Sulla poesia di Beppe Salvia

di Pietro Tripodo

beppe salviaAncora l’indugio di un anno, al massimo due, e non sarà possibile sottrarsi a una discussione sulle poetiche contemporanee se vorremo orientarci in questo nuovo universo con delle coordinate almeno un poco certe, benché provvisorie, di una storia recentissima – o di una cronaca. E il primo commento che a mio avviso occorre fare per la poesia di Salvia non è tanto quello più stretto al testo, cosa che naturalmente, almeno in uno stato di abbozzo, viene prima nel tempo; ciò che invece bisogna dire su questa poesia lo si dovrebbe dire riflettendo proprio sulla sua poetica perché mi sembra che questa sia in grado, anche, di essere alle altre pietra di paragone.

Come può la poesia di Salvia sopportare una spericolatezza tornata inusuale? A parte ho redatto alcuni elenchi per un tentativo di raggruppamento fra diversi, come si vedrà, modi poetici di Salvia. Intanto basterebbe dire che un uso allitterativo di grado enniano, come del resto un uso persecutorio della paronomasia, non riesce a scalfire la sua poesia. Ora cose del genere non sono distruttive solo nel caso di una poesia forte già alla sua fonte, di un messaggio limpido già nella sua essenza. E intanto qualcosa di queste poesie è più facile descrivere se si tenta, e si deve, far distinzione e differenza all’interno dell’opera, in particolare di Cuore.

Si legga una qualunque strofa, per esempio la XXI in “Primavera”; si leggano poi, ad esempio, i versi 9 e 10 di “Inverno” in “Lettere musive” o, nella prima sezione, i primi due versi di “Non nutrica certezza è il dire dono”. Nella prima (“come una figuretta / d’abbecedario / nuvolo nido neve / rondine rivo ramo”) tutto procede, mi riferisco agli ultimi due versi, per contiguità, l’allitterazione è un gioco, forma con altri elementi un edificio aeriforme di ozio canoro, tutto cresce per gemmazione, per sillabazioni e divertimenti fonologici e isocronici e l’allitterazione è veramente “come una figuretta / d’abbecedario”; nelle altre due poesie (ma in tantissime in maniera più interessante e meno notevole) la voce dell’allitterazione oltrepassa l’enjambement, che Salvia porta in genere a un alto grado di esasperazione, e si ferma in entrambe a istituire una concatenazione forte tra rigetto e controrigetto.

In appendice sarei obbligato a confinare cose incredibili tipo la serie di omologie soprattutto foniche di cui Salvia si serve per contrapporre alla misura metrica visibile, al verso, quella appena udibile della concatenazione per emistichi in verticale. Ora in tal caso tutto questo lavoro serve a rendere stato d’animo assoluto un’allitterazione come ossessività, e enjambement onnipervasivo, enjambement e scissione interiore. Sarebbe stato appena il caso di ricordare prima e ancora una volta che “l’enjambement non è solo senso né solo ritmo; non soltanto modifica il metro ma anche modifica il significato”; aggiungo: l’enjambement è uno stato d’animo.

Ma importante, tornando a sopra, è che quest’uso dell’allitterazione, diverso da quel primo, coincide con il tipo di poesia più propriamenre salviano, quello della poesia-emozione, poesia-risentimento e angustia, ed energica, brutale, che dà sgomento per il passaggio di forze inesaurite dalla pagina a chi legge e che dà allarme perché sembrerebbe bruscamente limitare e relativizzare lo spazio delle altre poetiche. E tornandovi (su questo ultimo tipo di poesia) con altro giro di discorso l’allitterazione e la paronomasia estreme, l’estremo enjambement (e, come vedremo, lessico anacronistico e però anche quotidiano) sono sopportati incredibilmente bene da un’impronta in assoluto di centralità, di tradizione, anziché eccentrica, di questa poesia, che di quei fuochi iridescenti e, tra virgolette, formali armoniosamente, fortemente, necessariamente si innerva.

