Parola ai Poeti: Domenico Cara

 

Qual è lo “stato di salute” della poesia in Italia? E quello dei poeti?

Lo “stato di salute” e la sua  beatitudine sono piuttosto lieve spoglia. La  poesia infatti gode ancora di tutte le imitazioni da maestri di cui tanta parte della sua produzione è derivata. L’infinità di azioni è puntualmente teatro e farsa, offerta simultanea di credito e di aleatorie prospettive. Le letture pubbliche, le elaborazioni visuali, le significazioni sonore, le vicende dei premi, offrono ad essa pubblica continuità, insieme alle riviste afflitte dai costi, dalla cancellazione della “storica” e utile “tariffa ridotta ”, ecc. Lo “stato” dei poeti invece è più superficiale e amaro: scarsissimi lettori, tra l’altro assaltati da scimmiottatori diffusi, virtuosissimi invidiosi che, di tutto punto operano calcolando le pratiche usate dai più noti autori diversi, accostandosi al loro sottobosco, spese postali in proprio, esclusioni massicce di ignoti, obbligo agli abbonamenti , che soli possono rettificare la cifra da versare al tipografo per la difficile operazione pubblicistica, gli omaggi a critici, a parenti  e ad amici, sono festa confusa e mobile della gratuità, da cui emerge il sogno intimo di aver diffuso il proprio nuovo messaggio “creativo”, spesso illetto, ad uso di se stessi e di una pantomima che dura lo spazio di un mattino sulla platea e sulla scena indifferenti.

 

Quando hai pubblicato il tuo primo libro e come hai capito che era il momento giusto? Come hai scelto con chi pubblicare? Cosa ti aspettavi? Cosa ti ha entusiasmato e cosa ti ha deluso?

L’esordio è sempre opportuno ad “ogni scarrafone che è bello a mamma sua…” e quindi “giusto “ il suo momento. Per pubblicare ho inventato io un’edizione privata “ la Crisalide”, che tardivamente mi sono accorto fosse il titolo di una silloge poetica di Diego Valeri, del quale ho pubblicato una manchette con un suo giudizio nella stessa silloge : Arie senza flauto (1959). Per esso mi ha scritto dall’America Giuseppe Prezzolini, da Bergamo il maestro Gianandrea Gavazzeni; Aldo Garzanti, della cui Fondazione ero ospite a Forlì (sua città natale), era entusiasta (lo è stato poi continuamente); Alfonso Gatto mi diventò amico, Carlo Betocchi mi ha promesso una recensione, e poi una serie di poeti, senza scrivere alcunché, mi ha dimostrato affetto e disponibilità personale, seppur per un periodo abbastanza limitato. Erano, per esempio, Mario Cicognani, Alvaro Valentini, Alberico Sala, il quale ha scritto una suadente riflessione critica sul “Corriere d’Informazione”. Aldo Spallicci mi ha invitato a scrivere su una sua rivista politico  – culturale e sulla “Piè”, su “Il pensiero romagnolo”, che mi ha affidato una rubrica di notizie critiche: Colpi di sonda, il cui cimelio più importante –adesso ricordo-  è una densa cartolina di Antonio Delfini. Il  volumetto di versi  è stato inevitabilmente rifiutato (per la sua forma esigua) dalla Biblioteca Library di New York, consegnato da studioso amico, ma l’ingenua vanità non si è indubbiamente fermata a quel caso inadeguato e forse ricreativo.

 

Se tu fossi un editore cosa manterresti e cosa cambieresti dell’editoria poetica italiana? Cosa si aspettano i poeti dagli editori?

Sono un editore e ho curato fino a qualche anno fa un premio letterario, che ha accolto nomi di notevole eminenza e valore. Dell’editoria poetica italiana non cambierei nulla. I poeti si aspettano di tutto e sognano edonismi uranici per i loro versi, di qualsiasi entità siano. Se mai, gli editori devono distribuire i libri meno pigramente o su passività assoluta; molti (dovuto a una malintesa professionalità) si occupano del libro successivo e mai (o quasi) di quello ormai “saldato”. Questa è la peggiore solitudine per chi scrive. Un editore di ottimo nome, per esempio, mi ha chiesto cinque copie del nostro libro per partecipare a un premio letterario, prima che ordinassi qualcuno (o tanti)! E, infatti, innumerevoli vecchi e nuovi autori, si fanno loro stessi editori, promuovendo sigle estrose, onestissime, perché in tanti casi non esistono profitti e obblighi di acquisto, né timori che non si eseguano spedizioni da alcuna parte.

