Alessandro Ricci: ‘L’arpa romana’ – nota di Giancarlo Pontiggia

arpa romanaDi Alessandro Ricci, nato a Garessio nel 1943 e morto a Roma nel 2004, si conosce forse di più il lavoro di soggettista e sceneggiatore per il cinema e la televisione che non quello poetico, riassumibile in tre volumi apparsi quasi clandestinamente tra gli anni Ottanta e oggi : Le segnalazioni mediante i fuochi (1985) ; Indagini sul crollo (1989), I cavalli del nemico (2004), cui vanno ora ad aggiungersi, per merito dell’amico Francesco Dalessandro, i versi di questo libriccino, scelti con amorevole cura tra gli inediti rimasti. Per quelle strane coincidenze che spesso orientano i nostri pensieri e le nostre letture, mi è capitato di leggere L’arpa romana dopo essermi rivisto lo splendido De reditu. Il ritorno, il film che Claudio

Bondì, su sceneggiatura proprio di Ricci, trasse qualche anno fa dal poemetto odeporico di Rutilio Namaziano. E il tema della fine (sia privata che pubblica) accomuna il protagonista del film (e del poemetto latino) ai versi, limpidi e severi, di Ricci, che paiono dettati da un sentimento di resa allo spirito crudele della vita e a quel « senso di vuoto » che alberga da tempo nelle grandi città del nostro ricchissimo – ma spiritualmente povero – Occidente. Resa che si accompagna però alla lucidità dello sguardo e a quel senso di profonda moralità che sempre i pensieri portano con sé, quando siano dettati da un’autentica esigenza interiore. E così si dovranno intendere quelle poesie in cui, su una trama essenzialmente elegiaca, cadono spesso parole crude, taglienti (si veda, ad esempio, Come una voce, p. 17), quasi irridenti la misura stessa di poesia che l’autore si è data. Ma non è, il lettore lo capisce subito, un’intellettualistica malignità dello spirito che vuole annichilire il risorgere di un’emozione o il sentimento di verità che nasce continuo dalle cose : è, piuttosto, il grido che vuole interrompere lo stato di tedio e di aridità in cui lo spirito precipita, a volte, nella feriale sequenza dei giorni ; è la richiesta di un senso, di una percezione di bellezza, sia pure – leopardianamente – vestita di illusorie e ingannevoli attrattive : « Ah, che dolore nei versi ! / La lodola irrequieta vira / sul tempo andato e lo valica. / Lei. Io / ne resto trafitto, 134 libri di poesia il giorno / è di quelli in eccesso. / Tento l’odio, l’idea / della morte, la rarità / del suono e il divieto / di accordi. Ma ritocca / l’esausto passo di nuvole / una luce e riè, com’era / prima, com’era giusta / di bellezza e di dolo / ai fini dell’incanto » (p. 19). Né viene meno, in Ricci, l’autoironia, alimentata dall’idea (il versante umile, anche troppo severo, del narcisismo contemporaneo) di essere solo – per dirla con le parole che lo stesso poeta appose in conclusione ai Cavalli del nemico – un « dilettante che racconta storie veramente accadute», calcando le orme dei poeti a sé più « fraterni ». Come nei seguenti versi, dov’è chiaro il riferimento a un noto libro dell’ultimo Saba : « Mi alzo la mattina, vado in terrazzo, è / inverno e lo so, non sono / Heine. / Un disgraziato passero si gioca / un’amicizia per un movimento / sbadato sul cornicione. / Almeno questo ho in comune / coi grandi poeti che, / giunti alla fine, parlano / degli uccelli » (p. 20). Severo, malinconico, spesso duro, pieno di verità non solo di ordine esistenziale, L’arpa romana è libro che non ci delude mai, dalla prima all’ultima pagina, che ci pare anch’esso fraterno e autentico, e ci spinge a rileggere le opere precedenti di Ricci – così trascurate in sede critica – a far nostro, insomma, un poeta vero che forse non ha mai creduto di esserlo fino in fondo.

Testo”, Numero 55, Gennaio-Giugno 2008

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