Ora io credo che ciò avviene perché questo tipo di poesia – in cui ogni figura del dire non è mai fine a se stessa – è giusto il contrario dell’estenuazione, soprattutto quanto a spirito, quanto a essenza, indipendentemente, se fosse pensabile scindere quel che è uno e basta, dalla sua tessitura formale. Proprio queste ultime sono le poesie maggioritarie (A) in Cuore, quelle che segnano il libro, a petto delle altre (B), quelle del gioco e dell’intermezzo, il cui modo strina a volte l’altro, maggioritario, anche fosse per un solo verso, magari in un explicit con un superlativo (“I baci sono bellissimi doni”, “vetture vanno silenziosissime”) per clausola ritmica – e questa ne è l’unica ragione.

Alcune poesie (C), non molte, stanno fra i due modi, come sospese, ma queste non istituiranno un’ulteriore poetica, di lingua separata, straniera, parnassiana, e in chiusura dirò di questa tendenza. Un altro tipo di poesia terza (E), sospesa tra due modi di essere, è quella di Estate, a parte l’attrazione di alcune poesie verso il modo del gioco e dell’intervallo, e a parte un minimo numero di versi ancor più autentici alla poesia per me più salviana.

E appunto alcune poesie, poche, in Cuore e in Estate appartengono ad un quarto gruppo (D), affetto, anzi sempre solo minacciato, perché pochissimi ne sono gli elementi, magari due o tre versi e finali, dal manierismo. Quale manierismo? Quello salviano, quello che l’autore crea ripiegando su sé, come alterando maggiormente che altrove prima della poesia il suo sentire. La sua poesia è sempre, tranne che per il gioco, in presa diretta con il cuore. Tuttavia questa presa diretta pur rimanendo è meno percepibile in questo quarto gruppo, ma se non m’inganno un manierismo particolare viene oggi potenziato perché raddoppia l’inevitabile, ancorché solo postulato, manierismo generale. Anche di questo gruppo faccio elenco a parte.

Certo, un denominatore accomuna tutto questo vario canto, o compreso il gioco ma esclusa la maniera: la diretta relazione, ma questo è quel che di più è indimostrabile, tra parola e cosa, tra idea e materia, tra immagine e sostanza di fenomeni, e l’irruzione dell’esperienza nella parola scritta e dappertutto l’eccesso; mi piace Salvia per il suo eccedere continuo che poi esplode e poi resiste e freme nella sapienza e nella memoria e insieme nell’eversione delle due poesie. E dice, in una delle sue dichiarazioni di poetica: “Come fiori / di mandorlo e di pesco le parole”.

Quindi delle varie tessiture formali, vesti del suo sentire, e suo sentire, un primo tipo gli serve per quella sorta di contro-canto (B), di riposo per silenzi e sillabazioni, parte minoritaria in Cuore, ed è, la veste, un gioco volatile di suoni, di musica, e la poesia consiste in questo, di questo. Ma per quanto riguarda quelle poesie che, ripeto, a mio parere sono il cuore stesso (A) della poesia salviana, colonne d’inizio e termine, nel libro maggiore, e fonte di attrazione, un’emozione forte vi spira sotto la specie di iperattività retorica, che è a un tempo risultato e sostanza di poesia (questo tipo di tessitura piena e irta appare comunque, con effetto diverso ché qui non v’è in genere essenza di pari energia, nei due modi poetici che ho contrassegnato con C e D – per ripetere, in quelle poesie tendenti a una lingua “altra” (C) e in quelle in cui meglio, non come valore, strutturate sono delle “zone” manieristiche).

