se l’arancia trasuda violenza
non puoi farne a meno: la trafiggi
con la punta del coltello
mentre ti esplode in mezzo allo stomaco
un proiettile a frammentazione
avanzato dall’ultima guerra
ancora in corso in corridoio
o forse in salotto ti pare
poi si apre l’anta della dispensa
.
tra i pacchi dei biscotti s’affacciano
migliaia di profughi libici
ti vengono incontro
sorridenti
pieni di fiori nel grembo sfondato
ballando il samba ti riempiono gli occhi
di fosforo bianco – e la cucina
.
.
*
aspiro la polvere
lavo le stoviglie
asciugotutto
disgorgo
.
non è vero niente
la casa è un disastro
percorsa da correnti
le stanze in balia dei venti
.
la casa è sana e salva
abitata da rettili
felini nascosti tra i giunchi
non mangio più i mammiferi
intendo essere mangiato
da bocche d’edera aperte in corridoio
dichiaro che aspiro – non polvere
aspiro fermamente a
.
.
*
[...]
che il fumo ci invecchia la pelle estintore
controllo annuale caldaia
solita esplodere al piano di sotto se i piatti
sono usi crinarsi incrinarsi creparsi
nonostante il boato silenziato l’acustica
ha fatto progressi ci si schianta si schiatta
senza accorgersi dei pezzi
di corpo che saltano un po’ dappertutto la gola
che ci hanno tagliato per prendere
la parte buona della glottide poi
vallo a raccontare al macellaio al
portiere alla maestra vallo
a canticchiare nottetempo
che ne sanno i militari della notte
che poi arriva sui campi in afghanistan
del terrore che assiepa gli
umani inventare leggende creare
catene
di senso
tra capre
sdentate
se diciotto televisori
buttati per strada a natale
messi in cerchio per terra
non fanno stonehenge
[...]
.
.
*
se la voce dell’aereo dice bomba
cadono tutti dall’albero
acerbi o maturi rotolano
per tutta la lunghezza del campo
.
saltano lo steccato
aggirano il blocco al mercato
arrivano fin davanti all’ospedale
fino allo spiazzo dell’ospedale
.
ma è troppo tardi
per curarli
.
le madri li identificano
il dottore mette un pezzo
di nastro di carta sulla pancia
l’infermiere col pennarello
scrive i loro nomi
e li porta tra gli altri
.
le madri si dicono
andiamo a rifarli
l’albero non deve restare
senza bambini tra i rami.
.
.
Nel leggere i testi del libro “Militanza del fiore” di Carlo Cuppini e poi nello scegliere quali qui presentare, mi sono chiesta che cosa possano queste poesie per non farmi sentire un mero lettore di cronaca, tanto più eccitato in quanto cronaca da arancia meccanica.
“Se l’arancia trasuda violenza / non puoi farne a meno: la trafiggi”,
scrive Cuppini, ed è una risposta di azione, non ancora catartica (e come potrebbe?), ma perlomeno di reazione e di riappropriazione rispetto ad uno spazio di lettura che non sia solo camera di osservazione a riconoscere il male al di là dal vetro, sterilmente ben separato, o di mera presa d’atto;
Cuppini continua: “[…]la trafiggi/ con la punta del coltello “ quasi che l’arancia rappresenti il feticcio di una rito di magia che qui si vorrebbe bianca a scongiurare violenza, e che invece è comunque violenza che ripiomba nel quotidiano affacciato sul tavolo da pranzo o sul corridoio, un quotidiano che erompe dal vetro mediatico televisivo, al di là di ogni accomodante divano, al di là che, come auspicato in un verso, la casa sia “sana e salva” (non basta), al di là dell’ “aspiro” – “aspiro a”..
Dice infatti bene Adriano Sofri nella prefazione: “Che cosa cercate nella poesia? Il suono, certo. E poi, che cosa dice, come lo dice, chi lo dice, no?”, dunque ciò che il coltello trafigge, e il modo in cui lo fa, è anche ciò che il verso dovrebbe (e cerca di) pungere: la nostra scorza rosea, per giungere alla polpa viva e (si spera) non ancora del tutto anestetizzata, non tanto per ridestarla alla trincea quotidiana dove finanche l’ambiente domestico parla di “fosforo bianco”, di bomba, proiettile, scheggia, profugo libico, .., quanto per richiamarla ad una voce collettiva che superi e restituisca dignità e potenza a quella che sembra piuttosto la canzonatura rivolta ad una vittima: “poi/vallo a raccontare al macellaio al/portiere alla maestra vallo/ canticchiare nottetempo”.
Questo, perché se è vero che, come mirabilmente sintetizzato in questi versi bellissimi (che sanno dire della storia umana e sociale come tanti trattati) “diciotto televisori / buttati per strada a natale / messi in cerchio per terra / non fanno Stonehenge”, è altrettanto vero che “inventare leggende creare /catene /di senso”, anche “tra capre /sdentate” consente di vedere al di là del buio oltre la siepe, oltre quel “ terrore che assiepa gli umani”.
“Andiamo a rifarli” dicono le madri, “l’albero non deve restare /senza bambini”
e sono questi bambini terreni, che cadono come angeli, ma anche che sono più in alto, e continuano, rispetto alle radici, sono questi bambini carichi, a trascendere il fatto di essere essi stessi dei simboli, come per es, nelle poesie della raccolta accade alle figure ricorrenti dell’angelo o della balena.
È questa allora la magia bianca, scritta, della pagina e della raccolta, questo ciò che rende viva e integra la sostanza di questo libro, così come rappresentata, sempre da Adriano Sofri, nella prefazione: «In sostanza, questo libro “è dedicato a chi, con la poesia, con la parola e con gli atti, si è opposto e si oppone all’assedio delle coscienze”, dato che “è in corso la pulizia etnica del 9 genere umano dalla realtà, noi siamo i profughi della storia, deportati nel regno dell’insensato” ».
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Carlo Cuppini, “Militanza del fiore”, prefazione di Adriano Sofri, m&m Artout Maschietto Editore, collana L’occhio Alato, 2011
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Margherita Ealla
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