Esercizi d’oblio, esercizi di presente
Si può dire che i ricordi siano immagini e parole, singoli frammenti o intere sequenze, conservate in una specie di archivio di cui disponiamo. E si può dire che la memoria sia l’archivio stesso, il suo modo di trattenere e collegare i ricordi, di trasformarli, anche.
Se si può dire così, potrebbe anche succedere qualcosa di contrario all’opinione più immediata, che vuole che si conservi la memoria di una persona quanto più se ne «usa» il ricordo, mentre sarebbe destinato all’oblio chi non viene spesso ricordato.
Prendo il verbo «usare» da Il posto di Nelly, in Ritorno a Planaval di Stefano Dal Bianco, dove dice:
Quelle cose che erano tue o nostre io le ho usate fino alla consunzione ed è inutile ripetermi che è stata una buona mossa, che avrei sbagliato a fare gli altarini, ora quelle cose sono diventate uguali alle altre, a quelle che non esistevano allora e che per me non hanno nessun senso, le rispetto perché sono fatto così e basta ma non sono non saranno mai Nelly.
Molto tempo fa, quando è morta giovanissima in un incidente, Nelly ha lasciato la bellezza e l’amore dei ricordi e una ferita nella memoria. Conservare intatti i ricordi di Nelly, «fare gli altarini», ovvero non usarli: così i ricordi avrebbero potuto tenere aperta la ferita nella memoria. Mentre usarli ha significato modificare la memoria, sanare la ferita.
Si chiama «elaborazione del lutto», qualcosa di ben noto nell’antropologia umana.
Quello che nell’«elaborazione del lutto» fatica a venire in rilievo, perché si pensa che la psiche sia ben lieta di liberarsi dal dolore, risulta essere il legame tra identità personale e sofferenza: finché soffro per un lutto sono ancora io, il vuoto che mi ossessiona è ancora al suo posto, al posto della persona che mi appartiene, è ancora l’amore che mi fa essere me stesso. Se perdo anche la sofferenza, perdo veramente tutto, e con questo «tutto» anche (una parte di) me stesso.
Scrive Dal Bianco, alla fine del «processo di elaborazione del lutto» di cui si parla in questa prosa poetica:
Per questo ora mi sento inutile, non sono più il tuo custode, ed è solo adesso che, vigliaccamente, ti regalo agli altri, perché ho capito finalmente, povero idiota, che niente ti può fermare perché sei già dappertutto.
È così che amare te è diventato amare l’aria e il mondo in cui le cose vi si immergono, quella naturalezza che sicuramente anche tu avevi di ergerti nel mondo, ma che io non posso più ricordare, che io non ricordo più.
Le righe che abbiamo riportato vengono poste a introdurre l’ultima sezione del libro Ritorno a Planaval, che dà il titolo all’intero volume, e che una logica semplice vorrebbe fossero invece in apertura.
La prima sezione, infatti, Una vita nuova, con la sua prospettiva di scelte diverse e rinnovate dimensioni affettive, dovrebbe logicamente prendere avvio dopo che il lutto è stato consumato. Si dice comunemente infatti, in rapporto a un lutto (una grave perdita, quale essa sia), che prima occorre «uscirne fuori», e poi si potrà iniziare a «rivivere». Ma forse questa logica è troppo banale, e non tiene conto dei movimenti profondi della psiche, della sua struttura poetica.
Poeticamente viene in luce, invece, nella struttura del libro, una doppia cronologia, mediante la quale capiamo che la memoria è il corpo che vive, e i ricordi ne sono la materia costantemente chiamata in causa: iniziamo a «rivivere» nel momento in cui cominciamo a rigenerare la memoria, e perciò ad accettare che i ricordi vengano intaccati. Paradossalmente, non è la volontà di nuova vita che ci aiuta a «venirne fuori», ma la distruzione di un’identità, di quell’«io» che non può conservarsi senza conservare interamente il lutto.
Dal Bianco, con un gesto di grande forza innovativa e allo stesso tempo pieno di tradizione, lega questa personale esperienza del lutto alla parola poetica, in un tempo in cui essa era sentita come esperienza della perdita, della deprivazione, del distacco.