 

La poesia di domani troverà sempre maggiore respiro nel web o starà in fondo all’ultimo scaffale delle grandi librerie dei centri commerciali? Qual è il maggior vantaggio di internet? E il peggior rischio?

Non scorgo innovativi modelli per aumentare il “respiro” della poesia futura da quelli in atto, tentati in sensibile misura, ma temo che le pubblicazioni culturali, convinte di agevolare il dramma dell’indifferenza verso la poesia e le troppe delusioni dei poeti, non siano proprio adatte al “successo”, attraverso recensioni a corpo illeggibile, anzi credo che consumino pagine e che lo stesso rischio non ripaghi alcuno, dedicando uno spazio disattivo e senza immaginazione.
Il testo, così, diventa buio profilo, capace soltanto di adottare un innocente genere di finzione e di illusione, anziché una generosità complice (visto tra l’altro che lo spirito recensivo resta puntualmente legato alle diverse docilità dell’ottimismo, piuttosto che alla filosofia della stroncatura o alla sospensione del giudizio).

 

Pensi che attorno alla poesia –e all’arte in genere- si possa costruire una comunità critica, una rete sempre più competente e attenta, in grado di giudicare di volta in volta il valore di un prodotto culturale? Quale dovrebbe essere il ruolo della critica e dei critici rispetto alla poesia ed alla comunità alla quale essa si rivolge?

“La comunità critica” c’è già, ma è devota ai cosiddetti “soliti noti” e alle persone amiche. Non esiste l’idea di scoperta e di sfida o viene taciuta contro gli sconosciuti. Lo stesso criterio trascura o sfugge i nomi non eclatanti, i solitari privi di pubbliche linfe e poteri (o averi?). Una rivista letteraria, recentemente, ha dedicato a un giovane accademico i tre interventi detti nel corso di un’assise pubblica e dedicati al suo primo romanzo! Lo stesso spettacolo si svolge nelle commemorazioni di poeti piuttosto conosciuti o assai noti, mentre altri, restano puntualmente comparse vaghe, insufficienti, con profili senza importanza; ignorati sine fine gli stessi autori dimenticati e con un curriculum vistoso (e tutto inutile alla ripresa del nome). Ecco infatti la divinizzazione di Calvino, Sciascia, Sanguineti e di qualche altro, senz’altro rientrato nel “gioco” duttile e provvisorio dei diversi post – mortem! Il nuovo ruolo della critica e dei critici è dentro questo dissenso, e per fortuna non offre catastrofi al mondo, altrimenti il male potrebbe subito moltiplicarsi con l’aggiunta di naufraghi che dispongono della medesima esperienza.
La questione non è risolvibile da quando il progetto critico è aziendale, salottiero, partitico, inevitabile alla negazione, ed è inutile dettare usi ulteriori per mutare le cose a coloro che sono (e saranno) sempre più incagliati nell’artificio professionale della fama, utilizzata dai massimi editori, nella cui trascendenza culturale è espresso il sostanziale dominio.

 

Il canone è un limite di cui bisognerebbe fare a meno o uno strumento indispensabile? Pensi che nell’attraversamento della tradizione debba prevalere il rispetto delle regole o il loro provocatorio scardinamento?

Troppi teorici raccontano se stessi e, alcuni sul medesimo filo, tentano di essere efficienti e diplomatici maestri di conoscenza del problema. Tutto sommato, se le cose cambiano, lasciano amari gli altri che sono abitati dalle consuete comodità culturali, sociali, perbenistiche. Dal labirinto, da dove dico queste esperienze, che non sono solo mie, e affatto provocatorie o polemiche, come accade a innumerevoli figure del percorso, l’essere costretti all’immutevole impone alla vocazione reale o irreale che sia, tanto adattamento e pazienza per risolvere i traumi dell’amarezza. I vasi a Samo sono dopotutto anche tanti, e destinati alla pioggia piuttosto che alla sete e, quello che è grezzo e usurpativo, o sovrapposto all’itinerario accettato, non va scomposto anche nel massimo disordine, e può darsi che i mediocri siamo noi, proprio perché fuori causa, mai colti per partecipare alle ragioni e al conflitto della condizione umana.

