e per poter navigare tranquilli sulla rotta delle chiare decifrazioni occorre un portolano segreto redatto da ignoti marinai di sentinella alla prora di una nave sbattuta da mille tempeste. Ma è un libro che oltre le (innumerevoli)deviazioni da finti / veri traguardi sa indicare percorsi non ovvi sui quali incontrare ammalianti chimere che distruggendosi e ricostruendosi continuano però a progredire nel loro (anche se tortuoso) percorso zeppo di uscite laterali e a volte inconsapevoli agnizioni.

Certo però che da ora in poi, l’aforisma non potrà più avere i suoi netti contorni; non potrà far leva sulla carica della sua evidenza; ma pur non rinunciando alla “forza – sopruso” e alla “perentorietà”, anzi accentuandole, saprà trovare altri modi di porre definizioni in forma di domande, di domandare definendo. Di essere cioè sempre qualcosa di diverso da quello che era un minuto prima. Un linguaggio (e un pensiero) in continua evoluzione.

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