un tale, una tale – tra oralità e scritture n.3: Il Bianco e l’Augusto. Note sulla poesia in pubblico

 

di Umberto Fiori (Annuario di Manacorda; poi nella raccolta di saggi La poesia è un fischio,2007)

Per gli altri che guardano da fuori, le mie idee, i miei
sentimenti hanno un naso. Il mio naso. E hanno un pajo
d’occhi, i miei occhi, ch’io non vedo e ch’essi vedono. Che
relazione c’è tra le mie idee e il mio naso?

(L.Pirandello, Uno nessuno e centomila)

Le poème est une abstraction, une écriture
qui attend, une loi qui ne vit que sur quelque
bouche humaine, et cette bouche est telle qu’elle est.

(P.Valéry, De la diction des vers)

Franco Fortini raccontava (non so se l’abbia anche scritto da qualche parte) che dopo avere terminato una poesia era sua abitudine metterla alla prova, leggendola ad alta voce con un marcato accento emiliano, o romanesco: se reggeva l’esame, la considerava riuscita.
Qualcuno potrà archiviare l’aneddoto come una delle tante stravaganze di un intellettuale raffinato e lunatico. Io ho sempre pensato -e continuo a pensare- che la sua dichiarazione fosse ben più di una boutade. Forse non adotterei l’esperimento fortiniano come test universale di tenuta poetica; e tuttavia, quella buffa “prova del fuoco” mi sembra molto sensata e istruttiva.
Fortini propone di esporre sistematicamente il sublime, lo straordinario (la poesia), alla sfida dell’ordinario, del comico. Il poetico -ci suggerisce- è autenticamente tale solo se è in grado di reggere il suo contrario, se è capace di neutralizzarlo, di incorporarlo, di assimilarlo. Noi pensiamo subito a Shakespeare, a Cervantes, a Gadda; ma attenzione: nella polarità proposta da Fortini, sublime e comico non sono interni al testo: il primo è rappresentato dall’opera, dalla poesia scritta, il secondo da un elemento extratestuale, da una oralità pensata nella sua forma più terra-terra. La tensione che il poeta era uso ricreare artificialmente nel suo personale laboratorio, insomma, non è tra due registri della scrittura: è tra la scrittura e la voce.
Nell’orizzonte della nostra maggiore tradizione, la poesia è essenzialmente segno muto, monumento di parole fermato per sempre sulla pagina. L’equilibrio, l’armonia, la saldezza di questo monumento -ci dice Fortini- devono saper resistere alla minaccia rappresentata dalla voce.
Nell’esperimento fortiniano, l’inflessione regionale interviene come una forza capace di infettare il senso del testo, il tono che lo sostiene, capace di sabotare, di stravolgere, di paralizzare, con la sua verità invadente, l’alta finzione della pagina. La voce denuncia che le alate parole della poesia, alla fin dei conti, hanno radici in un signore (o signora) in carne e ossa, in una bocca, in un corpo. L’universalità, l’astratta soggettività, il rigore, il mistero della parola poetica sono costretti a misurarsi, quando risuonano in una voce, con ciò che è loro massimamente estraneo: la contingenza di una presenza carnale, di un’identità anagrafica; la loro precarietà, la loro prosaica ovvietà.
Nel suo test, Fortini estremizzava volutamente e un po’ sadicamente questo conflitto, ricorrendo a inflessioni locali legate più di altre -nel nostro pregiudizio nazionale- a stili di vita poco spirituali: pensava forse che il suo toscano da speaker radiofonico non avrebbe giocato altrettanto efficacemente la parte di ciò che è altro rispetto al poetico. Anche nella dizione più neutra e più “corretta”, comunque, la tensione che egli ci ha indicato permane.
Quando ascoltiamo Ungaretti, Montale o Pasolini leggere le loro poesie -e magari li vediamo, nelle videocassette pubblicate di recente da Einaudi-, non possiamo non restare colpiti dall’impatto che la voce del poeta, la sua faccia, la sua mimica, tutta la sua presenza, hanno sul testo.
