Vorrei poter rispondere al quesito sulla buona poesia senza cadere nella trappola che si cela nella domanda: istituire un canone. Non è vero che il canone non esiste più: anzi, oggi ce ne sono troppi, uno per ogni testa pensante, uno per ogni blog, uno per ogni sito, uno o più per ogni rivista, e questi canoni-cannoni si sparano tra loro… e basta. Questo, almeno, a volte.
Producono un grande frastuono di parole, più spesso.
Buona poesia, buona letteratura, buona musica è ciò che rifugge tutto questo. Anche la stessa definizione di “bontà”.
Perché ciò che è “buono” conviene al sistema, al canone, ai valori condivisi, al discorso teorico che sostiene la prassi poetica, a un’estetica comune*, etc. ed è per questo, al massimo, “buono” quale sinonimo di “interessante”. Come a dire che la carne non c’entra.
Invece è carne esposta, la “buona poesia”, perché tenta di uscire, ed esce, da ciò che è poesia, corpo organico, già riassunto in un discorso.
È altro, senza essere per forza di cose soltanto spiazzamento, soltanto oltranza.
In un passaggio del Tractatus di Wittgenstein, poi ripreso da José Saramago come epigrafe delle Intermittenze della morte, si legge: “Pensa per esempio di più alla morte – e sarebbe in effetti singolare se tu, in questo modo, non dovessi apprendere nuove rappresentazioni, nuovi ambiti della lingua, nuove parti della terra”.
L’altro, “le nuove rappresentazioni poetiche”, si producono nei tre ambiti che Wittgenstein, definiva come essenziali e comunicanti tra loro. Sono gli ambiti in cui, di cui la poesia è fatta, oppure poesia la poesia non è, tout simplement: lingua, terra e morte.
Anche la poesia sociale è poesia, in questo senso, se è poesia-lingua, poesia-terra, poesia-morte. Oppure è manifesto.
Anche la poesia di ricerca è poesia, in questo senso, se dice la lingua, dice la terra, dice la morte. Oppure è spontaneismo: variazioni su un tema intellettuale.
Anche la poesia lirica è poesia, in questo senso, se è lirica di lingua, di terra e di morte. Oppure è spontaneismo: variazioni su un tema del Sé.
La lingua, la terra e la morte si possono certamente dire anche in prosa, soprattutto l’ultima. E così la poesia che parla principalmente di morte e vita, di morti e di vite, la poesia che si racconta ha sfondato più facilmente nella prosa: prosa poetica/poesia narrativa. La poesia che parla principalmente della lingua ha tentato lo stesso percorso, recentemente, e con successo: prosa di prosa. La poesia che parla principalmente della terra invece ancora non ha attecchito nella prosa e, a mio avviso, questo è il segno, insieme ad altri sintomi relativi alla prosa poetica o alla prosa di prosa, che il progetto non regge. È un progetto che produce solo buona poesia, o meglio ‘poesia buona’: poesia che conferma il sistema, che continua frattanto a reggersi sul binario prosa/poesia e a postulare mille superamenti, che si rivelano poi, quasi sempre, come superamenti interni. Lingua, terra e morte: insieme, per l’altro, per l’oltre (ma non in loro funzione: ‘alterità’ e ‘oltranza’ sono le parole difficili di un tema intellettuale, e come ho detto le variazioni non mi bastano, non credo bastino).
Lingua, terra e morte parlano non solo dell’altro, ma anche del tempo: la poesia è tempo, dal canto degli antichi al respiro di Celan. Il ritmo è importante, aldilà dell’applicazione più o meno esatta delle gabbie metriche. Una poesia che va a capo a caso tradisce l’emergere anche spezzato del respiro, lo si ‘sente’.
L’interruzione di verso dev’essere sicura di sé, arrivare al momento giusto. Altrimenti si scriva in prosa, riuscirà molto più facile.
*L’estetica è sempre situata. Apprendo dalla critica postcoloniale che i testi che non direi essere “buona poesia”, o poesia, in generale invitano alla sospensione del giudizio, o all’applicazione di giudizi diversi, perché appartengono a estetiche altre, spesso ibride. La poesia migrante italiana, per esempio, benché siamo culturalmente rimasti al giudizio di pig italian di Raboni (variante acidamente razzista di un termine più comune, e che non ha nulla a che fare: pidgin) può essere non soltanto poesia buona – politicamente o culturalmente parlando: poesia ‘corretta’ – ma anche, e capita: buona poesia.
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