 

In un paese come il nostro che ruolo dovrebbe avere un Ministro della Cultura? Quali sono, a tuo avviso, i modi che andrebbero adottati per promuovere la buona Letteratura e, in particolare, la buona poesia?

Ci siamo affidati, a volte, alla voluntas degli enti statali, ma essi non sanno ciò che vogliamo o facciamo quotidianamente, perché i loro interessi sono molto distanti dal nostro immaginario. Il poeta per esempio, non ha uno spazio tra i compagni di strada, i vicini di casa, gli amici più fortunati e/o dotati, e ci aspettiamo che le istituzioni si occupino del nostro caso? E poi, non è risaputo che ogni aiuto, anche minimo, ha tempi lunghi e, simultaneamente, si dà per “indigenza” (sic) e, come un’ascesi, un’iniziazione alla vita, è considerato una fertilità straordinaria e un prezioso momento per produrre democrazia, che deve rendere tantissimo agli eventuali dispensieri – burocrati.
Alla “buona poesia” basta quello che già fa e la tensione dei suoi valori. Ma i “poeti della domenica” (come si diceva un tempo), i pensionati che diffusamente scelgono la poesia per farsi famosi prima di morire, mentre dettano autobiografie, che ricordano un’infanzia prolifica di versi abbandonati per far carriera professionale e per civile responsabilità domestica, lasciano quasi subito il loro genere di ricreazione feriale e festiva, quindi si spengono automaticamente. Gl’ innumerevoli “poeti” che partecipano ai premi diffusi nella Penisola, l’anno successivo non esistono più, perché privi di concrete risorse mentali, di vocazione forte, di necessaria immersione nell’ipercorrezione del verso scritto per vanitas, nostalgia, confronto condominiale, prova non ironica e idillica, sebbene curva e pensosa, o si rigenerino in altri colleghi coraggiosi che in più casi annegano! E poi “la buona poesia” dei molti amici chi l’ha mai sentita o contestata nel suo potenziale linguistico e preformale. Il popolare si affida quasi sempre alle filastrocche (meglio se dialettali e con rima), ai calembour della protesta, alla scuola che ha dato la stura a universi regressivi a molteplice valenza lirica, quasi come estraneità ad ogni fondamento verbale e creativo, quindi vive il suo estinguersi.

 

Quali sono i fattori che più influiscono –positivamente e negativamente- sull’educazione poetica di una nazione? Dove credi che vi sia più bisogno di agire per una maggiore e migliore diffusione della cultura poetica? Chi dovrebbe farlo e come?

L’educazione poetica di una nazione è un’utopia. La sua assenza non è neanche minacciosa, e tanto meno offre pubblicità al sistema della cultura oggi, al ritmo fisico dell’esistenza che nega qualsiasi adozione o pratica pedagogica e umana. Tutti sono convinti che codesto genere di spiritualità non serva ad alcuno. Quando qualcuno sa che scrivi versi ti inchioda alla sua beffa divertita, rinuncia alla sua stima che aveva di te. Ancora, coloro che alludono al tuo caso come “poeta”, resistono con il loro punto di vista sull’inutilità; è quella loro invidia che ti individua come persona irresponsabile, ma che è riuscita a sopravvivere , grazie alla parola necessaria, che in ogni caso guarda lontano.

 

Il poeta è un cittadino o un apolide? Quali responsabilità ha verso il suo pubblico? Quali comportamenti potrebbero essere importanti?

Il poeta non ha alcuna responsabilità verso il “suo pubblico” perché non ha in effetti “un pubblico”. Avrà complessivamente dei lettori, dei curiosi del suo stile, delle risorse germinali o già conosciute, ebbrezze personali dinanzi a certe ascese che via via si sono concretizzate in esempi di garanzia poetica, caratterizzanti il suo work in progress. Egli  da sempre è stato abbandonato a se stesso e le giornate di studio sul suo lavoro hanno consentito di diventare un propizio riferimento al farsi conoscere meglio, non certo a stabilire una proficua realtà che premi in toto lo sforzo di “una vita per la poesia”, un equivalente per tenerlo d’occhio (le entrate in possibili antologie, le interviste, i saggi a lui dedicati, i premi che in fondo sviluppano la sua dissoluzione, e cioè quell’opera, che a tanti appare noiosa o risaputa per registri di vibrazioni e accostamenti arbitrari a maestri che prima di lui hanno avuto, per il loro lavoro, successo e storia).
I comportamenti migliori si rivelano via via che il poeta costruisce la propria personalità, a cui a volte anche la critica non è poi tanto utile. Così, cittadino con una patria o apolide in libertà, il poeta resta solo e soltanto da solo sa salvarsi!