“Sono una creatura”, che sulla pagina è appena un graffito inciso al confine di vasti silenzi bianchi, nell’esecuzione dell’autore diventa un lungo ruggito cavernoso, accompagnato da smorfie e ammiccamenti; il pathos, che il testo scritto argina e distilla, tracima senza ritegno nella pronuncia. Montale è più trattenuto, più sobrio; ma anche nella sua lettura si avvertono qua e là un’enfasi e una solennità di maniera, che contrastano con l’asciuttezza della scrittura. In Pasolini, l’effetto è rovesciato: la voce tenue e un po’ efebica dell’autore, le sue esse, le sue giacchette casual, i suoi golfini, stanno in una curiosa dissonanza con la letterarietà sostenuta, quasi carducciana, delle “Ceneri di Gramsci”.
In teoria, la lettura dell’autore dovrebbe meglio di ogni altra illuminare il testo; invece si ha l’impressione che lo offuschi, creando un effetto simile a quello di una foto a colori stampata fuori registro: la voce e l’immagine del poeta, il più delle volte, sovrappongono imperfettamente ai versi il proprio senso, la propria specifica semiosi. Mentre Montale legge “Spesso il male di vivere”, è difficile distogliere l’attenzione da ciò che dicono le guance e la cravatta di quel distinto signore seduto nel suo studio di Via Bigli. Opera e autore ci stanno di fronte, uno accanto all’altra, senza riuscire a formare un’immagine unitaria.
Il contrasto non è solo di stile, di tono; colpisce, fra il testo scritto e quello costituito dalla voce e dalla presenza dell’autore, soprattutto una disparità che potremmo chiamare compositiva. Mentre nei versi riconosciamo un oggetto estetico integralmente formato, prodotto di una volontà creativa rigorosa, la dizione del poeta, la sua mimica, la sua voce, il suo aspetto, ci si presentano invece come elementi relativamente accidentali, provvisori, intercambiabili, il cui rapporto con l’opera, col testo scritto, non è stato pensato, progettato, controllato con altrettanto rigore.
Le ragioni sono ovvie: il poeta non è un attore, né -se non occasionalmente- un dicitore; la poesia della nostra maggiore tradizione novecentesca è concepita essenzialmente per una lettura mentale; la sua performance da parte dell’autore resta un evento occasionale, che il poeta non rifiuta in linea di principio, e anzi può persino ricercare, ma sul quale non si dà pena di riflettere più di tanto. Più che come problema teorico, quello della lettura ad alta voce sembra porsi nella nostra cultura letteraria come un problema di gusto, di buon gusto. Più delle cose da fare, sono importanti quelle da evitare.
Anche in questa prospettiva ristretta, comunque, emergono questioni di non poco rilievo. La più evidente è quella del rapporto tra poesia e teatralità. Leggere ad alta voce i propri versi -anche in privato, per pochi intimi- significa fare i conti, lo si voglia o no, con una dimensione profondamente estranea a quella della lirica così come è stata concepita a partire dal Simbolismo francese e dall’idea di “poesia pura”. A questo riguardo, possiamo individuare nel Novecento italiano due strategie contrapposte. Tutto un filone della nostra lirica -quello che va dall’Ermetismo alla cosiddetta “Linea lombarda” e oltre- eredita dal Simbolismo francese il rifiuto dell’eloquenza, della declamazione: anche il minimo elemento teatrale viene respinto come triviale ricerca dell’effetto. La lettura ideale è piana, priva di slanci, tendenzialmente inespressiva. Sul versante opposto troviamo la corrente che va dal Futurismo a certi settori della neoavanguardia, corrente per la quale proprio la teatralizzazione della poesia, la sua trasformazione in “performing art”, sembra costituire il perno di un radicale antilirismo e di una drastica “modernizzazione”.
Questo lo schema. In realtà, come abbiamo osservato, la pratica dei singoli autori è assai più complessa e contraddittoria: l’ermetico Ungaretti legge i suoi versi senza risparmio di effetti declamatori, persino Montale sottolinea i passi più salienti con un vibrato di maniera, Pasolini mormora la sua poesia “civile” come una confessione intima. E gli altri poeti italiani del secolo? Come leggevano, come leggono i propri versi, come si misurano con la voce, con la presenza dell’autore, con l’inevitabile teatralità di ogni lettura pubblica?