La veste formale risulta a posteriori rispetto all’emozione, forse; ma il suo tessuto (“bistro felice crudo machigliaggio”, ove “crudo” sarebbe da accogliere sia come “forte” sia come “crudele”) è così fitto nella trama che non si può non pensare, positivamente, a una prevalenza subcorticale, subliminale di questi procedimenti. Ma ciò non cambia i termini; si scrive e si agisce sulla tradizione anche, o prevalentemente, d’istinto, perché un certo istinto si nutre di cultura, di civiltà; diventa memoria; sicché c’è qui sempre l’intuito, almeno intuito, di un’arte poetica nuova e colta.

Tutto sembra scaturire da un primitivo sdegno e da una furia che è anche furia di significanti e poi da una rabbia che è anche rabbia della forma e questa ricchezza rischia di abbattere in partenza qualsiasi tentativo di analisi (penso a questi versi: “e non ho che la vita e questa vita, / e non la gloria dei lessici e del metro”).

L’anacoluto, in breve, veicolo di un messaggio (e messaggio lui stesso) che la normalità sintattico-logica non tollererebbe, insieme con l’asindeto agisce rafforzato dalla serie fonologico-metrica. Questa correlazione tra diversi livelli è essa stessa la sola veste che sopporti l’urto nervoso o l’urlo silenzioso di una sostanza formidabile, di un’intollerabile urgenza.

In Estate c’è il gioco, immagini di solitudine da un lato, come per gli intermezzi (B) di Cuore, e dall’altro un tipo di poesia che un po’ quella maggiore (A) e un po’ ripiega su se stessa (D) in un certo senso più di quanto l’ortonimo abbia fatto in Cuore, e questo rallentamento del tempo mi sembra istituzionale, qui non è Beppe Salvia, qui è Elisa Sansovino. Qui la violenza si dissolve forse in malinconia.

Nella prima, in “Poesia” (“d’una ghiaia le pietruzze”), i tre versi iniziali rendono atonale sospiro una misura metrica al Pascoli cara proprio per il ritmo, per le sue (le loro: dell’ottonario e del novenario – qui uno piano e uno sdrucciolo) possibilità ritmiche in questa pagina azzerate. Dopo un versicolo d’angustia adolescenziale ecco un settenario e un quinario adonio che son delicata e chissà se involontaria parodia di sintassi omerica. Oltre un settenario con sintagma infine rovesciato e impressivo per ictus su quarta e sesta sede (sintagma il cui valore ipotizzo più sotto), “e qualche straccia carta”, si giunge a un tibicen senario, anzi a un arco fra due colonnine ritmiche, di allitterazione (“e involucri e un vetro”). Segue una mimesi di metrica barbara, di doppio settenario ma cesurato secondo lo schema 5+7+2 (“forse le piume – dei voli sopra noi – e l’ale”), con una doppia serie di assonanza-consonanza intersecata nell’elemento centrale “voli” in 7a e 8a sede, forse le piume o vOLI L’ALE, con timbro alternato ó-e /u-e ove tonica è in entrambi i casi la prima vocale e consonanza in E LE, due sedi atone, seguendo i parossitoni vOLI L’ALE, serie cui segue l’altra di assonanza vOLI nOI, e questo verso è l’omphalòs oltre il quale troviamo un novenario anapestico-dattilico di stampo ritmico meno solito per l’accento mediano in quinta sede (“péste d’uno sféx – e l’oleandro”). Oltrepassati due settenari isoritmici (“ridosso al cancelletto / di villa padronale”) che nella loro somma più che al doppio settenario farebbero pensare, per la rigidità, per l’esitazione scandita come un intimo ritornello, fra impertinenza e tremito, a un doppio quinario, arriviamo agli ultimi cinque versi separati a mo’ di exursus ellenistico che, per alcuni semplici elementi in quattro di loro e per sinergia con l’anticlimax producono una poesia antisalviana per inopinato, ancorché voluto – ma è per questo fortemente, e per fortuna in lui non troppo pervasivo, voluto che provo rabbia – svuotamento, puntiforme contropoetica interna. Avevamo trovato, avversativamente, un emblema della poesia salviana (tanti se ne trovano soprattutto in Cuore), “straccia carta”: tradizione ed eversione, come in Cuore, per altri livelli, “domani mi licenzio”, “faticavo tanto” e “usbergo”, “ch’io / non sapeva”, aure, occaso, glauche, quotidianità e anacronismo riaccesi e librati in cielo nuovo.

