Se il tormento è diventato la cifra del nuovo sentire civile si può arrivare a comprenderlo a livello esistenziale senza alcuno sforzo, ma che questo debba o possa essere considerato in seno a quel lascito del dire poeticamente civile questo è un altro discorso. Ciò che si racconta e ciò che si testimonia non parlano solo lingue diverse, ma tempi diversi.
Credo inoltre che ci sia un’altra considerazione da fare che è il fatto che gli ideali si perdono quando non ci attraggono più le cause, oggi l’unico dire civile è la presa d’atto dello spaesamento e da qui si deve, a mio avviso, ripartire per una corretta riformulazione della “causa poetica”. La testimonianza ostentata ed ossessiva del quotidiano frutto di dinamiche di socialità apparentemente condivisa ha esautorato una forma poetica .
Poi si fa fatica da una tragedia farne un dramma, mentre invece è più facile, anche per sbadataggine, confondere l’impegno con qualche sfaccettatura umanistica. Salvo esempi validi, seppur rari, siamo davanti a un nazional-dilettante che maschera il contenuto con la predica e la testimonianza con la recensione.
Civile è un atteggiamento, sostenevo altrove, ma anche costruzione di opinione, non lasciare mai sola una risentita reazione. Ho assistito spesso a requisitorie indignate che non hanno nulla della lingua del poeta ma appartengono al loquace, alla lezioncina programmata. C’è un asse che percorre tutti i tramonti, quello dell’intellettuale quello del poeta civile etc… e quest’asse è il rispetto che si deve all’indignazione che non deve necessitare di imbeccate per manifestarsi e farsi udire, ma deve sorgere, scaturire.
C’è in giro una sorta di smania poetica di essere sul fatto, ma questo è protagonismo, referenza o alla meglio, cronaca. Appartiene ancora alla lucina tremula del riflettore, non alla forza dirompente che dovrebbe avere la voce e la denuncia.