In un saggio fondamentale sull’argomento1 , Franco Fortini parla di “tutta un’età, quasi un secolo, di dizione spiritualizzata interiore litanica odiatrice della emozione ed esaltatrice della parola segreta e dei suoi poteri liturgici”2 , e ci offre la propria testimonianza:

L’automortificazione della eloquenza emotiva è stata tanto grande e di moda nell’ambito ermetico e nell’Italia degli anni Trenta, che dir con garbo o passione i propri versi, secondo un costume conviviale di alcune regioni italiane, quasi bastava a squalificare l’autore. Siamo stati educati a disprezzare gli attori di quel tempo -Ruggeri, Ricci, Benassi- che declamavano in teatro Dante o Carducci, Lorenzo de’ Medici o D’Annunzio. Posso testimoniare che il timore della sonorità della eloquenza e del gesto è stato, in quella generazione, così grande che Sergio Solmi, Vittorio Sereni, Mario Luzi spingevano spesso l’inespressività, la depressione del porgere (vera moda d’epoca) sino a mascherare, leggendoli, alcuni dei loro più belli endecasillabi3.

Chi abbia avuto la fortuna di ascoltare “dal vivo” i poeti citati, non potrà che confermare. Sereni in particolare, messo davanti a un microfono, dava l’impressione di voler raggiungere, nella lettura, una sorta di grado zero dell’espressività e della “pubblicità”: anche di fronte a centinaia di ascoltatori, leggeva i suoi testi a mezza voce, senza impennate di tono, con la massima naturalezza possibile, come ragionando con un solo interlocutore seduto a pochi passi da lui. Il suo pudore rasentava l’imbarazzo.
Molto meno imbarazzato, e anzi -diciamolo- decisamente compiaciuto, appariva Fortini, suo coetaneo, nella parte del dicitore di se stesso. La pronuncia sobriamente toscana era l’unica invariante delle sue performances, che per il resto non si attenevano a uno stile fisso. Anche nel corso della stessa serata, ora declamava come un vate, ora mormorava come un officiante, ora sottolineava vistosamente ritmi rime assonanze allitterazioni, entusiasta o straniato, commosso o didascalico, ma sempre con l’aria di dire: “Io fo come mi pare: la vostra ammirazione e la vostra riprovazione le ho già capite prima e meglio di voi”. Le sue letture ad alta voce erano uno show critico, guidato -o piuttosto perseguitato– da un’isterica consapevolezza.

Fortini può apparire, tra i poeti di quella generazione, il più teatrale: pochi avevano il suo talento di dicitore, il suo gusto della scena, della platea. E tuttavia, io credo che per riflettere sulla teatralità della poesia sia più utile considerare altre esperienze; penso, ad esempio, a quelle di due poeti per molti aspetti distanti l’uno dall’altro: Giovanni Giudici e Edoardo Sanguineti.
Partiti da premesse molto diverse, questi due autori sembrano convergere -a un certo punto- sulla messa in opera di una maschera autobiografica, di una persona che fa da matrice alla scrittura.
Che il personaggio da cui la poesia si genera corrisponda più o meno fedelmente alla “vera” personalità dell’autore poco importa, evidentemente, tanto sul piano puramente letterario quanto su quello della “teatralità”; è rilevante, invece, osservare le dinamiche che si stabiliscono tra una tale poetica e la lettura pubblica. Il Giovanni Giudici che legge al microfono le sue poesie forse non è proprio il Giovanni che nelle poesie si racconta, ma certo è perfettamente credibile nella parte. Ha, come si suol dire, le physique du role. La sua pronuncia, la postura, il tono, l’abbigliamento, persino la pettinatura, mettono impeccabilmente in scena il personaggio evocato dai versi, come nessun attore potrebbe fare. Tra il testo e la presenza dell’autore non avvertiamo scollamento: ecco il corpo di questa poesia, ecco la fonte di queste parole. L’impressione è molto vicina a quella che riceviamo quando parliamo con qualcuno. La differenza c’è, evidentemente; ma è una differenza di intensità, di ricchezza di senso, che non nasce da particolari artifici performativi. Il poeta impersona se stesso. I suoi abiti di ogni giorno sono il costume del personaggio che incarna; la sua faccia ne è la maschera. Nel caso di Giudici, il gioco tra realtà biografica e finzione, tra maschera e presenza “vera”, è complicato da mille filtri ironici. Nel caso di Sanguineti (penso in particolare a una lettura di Postkarten), l’effetto -nonostante l’ironia- è quasi iperrealista: il professor Edoardo Sanguineti, che legge ad alta voce aneddoti autobiografici, confessioni intime, divagazioni intellettuali, è lì molto più di quanto lo sarebbe se lo incontrassimo direttamente e ci intrattenessimo con lui. Messo su un palco, è più vero del vero.