Un nuovo sentire si dà, all’inizio del libro, ancora permeato da una perdita di senso e di parola che è interamente compresa con la storia di sé come poeta. Prende avvio dalla consapevolezza della violenza del cambiamento, imposta dal dolore, ma nel presente non sa trovare che indizi, e conosce veramente soltanto il passato:
È successo che avevamo rinunciato a sognare, e a riconoscere il profilo e il colore delle cose. Attraverso di noi cresceva la stagione peggiore. Un principio di immobilità aveva assunto i connotati della concentrazione. Pensavamo che rimanere all’erta fosse necessario per non farci trascinare dall’onda della vita altrui. E restavamo fermi, e se qualcuno ci chiedeva: Tu cosa pensi?, noi pensavamo che non volevamo pensare niente.
La sezione iniziale, Una vita nuova, ha il suo incipit con il breve brano che ho citato.
Questo «noi» identifica una generazione di poeti, o almeno una condizione in cui essi sono venuti a trovarsi, dentro un’idea della poesia intesa come resistenza e reazione nei confronti di un tempo ostile, rispetto al quale pareva giusto (anzi, pareva la scelta migliore) coltivare la propria ostinata estraneità. Un’estraneità fatta di parole chiuse, di rigore formale sul limite della possibilità di dire. Le precedenti sillogi di Dal Bianco, La bella mano e Stanze del gusto cattivo, ne sono testimonianza.
E questa idea del limite viene ripresa nella poesia che fa da prologo all’intero volume, e che si intitola I sensi. È però il limite di un inizio, un movimento che inizia dal sentire e accetta il rischio di andare incontro al poco, quando è poco, e al tantissimo della vita, dalla prospettiva della propria singolarità. Come a dire che, se c’è ancora un riconoscersi in una comunità di parola e di forme, questo deve venire dalla mancanza di comunità, dal non riuscire più a confidare in un ruolo di continuità e contrapposizione con quanto già dato.
I! calco dantesco ha infatti nel titolo della prima sezione una variante significativa: non «la» vita nuova, ma «una» vita nuova, privata di qualsiasi accredito di esemplarità, lontana da qualsiasi allegoria, è fiducia e rischio nel!’ essere e nel dire.
Una doppia cronologia, dicevo. Infatti non c’è un inizio, poiché il movimento che porta all’effettiva elaborazione del lutto (che è lutto per una morte, ma anche pér un tempo vissuto e per la sua poesia) è sentito come un rifiuto a profanare il lutto, come un consegnarsi al senso della perdita (<<fammi dei morti e io sarò salvato» dice, in chiusura, la poesia I sensi).
Il tempo della consapevolezza di doversi donare a ciò che si è perduto coincide con il tempo dell’inizio del rinnovamento, così come, verso la fine del libro, il tempo della vita rinnovata coincide con la coscienza di una perdita di sé irrimediabile.
Sulle pagine della rivista padovana «Scarto minimo», che Dal Bianco, con Mario Benedetti e Fernando Marchiori, aveva proposto alla fine degli anni Ottanta, era già adombrato questo tema: era necessario abbandonare emulazione e reattività nei confronti dei padri e dei fratelli maggiori, bisognava rinunciare, in pratica, al meccanismo evolutivo della poesia novecentesca.
Perché? Perché il meccanismo si era inceppato in quell’insieme di fenomeni noto come avvento della postmodernità.
Già il nome della rivista, scarto minimo, era eloquente: la linea portante della poesia novecentesca, di matrice simbolistico-avanguardista, aveva trovato nello Strutturalismo – e negli altri condòmini della critica stilistica – un suo cardine nell’idea di scarto rispetto alla norma linguistica, cioè di una poesia che si distanziasse dal parlare comune, identificandosi come lingua speciale. Una critica che, pur consapevole dell’antico legame della nozione di «scarto» con il sublime, ovvero con una inconsueta personalità di autore, veniva a ridurre il poeta stesso a una funzione interna del testo, definendolo in alcuni casi con l’epiteto tecnico-burocratico di «operatore».
L’ipotesi di ridurre al minimo lo scarto apriva invece a una poetica incentrata sulla qualità dell’esperienza vissuta del poeta, pur rinunciando a ogni aureola, quindi all’eccezionalità del gesto estetico, ma anche a una sua pretesa autenticità ottenuta per via intellettuale dall’ accettazione dello scacco relativo a questa rinuncia.
Una lingua, dunque, che fosse poetica per intensità del vissuto, capace di espressione lirica per questo motivo, e non per la quantità di «sorpresa» linguistica che presentava. Perciò lo scarto ci sarebbe stato, perché mai sarebbe risultata espressione banale, dato che l’esperienza di cui parlava non lo era, ma questo scarto sarebbe dovuto risultare incorporato all’espressione intera, quindi minimamente registrabile in termini di infrazione della naturale vocazione della lingua.