 

Credi più nel valore dell’ispirazione o nella disciplina? Come aspetti che si accenda una scintila o come la tieni accesa?

La condizione del poeta è quella stessa dell’uomo nelle diverse vicende di attività di privato e pubblico impiego, dove la volontà (per la poesia più intensa e caparbia) diventa un dovere piuttosto che un turbamento ispirativo, o una disciplina con regole e misure per difendere un’espressione, qualcosa d’inevitabile come lo stile. Egli non è costretto ad ogni costo a diventare una deità, ma la persona che studia se stessa attraverso la parola, e con essa dovrà svolgere una serie infinita di contingenze che lo facciano crescere senza mai saziarsi, espandersi nei valori della scrittura, cogliere conoscenza, coscienza e sapienza per quello che fa, come se fosse il solo destino toccato all’ideale scelto e trasmesso come dono. Egli rettifica insistentemente il deserto del foglio bianco, come segno e seme della medesima vitalità ad ogni costo. L’immagine del successo: premi letterari, protezioni sindacali, biografie, inviti speciali, conoscenze positive, ecc. sono cognizioni logore e minate, e forse divergenti dal principio dell’essere per la riflessione, la penna, l’esercizio ozioso e perenne della sua vivida solitudine. O, non è il solo bene inventato per riapparire costantemente, ovunque la ragione culturale lo porti e il motivo autentico per definirsi.

 

Scrivi per comunicare un’emozione  o un’idea? La poesia ha un messaggio, qualcosa da chiedere o qualcosa da dire?

Scrivo per andare da qualche parte con me stesso, per capirmi meglio dentro. Ho progettato per il dovere di imparare a resistere prima e dopo la conoscenza degli altri, i quali si descrivono importanti per la posizione pubblica che hanno raggiunto, e per quello che da adulti intendono raggiungere. La comunicazione che intendono adescare è debole o esemplificata su formulazioni divertenti e speciose. “Ma se non scrivi per noi che abbiamo una cattedra in un’università, per chi scrivi?” mi ha rimproverato un amico critico letterario di non scarsa notorietà… Al quale ho risposto che scrivo per le persone sensibili e che, la poesia, come prodotto inedito o escluso per buona parte dal consumo facile e ovvio, crea dei dubbi, disorientamenti, degli interrogativi in coloro i quali la cercano con diffidenza, e che non è il caso di affrontarla con urgenza ma per ritmi graduali, e tanto meno a definitiva soluzione, poco disposta a una svelta frequenza, a servizio veloce come una notizia quotidiana, dettata per l’immediata circolarità. Così niente chiedo per essa e, se ha avuto qualcosa da dire, in tanti non l’hanno sfuggita, e mi auguro che questo processo continui (sono state scritte infatti quattro monografie tutt’altro che peregrine sul mio lavoro, che rischia sulle illusioni, sebbene in ombra dinanzi al suo possibile futuro).

 

Cosa pensano della poesia le persone che ami?

Coloro che amo capiscono bene l’esprit in cui la poesia è invischiata, e poi certe necessità tecniche o movimenti del tessuto stilistico glieli interpreto io, riassunti con ironia, con tanti possibili esempi (non sono il primo, né l’ultimo a inseguire i vari generi di ricerca, che peraltro spostano da altra parte la linea della tradizione e il sentimento emotivo, in offerta simultanea o in eventi tematici poco liricistici e noiosi). Coloro che fingono di amarmi mi hanno, di tanto in tanto, consigliato: “Domenico, chi te la fa fare? Perché non hai spostato la tua intelligenza in altra ragione d’essere?”.
So che quasi tutti hanno tentato inflessibilmente la medesima prospettiva, costretti presto alla rinuncia!