Dopo i bagliori (come in “Basta che sfogli un libro dove” o in “Nella cassapanca è l’abito bianco”, queste due accomunate, fra l’altro, da uno struggimento che nessuna finzione, nessuna insincerità riesce  a scalfire, e poi da una rimalmezzo ipermetra – nella seconda, come in altre poesie, differita da un verso) dopo i bagliori di Elisa, di quest’invenzione eteronimica e abbastanza, è tentazione dirlo, eteronoma all’interno della poesia salviana, dopo i bagliori di una natura alla Lucio Piccolo ma più attualmente – e così anticamente – magica, i fiori d’arancio, una canzone triste, “un panno / che di resèda profuma”, arriviamo al termine de “La fotografia d’un chiodo cui / è appesa la tua fotografia” introdotto, in una poesia subito precedente, da un’alterità, “vale chiedersi / questa domanda di rito?” e che esplode, anzi implode nella finale, falsa paralogia “so una fotografia / non la tua mano può porgermi / non il sorriso tuo e amarti”. A sua volta questo explicit è preludio all’ultimo “Ninfale”, in Cuore: “Di questo genere del mondo / che è l’esser vero l’inconsapevolezza / giovanile fa nascere qualcosa / che soltanto l’amore della ragione conduce / ad esser vero”. Falsa paralogia, ma qui Salvia ci porta un po’ in giro, e chissà se anche altrove, perché dopo che siamo arrivati a una possibile logica tutto sfugge a un minimo di disattenzione e tutto si maschera da vera paralogia.

Si diceva delle poetiche. Oggi mi sembra davvero pigrizia ed eccessivo timore – non rispetto – del passato e dell’ombra dei grandi il rimanere al principato del significante e ai suoi giochi, alle sue distrazioni; mi sembra che, relativamente a una cronaca delle poetiche, i libri di Beppe Salvia siano l’inizio di qualcosa che non so definire e la fine di ogni arte riflessa, dell’arte per l’arte, almeno per questo piccolo ciclo di decenni, di tre decenni. Cuore per me ha l’effetto di un’opera profondamente e felicemente romantica in mezzo a stanche pastorellene, quali sono quelle cui mi dedico io. Cuore dispone diversamente da prima l’attuale, giovane universo della res publica litterarum, anche se accanto alla sua esistono poetiche che altrettanto si giustificano e nessuna di queste, anzi, si adagia mai interamente sul gioco, nessuna cede alla paura di dire qualcosa veramente. In qualche modo esse non rinunciano a un’interezza. Quando cominceremo a discuterne allora entreremo nei particolari, su chi e come. Certo questa è un’epoca di ultramanierismo, quel che sembra sincero spesso è falso, ciò che sembra ingenuità può essere furbizia, ma tutto questo non c’entra nulla e cosa cambia? Quello che importa è se una poesia ci dà emozione e se un libro è lo scrigno in cui un poeta ha cesellato la sua massima fatica e ogni volta che ricarichiamo il carillon o rimettiamo il disco una bellezza ci incanta.

Dopo la poetica di Salvia le altre che mi sembrano valide oggi, alla fine o al definitivo rafforzamento della reazione alla Neoavanguardia e che son rappresentate dalla generazione degli odierni trentenni sono quella neo parnassiana (iuxta Mallarmé, s’intende, et alios sectatores – non altri)e, minormente, quella neocrepuscolare (da Corazzini) con venature di nostalgia per il mondo classico. Ho cercato fin qui di dire, tuttavia, che se il lettore cerca una poesia nuova e che nello stesso tempo – nonostante un certo manierismo, che però non prevale, e nonostante, per necessità, sia colta e luminosa nel suo sfoggio di autentiche gioie – dica (e con una violenza intollerabile) cose, allora deve leggere Salvia e in particolare il Salvia delle poesie maggiori (A).