Progetto embrionale, quello di «scarto minimo», che ha portato rapidamente i suoi protagonisti sulla soglia di una crisi. Un lungo silenzio di mutazioni ha seguito la fine della rivista.
Per Stefano Dal Bianco, come per gli altri due fondatori del foglio, la ridefinizione di quel primo progetto è avvenuta attraverso diversi passaggi che fanno comprendere a noi qualcosa di importante: i mutamenti nell’ambito della forma non provengono dalla sola intelligenza dei problemi vigenti nell’ambito dell’arte e della sua comunicazione, ma comportano altrettanti mutamenti sul piano della percezione, del sentire, della configurazione di senso che si dà al proprio stare nel mondo.
Stefano Dal Bianco, con Ritorno a Planaval, ha voluto redigere il diario di questo processo, ancorando tenacemente il senso degli eventi della propria esistenza all’evoluzione della sua ricerca poetica.
Mi sento di dire che solo se lo leggiamo in questo modo troviamo ragione dell’intera sostanza del libro, della sua ricerca di tensione tra la semplicità lessicale e l’altezza vertiginosa del tono, tra l’apparente occasionalità tematica e l’unità psichica profonda, tra la concentrazione estrema della «prosa» e la distensione affabile dei versi.
E quando troviamo una poesia come questa:
Ho due lenzuola vecchie di vent’anni
e una federa a fiori
che tengo in casa per gli amici intimi,
usandole sempre e ogni volta pensando
e pregando, temendo lo strappo
che potrebbe seguire il lavaggio,
ogni volta congetturando
un utilizzo diversificato dei ritagli
come tendina, fazzoletto, come involucro antipolvere,
come sacca per le pantofole.
I miei amici non lo sanno che ogni volta un poco tremo
a vederli dormire beati
nel sudario di un passato solo mio
che ogni volta per loro si assottiglia e ogni volta
grazie a loro, mi tortura.
O come questa:
Stando di fronte e sotto questo monte
se l’aria è ferma lo si può abbracciare
ma l’occhio non lo può mettere a fuoco.
È come se tutto vibrasse
come se la terra si muovesse, tutto intorno
e il torrente sul punto di spaccare tutto, urlando
prestando la sua voce trattenuta ai larici
che sono nella nebbia, ci chiamasse
ci chiedesse di restare per sempre.
Abbiamo fatto finta di volerlo scrivere
e ce ne siamo andati, per paura.
Quando troviamo poesie così limpide e prive di affettazioni stilistiche, dobbiamo pensare che è la conquista di una porzione di silenzio, ed è l’abbandono di tanta parte di ciò che è già inteso come «poetico», e che però non percorre la strada di un sentire nuovo.
(di Gian Mario Villalta, Il respiro e lo sguardo, BUR, 2005
Il respiro e lo sguardo: un saggio di Gian Mario Villalta sulla poesia di Stefano Dal Bianco
Si può dire che i ricordi siano immagini e parole, singoli frammenti o intere sequenze, conservate in una specie di archivio di cui disponiamo. E si può dire che la memoria sia l’archivio stesso, il suo modo di trattenere e collegare i ricordi, di trasformarli, anche.
Se si può dire così, potrebbe anche succedere qualcosa di contrario all’opinione più immediata, che vuole che si conservi la memoria di una persona quanto più se ne «usa» il ricordo, mentre sarebbe destinato all’oblio chi non viene spesso ricordato.
Prendo il verbo «usare» da Il posto di Nelly, in Ritorno a Planaval di Stefano Dal Bianco, dove dice:
Molto tempo fa, quando è morta giovanissima in un incidente, Nelly ha lasciato la bellezza e l’amore dei ricordi e una ferita nella memoria. Conservare intatti i ricordi di Nelly, «fare gli altarini», ovvero non usarli: così i ricordi avrebbero potuto tenere aperta la ferita nella memoria. Mentre usarli ha significato modificare la memoria, sanare la ferita.
Si chiama «elaborazione del lutto», qualcosa di ben noto nell’antropologia umana.
Quello che nell’«elaborazione del lutto» fatica a venire in rilievo, perché si pensa che la psiche sia ben lieta di liberarsi dal dolore, risulta essere il legame tra identità personale e sofferenza: finché soffro per un lutto sono ancora io, il vuoto che mi ossessiona è ancora al suo posto, al posto della persona che mi appartiene, è ancora l’amore che mi fa essere me stesso. Se perdo anche la sofferenza, perdo veramente tutto, e con questo «tutto» anche (una parte di) me stesso.