In Giudici come in Sanguineti, la teatralità -che coglieva Sereni in contropiede, costringendolo a giocare tutto in difesa- viene accolta senza imbarazzi, e anzi entra in gioco già a partire dalla scrittura.
Anche Fortini -lo abbiamo osservato- affrontava il problema di petto; in lui, però, la “messa in scena” della poesia era prevalentemente vocale, declamatoria. Il poeta-lettore metteva la propria viva voce al servizio di quella -muta, astratta, universale, disincarnata- dell’io poetico chiuso nella pagina: senza perdere il suo carattere lirico, il testo veniva magistralmente eseguito. L’idea di Fortini era insomma quella di un testo-spartito, e del poeta-dicitore come “strumentista” virtuoso e avvertito. La teatralità di Giudici e di Sanguineti, invece, non si esprime in una eccellenza performativa, esecutiva: è insita nel testo e, ancor prima, nella poetica dei due autori. Le sue radici vanno probabilmente ricercate in Gozzano, nella sua esibizione ironica e disincantata del poeta come personaggio, come maschera sociale. E’ con lui che per la prima volta la coscienza di un’eclissi della Poesia con la P maiuscola illumina la scena ammobiliata dove l’autore, in panni borghesi, recita la tragicommedia della propria presenza (un altro possibile antecedente è Palazzeschi, nel quale la tragicommedia assume i toni del varietà, e il poeta si esibisce nei panni del “buffo”).