Salvia non crea un’antipoetica forte e definita che possa contrastare quella delle sue poesie maggiori (a parte, forse, quelle del gioco (B); e ciò non avviene – penso soprattutto al tipo C, alla poesia quindi che non né immediato messaggio (A) né gioco (B) – perché egli non ha un ideale parnassiano della lingua poetica, la sua non è una lingua “altra”, non è musica nel senso che non vi aspira, la musica annula in qualche modo il senso, egli invece ha un messaggio urgente da dare e forse la cosa più bella, più giusta, più vera è l’urgenza stessa di questo messaggio.

Adesso voglio salutare e ringraziare questo cantore dell’angoscia, sperando di non aver prevaricato nulla dal momento che non ho voluto soltanto innalzare una torcia a questa notte, ma stare un po’ – con una lente non so se adatta, non so se buona – tra quelle poesie, quei misteri percorsi da un tremito e che ci sfiorano e spesso ci danno sgomento per una prossimità assoluta.

Per quanto riguarda il raggruppamento A le sezioni, in Cuore, “Cuore”, “Nintale”, “Sillabe” ne sono interamente occupate. Altrettanto si puo dire dell’“Inverno dello scrivere nemico” con la postilla secondo cui talvolta una magia sonora o ritmica tende a sopraffare gli altri elementi. Postilla che converrebbe di piu a “Lettere musive”, tantoché al posto di dire che in questa sezione è armonica oscillazione tra due poli, A e direttamente C, sarebbe più giusto per nulla (o quasi) questa sezione (quella d’apertura, “estate”, “autunno”, “inverno”, “del metro”, “non luci non serene passioni di”, “è presa la vena, carezzala, fa”, la conclusiva eponima e forse qualche altra) non si può certo parlare di inanità sonore come lieve telaio a una forte volontà di astrazione: qui una lingua lontana, inafferrabile è solo una tendenza, e quindi parlerei solo di C come tendenza quasi ovunque o, forse meglio, di quasi-A, di distillazione di A.

B: in Cuore l’arte riflessa del gioco sta in sezioni che ritengo secondarie (tengo per secondaria l’arte riflessa, l’odierna riflessione della riflessione, parente stretta del “voluto”, parente stretto – ma qui è fuori contesto – del neo concettismo tanto di moda): a ritroso, “Volare”, “Primavera”, “Cieli celesti” (in tale ultima sezione le poesie, tranne “Elegia” I e II, “corte di grida” e qualche altra, sono appunti, frammenti, ricordi isolati di emozioni). In questa classificazione non rientra la parte quinta, “Versi”, in cui una visione già vibra e assale come un tormento e un incubo. In apparenza sorella di “Cieli celesti”, questa sezione in cui la prepotenza salviana, accende tutto in un fremito non è che un diverso aspetto del raggruppamento in A, vi tende, e ciò somiglia a una parte di Estate.

Queste poesie non sono un gioco, sono tremende, e se non fosse per il flauto salviano, se non fosse per un certo, passim, marchio adoscenziale, qualcosa (“Tremano, sono le aperte creste”) ricorderebbe quella parte di spiritualità, desertico diario landolfiano che è in Viola di morte. Ugualmente per poco inganna “Canzone d’estate” per la sua forma grafica, anche le due poesie di cui è composta rientrano nell’area A. Nella prima parte di questo scritto mi sono soffermato su parte, a mo’ di esempio, di “Primavera”, tipica B.

Per C gia l’apertura di “Lettere musive” ne dà un assaggio. Ma poi questa estrazione del dire, questo differimento del concreto, questo incanto e inganno ininterrotto, benché per asindeto, invade nella stessa sezione: “conosciuto avresti avuto oh, sogno”, “Voi segnerete l’ombra – (strinata più di altre da una maniera, almeno, ritmico-allitterativa), “Sempre la spiaggia dove non fu”, “il viso è quello che più temo, l’orlo”, “il raggio di polvere il foglio”, e poi l’ultima poesia dell’ultima sezione, “egli non ama certamente il grigio”. Di questo raggruppamento di cui questo presente è appendice.