Scrive Dal Bianco, alla fine del «processo di elaborazione del lutto» di cui si parla in questa prosa poetica:
Le righe che abbiamo riportato vengono poste a introdurre l’ultima sezione del libro Ritorno a Planaval, che dà il titolo all’intero volume, e che una logica semplice vorrebbe fossero invece in apertura.
La prima sezione, infatti, Una vita nuova, con la sua prospettiva di scelte diverse e rinnovate dimensioni affettive, dovrebbe logicamente prendere avvio dopo che il lutto è stato consumato. Si dice comunemente infatti, in rapporto a un lutto (una grave perdita, quale essa sia), che prima occorre «uscirne fuori», e poi si potrà iniziare a «rivivere». Ma forse questa logica è troppo banale, e non tiene conto dei movimenti profondi della psiche, della sua struttura poetica.
Poeticamente viene in luce, invece, nella struttura del libro, una doppia cronologia, mediante la quale capiamo che la memoria è il corpo che vive, e i ricordi ne sono la materia costantemente chiamata in causa: iniziamo a «rivivere» nel momento in cui cominciamo a rigenerare la memoria, e perciò ad accettare che i ricordi vengano intaccati. Paradossalmente, non è la volontà di nuova vita che ci aiuta a «venirne fuori», ma la distruzione di un’identità, di quell’«io» che non può conservarsi senza conservare interamente il lutto.
Dal Bianco, con un gesto di grande forza innovativa e allo stesso tempo pieno di tradizione, lega questa personale esperienza del lutto alla parola poetica, in un tempo in cui essa era sentita come esperienza della perdita, della deprivazione, del distacco.
Un nuovo sentire si dà, all’inizio del libro, ancora permeato da una perdita di senso e di parola che è interamente compresa con la storia di sé come poeta. Prende avvio dalla consapevolezza della violenza del cambiamento, imposta dal dolore, ma nel presente non sa trovare che indizi, e conosce veramente soltanto il passato:
La sezione iniziale, Una vita nuova, ha il suo incipit con il breve brano che ho citato.
Questo «noi» identifica una generazione di poeti, o almeno una condizione in cui essi sono venuti a trovarsi, dentro un’idea della poesia intesa come resistenza e reazione nei confronti di un tempo ostile, rispetto al quale pareva giusto (anzi, pareva la scelta migliore) coltivare la propria ostinata estraneità. Un’estraneità fatta di parole chiuse, di rigore formale sul limite della possibilità di dire. Le precedenti sillogi di Dal Bianco, La bella mano e Stanze del gusto cattivo, ne sono testimonianza.
E questa idea del limite viene ripresa nella poesia che fa da prologo all’intero volume, e che si intitola I sensi. È però il limite di un inizio, un movimento che inizia dal sentire e accetta il rischio di andare incontro al poco, quando è poco, e al tantissimo della vita, dalla prospettiva della propria singolarità. Come a dire che, se c’è ancora un riconoscersi in una comunità di parola e di forme, questo deve venire dalla mancanza di comunità, dal non riuscire più a confidare in un ruolo di continuità e contrapposizione con quanto già dato.
I! calco dantesco ha infatti nel titolo della prima sezione una variante significativa: non «la» vita nuova, ma «una» vita nuova, privata di qualsiasi accredito di esemplarità, lontana da qualsiasi allegoria, è fiducia e rischio nel!’ essere e nel dire.
Una doppia cronologia, dicevo. Infatti non c’è un inizio, poiché il movimento che porta all’effettiva elaborazione del lutto (che è lutto per una morte, ma anche pér un tempo vissuto e per la sua poesia) è sentito come un rifiuto a profanare il lutto, come un consegnarsi al senso della perdita (<<fammi dei morti e io sarò salvato» dice, in chiusura, la poesia I sensi).
Il tempo della consapevolezza di doversi donare a ciò che si è perduto coincide con il tempo dell’inizio del rinnovamento, così come, verso la fine del libro, il tempo della vita rinnovata coincide con la coscienza di una perdita di sé irrimediabile.
Sulle pagine della rivista padovana «Scarto minimo», che Dal Bianco, con Mario Benedetti e Fernando Marchiori, aveva proposto alla fine degli anni Ottanta, era già adombrato questo tema: era necessario abbandonare emulazione e reattività nei confronti dei padri e dei fratelli maggiori, bisognava rinunciare, in pratica, al meccanismo evolutivo della poesia novecentesca.