 

Sei costretto a dividere il tempo che più volentieri dedicheresti alla poesia con un lavoro che con la poesia ha davvero poco a che fare? Trovi una contraddizione in chi ha la fortuna di scrivere per mestiere? Come vivi la tua condizione?

Dedico tutto il mio tempo alla ricerca della mia scrittura. Ho fatto di tutto per dedicarmi a un impegno parallelo fra editoria e critica d’arte. Non mi ha mai interessato “una fortuna di scrivere per mestiere”. Il mio giornalismo è pubblicismo a tempo pieno e quasi mai remunerato. Niente della mia vita è pittoresco e molto è sofferta privacy, non disperata, né bohéme. Sono abitato da un sobrietismo che è insieme dignità e onesto vivere a cospicua misura civile. Non muterei affatto l’abituale atteggiamento per qualsiasi altro affare, né amo in alcun aspetto la stupida ribalta di tanti altri, che infine –per un motivo o per un altro- hanno avuto la loro smania amputata, sillabando gli eccessi di presenzialismo, e tanto meno mi sono sentito in obbligo di cercare per me stesso occasioni propizie e disturbare gli altri con trucchi o istanze autoreferenziali che , tra l’altro, potrebbero compromettere l’energia che la poesia e la scrittura mi hanno sempre offerto.

 

Cosa speri per il tuo futuro? E per quello della poesia? Cosa manca e cosa serve alla poesia ed ai poeti oggi?

Per il futuro non mi aspetto alcunché, ma spero che le persone devote e non opportuniste e superflue, mi leggano (in poesia, nelle prose, negli aforismi che sono molti: in lingua difficile e forse preziosa, non sentenziali, né soltanto amene frasi poetiche, e un certo calcolo venga espresso da lettori non superficiali e frettolosi). Senza dubbio alla poesia e ai poeti manca un interesse più ampliato e scrupoloso della loro questione esistenziale. Quello che c’è fa parte della cultura disciplinata dalle intese preventive, da conoscenze fertili che preparano il terreno a coloro che sono più avanti nella rincorsa; gli altri non conteranno mai alcunché, e sono costretti a rivolgersi “ai posteri” che non esistono. Né opero per riscoprire le speranze dei poeti morti, o di coloro che in vita non ci hanno saputo fare, perché discreti o eliminati da contingenze prevalenti contro la poesia. C’è da dire che siamo in troppi e la selezione è difficile che possa essere giusta o abbia soluzione per tutti i linguaggi, in un’epoca in cui la lingua dei mass –media occupa l’intero spazio della conoscenza attuale. So che tanti abbandonano il rischio, subiscono la follia, il suicidio; colorano certi inesplicabili abissi insieme alla ricerca di un  vivere irreale, probabilmente per scoprire la  dimensione in un altrove che si manifesti oltre il Tempo.
E così, dopo questo inferno di effimere letizie avremo un purgatorio eterno che, presumibilmente, perdonerà l’azzardo commesso da una spiritualissima interiorità, senza fiaba e con troppe violenze e mestizie d’ogni genere. Ma chi cercherà di decifrare i problemi irrisolti del tempo perduto, a cui le persone decenti avranno ancora tempo di ricordare, almeno nel diritto di esercitare, proprio dall’aldilà, la sensibilità di un loro insondabile humour?


Domenico Cara è nato in Calabria. Vive a Milano dal 1952. Si occupa di arte e di letteratura.
Ha pubblicato innumerevoli sillogi di versi: Arie senza flauto (1959); Mitologia familiare (1961); Romanzi (1965); Cactus (1968); Territorio di fatti (1969); Disputa di confine (1971); Le proprietà generali (1973); La febbre del testo (1977); Lo stato della logica (1980); Principio della peste (1980); La derisione nucleare (1983); Tavola delle miniature (1983); La rigenerazione nei ragni (1987); Esperimenti sulla sfinge (1987); Baikál (1991); L’utopia gioiosa (1995); Passeggiare nella brughiera (1998).
Suoi scritti sono stati tradotti in giapponese, giordano, guatemalteco ed in varie lingue europee. Ha collaborato e collabora a molti giornali e riviste di cultura, di alcune delle quali è stato o è direttore responsabile. Ha partecipato ad esposizioni di poesia visiva e di scritture mail art.
Molto nutrita anche la produzione in saggistica, prosa creativa e aforismi.

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