Sembra, insomma, che solo a patto di esorcizzare il tragico attraverso l’ironia, o di imporgli un velame, una sordina, il poeta italiano del Novecento accetti di mettersi in scena, di prestare la propria voce viva alle parole del testo, di metterne pubblicamente a nudo la radice carnale. Senza “depressione del porgere”, senza ironia, la serietà della lirica contemporanea, messa su un palco, teme di essere travolta dal patetico, dall’enfasi, dal ridicolo di una presenza impensata e inopportuna.
Ci sono state tuttavia, nel secolo, prospettive diverse. Alla linea “avanguardistica” abbiamo già accennato; un’altra, forse ancor più rilevante anche se a lungo considerata minore, è quella legata alla poesia in dialetto. L’oralità e la teatralità, fonte d’imbarazzo per la lirica in lingua, sono, in essa, caratteri fondanti.
Delio Tessa fu -ci dicono- un abilissimo performer dei propri testi, talmente convinto dell’importanza dell’”esecuzione” da spingersi a fornire, a margine del suo poemetto “De là del mur” (1931), indicazioni dettagliate per il dicitore (“questa frase verrà sussurrata, sarà a pena udibile… quest’altra invece sarà in fortissimo…4 ). Pratiche simili sono impensabili nel contesto della lirica ermetica degli stessi anni, refrattaria a qualsiasi “effetto” derivante da espedienti performativi. E’ significativo che il più antiermetico dei poeti in dialetto di quegli anni, Giacomo Noventa, facesse circolare i propri versi recitandoli a memoria a un gruppo di amici, e per anni si sia rifiutato di darli alle stampe. In lui, la prospettiva ermetica (e, più in generale, quella della poesia “pura”) si capovolge: la poesia deve essere “un omo vivo, finalmente, e no/ povari libri”. Nella sua esperienza poetica -comunque se ne vogliano giudicare gli esiti- la questione dell’oralità mostra tutta la sua portata, e le sue profonde implicazioni. In gioco non è più il problema -secondario e apparentemente ozioso-  dell’opportunità della lettura a voce alta, della sua qualità: al Libro -che Mallarmé vedeva come l’approdo supremo del mondo, e che diventa qui “povaro libro”- Noventa contrappone la presenza viva, integrale, del poeta-uomo, che nell’oralità si offre intero insieme alle sue parole. Il Verbo poetico, in lui, vuole farsi carne. Senza il martirio, senza la testimonianza di un “omo vivo”, la poesia gli sembra ridursi a vacuo esercizio letterario.
In questa prospettiva, la lettura ad alta voce non è più un fatto occasionale, accessorio: è la liturgia attraverso la quale viene evocata, viene convocata una comunità legata da una comunicazione che è comunione tra uomini vivi. Nella dimensione orale, la poesia ricerca le proprie origini di evento comunitario, fondativo, sacrale. I risvolti mistici di una tale posizione possono far storcere il naso a chi ha imparato ad astrarre dall’esistenza, a distinguere tra la vita e l’opera, tra l’autore e l’uomo, tra il testo e la voce; la radicalità di Noventa, comunque, ha il merito di indicarci un problema che nelle nostre letture pubbliche è da sempre rimosso, o resta implicito, impensato: quello del rapporto tra la poesia e la presenza dell’autore, tra i segni verbali che costituiscono il testo e il segno -parlante e muto, opaco e lampante- che il corpo del poeta ci esibisce e ci offre.
Noventa è -lo ripeto- un caso estremo; ma in tutti i poeti in dialetto il rapporto con l’oralità è centrale, e assume caratteri opposti a quelli che abbiamo osservato nella tradizione in lingua, avanguardie comprese.
A dispetto della scelta espressiva apparentemente nostalgica e attardata, e dei legami con una tradizione fino allora considerata minore, le prime letture pubbliche di Franco Loi o di Raffaello Baldini, negli anni ‘70, producevano un effetto di intensa novità, tanto nettamente si staccavano dai modi a cui i poeti italiani avevano abituato il loro pubblico.
Non si trattava soltanto di una differenza linguistica. Nella dimensione pubblica, Loi aveva l’aria di trovarsi perfettamente a proprio agio: trasformava i suoi readings in affabulazioni cordiali e appassionate; si rivolgeva direttamente ai suoi ascoltatori, li guardava in faccia, a volte li interpellava; nell’interpretare i testi, non si preoccupava di evitare gli effetti più clamorosamente teatrali.
Nei monologhi “naturali” e stralunati di Baldini -il cui atteggiamento era, all’opposto, estremamente riservato e quasi circospetto- la teatralità risultava ancora più eclatante. La voce dell’io lirico non si presentava mai “di fronte”: nasceva di riflesso, dalla messa in opera di questo o quell’alter ego extrapoetico, dei suoi ragionamenti balordi, dei suoi bofonchiamenti. Se ripensiamo all’esperimento fortiniano dal quale abbiamo preso le mosse, possiamo dire che Baldini compiva il percorso inverso a quello proposto da Fortini: partiva, cioè, dalla voce, per arrivare alla poesia. Quel “basso” che sembra minacciare oscuramente le altezze del poetico, era nel suo lavoro la base per un’ascesa cauta e avventurosa.
Si è molto discusso e polemizzato sui motivi del revival neodialettale e del suo successo; io credo che uno dei punti di forza di poeti in dialetto come Baldini e Loi sia stato quello di tornare a porre, dopo molti anni, la questione di un legame della poesia -più che con un parlato o con una certa comunità di parlanti- con il parlare in generale, con la parola viva che corre tra i corpi.