Perché? Perché il meccanismo si era inceppato in quell’insieme di fenomeni noto come avvento della postmodernità.
Già il nome della rivista, scarto minimo, era eloquente: la linea portante della poesia novecentesca, di matrice simbolistico-avanguardista, aveva trovato nello Strutturalismo – e negli altri condòmini della critica stilistica – un suo cardine nell’idea di scarto rispetto alla norma linguistica, cioè di una poesia che si distanziasse dal parlare comune, identificandosi come lingua speciale. Una critica che, pur consapevole dell’antico legame della nozione di «scarto» con il sublime, ovvero con una inconsueta personalità di autore, veniva a ridurre il poeta stesso a una funzione interna del testo, definendolo in alcuni casi con l’epiteto tecnico-burocratico di «operatore».
L’ipotesi di ridurre al minimo lo scarto apriva invece a una poetica incentrata sulla qualità dell’esperienza vissuta del poeta, pur rinunciando a ogni aureola, quindi all’eccezionalità del gesto estetico, ma anche a una sua pretesa autenticità ottenuta per via intellettuale dall’ accettazione dello scacco relativo a questa rinuncia.
Una lingua, dunque, che fosse poetica per intensità del vissuto, capace di espressione lirica per questo motivo, e non per la quantità di «sorpresa» linguistica che presentava. Perciò lo scarto ci sarebbe stato, perché mai sarebbe risultata espressione banale, dato che l’esperienza di cui parlava non lo era, ma questo scarto sarebbe dovuto risultare incorporato all’espressione intera, quindi minimamente registrabile in termini di infrazione della naturale vocazione della lingua.
Progetto embrionale, quello di «scarto minimo», che ha portato rapidamente i suoi protagonisti sulla soglia di una crisi. Un lungo silenzio di mutazioni ha seguito la fine della rivista.
Per Stefano Dal Bianco, come per gli altri due fondatori del foglio, la ridefinizione di quel primo progetto è avvenuta attraverso diversi passaggi che fanno comprendere a noi qualcosa di importante: i mutamenti nell’ambito della forma non provengono dalla sola intelligenza dei problemi vigenti nell’ambito dell’arte e della sua comunicazione, ma comportano altrettanti mutamenti sul piano della percezione, del sentire, della configurazione di senso che si dà al proprio stare nel mondo.
Stefano Dal Bianco, con Ritorno a Planaval, ha voluto redigere il diario di questo processo, ancorando tenacemente il senso degli eventi della propria esistenza all’evoluzione della sua ricerca poetica.
Mi sento di dire che solo se lo leggiamo in questo modo troviamo ragione dell’intera sostanza del libro, della sua ricerca di tensione tra la semplicità lessicale e l’altezza vertiginosa del tono, tra l’apparente occasionalità tematica e l’unità psichica profonda, tra la concentrazione estrema della «prosa» e la distensione affabile dei versi.
E quando troviamo una poesia come questa:
Ho due lenzuola vecchie di vent’anni
e una federa a fiori
che tengo in casa per gli amici intimi,
usandole sempre e ogni volta pensando
e pregando, temendo lo strappo
che potrebbe seguire il lavaggio,
ogni volta congetturando
un utilizzo diversificato dei ritagli
come tendina, fazzoletto, come involucro antipolvere,
come sacca per le pantofole.
I miei amici non lo sanno che ogni volta un poco tremo
a vederli dormire beati
nel sudario di un passato solo mio
che ogni volta per loro si assottiglia e ogni volta
grazie a loro, mi tortura.
O come questa:
Stando di fronte e sotto questo monte
se l’aria è ferma lo si può abbracciare
ma l’occhio non lo può mettere a fuoco.
È come se tutto vibrasse
come se la terra si muovesse, tutto intorno
e il torrente sul punto di spaccare tutto, urlando
prestando la sua voce trattenuta ai larici
che sono nella nebbia, ci chiamasse
ci chiedesse di restare per sempre.
Abbiamo fatto finta di volerlo scrivere
e ce ne siamo andati, per paura.
Quando troviamo poesie così limpide e prive di affettazioni stilistiche, dobbiamo pensare che è la conquista di una porzione di silenzio, ed è l’abbandono di tanta parte di ciò che è già inteso come «poetico», e che però non percorre la strada di un sentire nuovo.
(di Gian Mario Villalta, Il respiro e lo sguardo, BUR, 2005
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