Il silenzio – una nota di L. Voce su “Siopé” di Gio Ferri

 

di Lello Voce

Il postmoderno pare godere di qualità e destini affatto particolari: partorito ed inumato dal suo stesso padre (se di paternità legittima si tratta); figlio partenogenico che riguardandosi allo specchio vi vede riflessi centinaia di profili contrastanti, irriducibili e schizoidi. Ma c’e. È nell’aria. Non certo risolvibile nell’opposizione (che è immedicabile, dolorosa costante ferita del corpo dell’arte), sterile fra certo generico ‘classicismo’ (che poi di soppiatto veste penne neo-orfiche, romantico-restaurative) ed un ‘modernismo’, generico pur’esso (se non più). Ma la questione posta resta: come questione del dopo, come dilemma del che fare? – anche soprattutto come pulsione a un fare, che generico fare non è mai ri-fare.

L’estro di parlar di postmoderno me lo dà l’ultimo libro di Gio Ferri. Siopé è libro assai bello e composito formato com’è dal poemetto che dà nome alla raccolta e da altre due sezioni intitolate rispettivamente Navigazioni e Idilli, e rappresenta prova matura ed efficacissima di un autore presente da tempo sulla scena poetica italiana e non solo come poeta ‘lineare’, ma altresì come operatore visuale, narratore, estetologo e critico (non si puo far a meno di ricordare qui almeno l’attività di condirezione dell’ottimo “Testuale”, semestrale di critica della poesia contemporanea, gestito con Gilberto Finzi e Giuliano Gramigna).

Siopé è in qualche modo un poemetto ‘classico’, ma di un classicismo che sfugge coscientemente i pericoli restaurativi della norma neo-classica e/o classicistica e che punta invece a riscoprire quell’idea di classico ‘d’origine’, proprio dell’epoca romanica, nozione questa da Ferri già elaborata in sede teorica in un suo notevole saggio del 1979 pubblicato sulla rivista “Sigma” (G.Ferri. Il classicismo nella scultura moderna. Sigma n.2,3,1979).

E Siopé è il silenzio, il ‘guardingo silenzio classico’ di cui “vorremmo cantare alte beatitudini e di cui solo sappiamo scandire con la madre grande i neoclassicismi della lontananza prospettive manieristiche nella gloria maestra del dolore”, per dirla con le parole che lo stesso Ferri pone a sugello di tutta la plaquette.

Sviluppato in liti compatti di versi tutti preceduti da un verso più breve a mo’ d’introibo, il poemetto percorre esiti di narratività senza per questo rinunciare alle esperienze di scrittura ‘sperimentale’ che costituiscono patrimonio irrinunciabile della poesia contemporanea italiana e non solo italiana. E se come giustamente fa P.Spedicato nel saggio posto a introduzione dell’antologia su “Postmoderno e Letteratura” (Bompiani 1984), da lui curata insieme a P.Carravetta e che rimane allo stato una delle analisi più lucide del fenomeno post effettuate in Italia, occorre far opera di vaglio e di distinguo fra un postmoderno trasmettitore di “valori quali la tradizione, la nostalgia, il revival spettacolare e decorativo del buon Zeigeist più o meno antico o recente, in tutte le sue versioni, neoromantica o neorazionalista, premoderna o ammodernata, conservatrice o genericamente progressista, tutte formule alleate nello sfuggire ai compiti di intervento sulla condizione attuale, che qui si intende rivendicare senza pudori intellettuali né atteggiamenti snobistici come postmoderna”; ed un altro post, invece, realmente progressivo “assunzione non nostalgica, né tragica o patetica (il corsivo è mio) della fine delle grandi metanarrazioni, delle ideologie, delle visioni coerenti e delle certezze”.

Siopé, e Ferri con essa, si attesta sicuramente sulla seconda sponda. Si attesta cioè dalla parte giusta del confine che separa “il legittimo ambito estetico del postmoderno e uno invece mistificante, a opera quest’ultimo della ragione strumentale e tecnica del tardocapitalismo (…) deciso ad ammantare la programmazione della propria sopravvivenza con il falso annuncio della propria morte” (op.cit.). E, dunque, non il postmoderno dell’inebetito, bellissimo, immobile Apollo, ma Hermes ladro di greggi sempre in Siopé: Lontano dai massacri egli esaspera la volontà aberrevole e offende audace et agile nella tormentata ansia le pretese della stagnazione calcolata sfugge il sacro disposto di Delfi e tenendo il vessillo societarie insistenze deride diacronie affanna animistici libelli e animali risorse esalta abbracci di voli nelle carni vivide.

Pare che ne l’ottimo Siopé quasi si cerchi una ‘terza via’ che da una parte sfugge alla nozione (poi, al fondo, ancora tutta romantik) di una poesia come scarto assoluto e irriducibile, e dall’altra alla suasione di una trasparenza inutile e pericolosa per una poesia che voglia ancora costruirsi un suo proprio linguaggio senza subire passivamente le lusinghe dell‘easy-reading.

E non è il solo: che ad aguzzare le orecchie sul panorama italiano contemporaneo potrà capitarci di ascoltare voci non discordi. Che sia di nuovo tempo di tendenze?

(da Domani, rivista di cultura e attualità, 1987)

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