Quanto al raggrupparnento D, quello della maniera, qualche volta è rappresentato da un’intera poesia ma più spesso questa maniera strina o interseca soltanto. In “Ultimi versi” la poesia d’apertura ne è però lievemente immersa tutta, e la dichiarazione di questo manierismo, la sospensione da un’intensità del messaggio è nella transduzione di immagini in immagini per discontinuità, asindetiche, così come i legami sintattici avvengono per quel tipo di paratassi asindetica, cara a Salvia, che alcuni grammatici assimilano all’ipotassi. Nella seconda le congiunzioni subordinanti non compaiono per cambiare qualcosa ma, per cosi dire, scandiscono un non-dire, girano a vuoto: non·dire sempre relativo in Salvia, che ivi commenta, “da che t’affanni in levitare eloquio / a strambo stile dei versi e d’abbandono / hai limite e sicura abilità / di dire in equale virtù e vuoto”, abilità qui limitante, più che a mia “verita…, senza idea”, al giusto contrario della fondamentale poetica di Salvia, a un’idea senza verità. Le due successive sono composte da una stanza con principi del tipo che abbiam visto prima e da una tornata, se si concede un ossimoro, assolutarnente irrelata, quintessenza di tutto questo particolare supermanierismo. Interessante è che, nella grande strofe della seconda delle due, le parole sono talmente oggetti che sembrano sfondare i caratteri tipografici, e ciò in una zona in cui ci aspettano solo il vuoto. Anche interessante è nella seconda parte di questa grande strofe (“Esclamativo il vano moto / sgraziato che assomma, a far dello / universo l’epifonematico / velo. Io segno nero / su bianco.”) il fatto che, se non fosse per la soluzione degli ultimi due versi, il lessico e tutto l’apparato metrico e stilematico la farebbero somigliare a una germinazione neo parnassiana della fine degli anni settanta –   ignoro quando, con precisione, Salvia abbia scritto queste poesie, e il caso ha voluto che non ci incontrassimo mai. Sempre in “Ultimi versi” la penultima non ci dice nulla di nuovo su questa sezione, ne è perfettamente inclusa, e l’ultima è pure manierista ma solo in quanto farcita da qualcosa, da primordia rerum manieristici o meglio da un solo verso (“cui mi piace cennare e mi conduce”) che per il suo vuoto giocare rischia da solo di inficiare tutta la poesia, anche se la tensione vi si mantiene forse inalterata.

Di E, le poesie di Estate, ho gia parlato e qui è solo il caso di ripetere che se ne potrebbero trovare di somiglianti a tutti e quattro i tipi precedenti se non fosse che il libro trova effettivamente un denominatore nella nostalgia, nei trerniti, nello struggimento di un diario attardato e nelle compassioni e vibrazioni per una forte natura presente e cosmica, nella disposizione alle infinite, ma invece anancasticamente uniche nella favola del libellum, possibilità dell’amore: ciò riesce, se non mi inganno, bastevole a creare qualcosa di autonomo.

Con dei gioielli della poesia salviana piacerebbe chiudere: la magia paronomastica, la rima e i giochi con figure di iterazione quando questi elementi sono fusi per un solo incanto: “tutto l’amore è stato, / l’amore d’una notte le lotte / futili l’ardore inodoroso / l’oso e non so che ridere”; i sintagmi riaccesi come la straccia carta, il “sordo fischio” o, perché inserito nel gioco che vedremo, un teoricamente banale scioglilingua, “gote glabre”, ma con questa diversa (e da vedere nel contesto) provocazione “tese le gote glabre, gonfia”, oppure “muta teoria” per costruzione, in incipit, del tipo: “Una di pinastri in riga muta teoria”, e proseguendo: “fa vagarmi tra tanti falbi / ricordi, amici pensier di bella briga, / come i monumenti scialbi fossero / d’amici ormai fugati, fuga il pensiero / stesso di loro, di lor brigata ricca”; un affinamento metrico, d’istinto o no, e classicheggiante: nella medesima poesia, la seconda che si incontra in Estate, “pigro cespuglio fossero” e la chiusa, “ove hai dormito”, clausole leggere di strofe mimetizzate; o nella strofe saffica, anziché per endecasillabi come da prevalente tradizione barbara, quella invece adottata pure, minoritariamente, dal Pascoli, di decasillabi (piu ovviamente un quinario adonio), e come a volte nel Pascoli, isolata, un frammento (ma il richiamo è solo di memoria metrica, ché nulla sembrerebbe assimilare Salvia a quel poeta, se non un generico – ma quanto strutturalmente diverso — incanto per suoni).

E la solennità, qualche volta mascherata per ictus (variatissimi) e sintagmi, del piu nobile e antico endecasillabo italiano, quello con cesura 5 + 6, detta italienne, in tantissimi luoghi. Alcuni deboli (costante difetto all’estensore di queste note) esempi fra i numerosi: tre (quart’ultimo e ultimi due) fra gli ultimi quattro versi della VII poesia in Cuore (si riportano tutti e quattro per, come minimo, il gioco di consonanza) “l’acuto stride d’un lido novello / che t’appresti all’udir docili l’ale / di procellarie; aquile soltanto /, ampie e veloci ali di un velario”, richiamante, solo per i suoni, la chiusa della prima di “Ore”, “di sole e ombra d’ali e ombra”; altrove in explicit, con sinalefe tra i due emistichi: “l’animo mio in una contraddanza”; incipit e chiusa dalla prima di “Lettere musive”: “come di stelle non sofferte cielo”, “d’acque alla cieca l’animo tentando”; la chiusa di “autunno”: “festa il piovasco ha rubata alla sposa”; e di “inverno”: “rispetto antico senza grazia a macchia” anche in un II verso, successivo a un raro, per ictus, a maiore (si produce tutta):

Ma oltre queste verità e dentro queste
vuote parole ho perso la misura.
Ora io so soltanto che son seduto
a questo tavolo e che per tanto buone
ragioni ho tempo e da spendere.
E mi basta cosa senza nemmeno
maledire. Non è perdere al gioco,
e poi fa bene vivere. Un’arte
marziale voglio imparare, di che sempre
si possa indugiare di far male.
Un teatro astratto di colpi e pensieri
per i giorni neri. E poi le gioie e insieme
con gli amici far niente.

e ancora come chiusa e ultimo termine di un anticlimax, infinità multiforme di tre strofe:

Non luci non serene passioni di
nuda vastità dimorano gli uomini,
ma vagabonde mete ed improvvise
rauche voci come fosser nodi

d’un filo che circonda, perimetro,
la rete che pescano; refe, mite
artificio che sospirando filano
arcolai opachi come vetro,

e pur d’umane ammende è colma sfera
ogni speranza, lume nuovo vedo
nel filo nel vetro, dietro la vera
vita la sorte ch’è un sospetto, sete
appagata d’altra sete, serica
brezza che muove ceppi dell’erica
minuta; tela che ha perle rosse
luci serene occhi degli umani.

(Da “Capoverso”, n. 2, Luglio-Dicembre 2001 e n. 3, Gennaio-Giugno 2002, Edizioni Orizzonti Meridionali)

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1 Comment

  • Bellissima, complessa, profonda, articolata lettura della poesia di Beppe Salvia da parte di un grande poeta come Pietro Tripodo ahimè scomparso alcuni anni fa. Fra parentesi, credo anch’io che l’enjambement sia in primo luogo uno stato d’animo. Rosa Salvia

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