Gli anni in cui Loi e Baldini si rivelavano erano gli stessi in cui si assisteva, in Italia, a un inedito fiorire di letture pubbliche. Quello che nella cultura letteraria angloamericana, o russa, era un uso consolidato da decenni costituiva -per la nostra poesia- un’autentica novità. I poeti italiani -per i quali fino allora la lettura ad alta voce restava un fatto marginale- si trovavano a confrontarsi sempre più spesso con una dimensione a loro sostanzialmente estranea. Il problema di dare al testo scritto un’appropriata esecuzione vocale cominciava a porsi in modo sempre più urgente. Le soluzioni stanno ancora oggi di fronte a chiunque frequenti i readings poetici. Vediamone alcune.
Tra i poeti emersi negli anni ‘70, Milo De Angelis è forse il più vicino ai modi di una dizione di matrice ermetica. La sua è una pronuncia emozionata ma trattenuta, rigorosamente antiteatrale. Legge a voce bassa, senza sottolineature di tono, senza mai alzare lo sguardo dalla pagina. Dà l’impressione di voler difendere la solitudine e il segreto della poesia dalla dimensione pubblica, dall’invadenza della “comunicazione”.
Lo stesso imbarazzo “sereniano” sembra incombere sulla lettura di un altro poeta della stessa generazione, Cesare Viviani, il quale però, a differenza di De Angelis, non oppone alla pubblicità dell’evento una dizione “interiorizzata”, bensì una curiosa pantomima pseudocomunicativa: leggendo alza lo sguardo, solleva le sopracciglia e si morde le labbra, con una smorfia che sembra significare “Eh, sì, cari miei!”, oppure “Mah! Senti un po’ cosa si dice qui!”. E’ come se prendesse pensosamente atto di quello che un altro ha scritto.
Valerio Magrelli non denuncia imbarazzi: sembra preoccupato soprattutto che nella dizione il testo risulti chiaro, che nessuna parola si perda. La sua lettura è sobria, distaccata, “oggettiva”, impersonale, come quella di uno speaker televisivo. Altrettanto distaccata, ma di un distacco più insistito, sottilmente teatrale, è la lettura di Valentino Zeichen, sornione, allusivo, quasi didascalico a volte nel sottolineare la gag linguistica, l’ironia, il divertissement.
Vivian Lamarque tempera il falsetto e il patetico della sua scrittura con una recitazione compassata, neutra, che delega tutto l’effetto al testo. Ancor più in là si spinge Biancamaria Frabotta, la cui lettura è tra gli esempi più austeri di straniamento antipatetico, antinaturalistico, antiteatrale: il tono di voce è uniforme, l’intonazione evita sistematicamente di assecondare le curve del senso. Siamo di fronte a una pura esecuzione del testo, una lettura “tecnica”, tesa a mettere in risalto esclusivamente gli aspetti formali, spesso in contrasto con la visceralità del dettato.
La teatralità dilaga invece nelle esibizioni di Patrizia Valduga, che in gramaglie, con voce di pianto, mette in scena i suoi tours de force algo-metrico-erotici. In lei la poesia non si confronta col teatro: è  -da cima a fondo- teatro. L’autore stesso, lì presente, è essenzialmente  un’invenzione, una maschera. La Valduga non è mai “in borghese”: è sempre in costume da poeta. Il tragico, in lei, non mette la sordina, non cerca l’alibi dell’ironia: pene e godimenti ci vengono esibiti senza schermi. Ma la persona che ci spalanca la sua intimità non c’è, non è lì. Al suo posto c’è la Poetessa.

Proprio a partire da quest’ultimo esempio possiamo tentare una riflessione più generale sulla condizione del poeta-dicitore nel nostro tempo.
Un disegno di Fortini in copertina al già citato saggio “La poesia ad alta voce” la sintetizza magistralmente. Il disegno raffigura una sorta di Pierrot, col viso infarinato e un cappellino a pan di zucchero. E’ il “clown bianco”: quello che nella gag -spesso con un violino in mano- gioca la parte del Sublime e del Patetico. La sua malinconia e i suoi slanci sono eternamente esposti agli sberleffi dell’Augusto, il clown “buffo”, che lo spernacchia col trombone.
Quando legge in pubblico i propri versi -sembra dirci Fortini- il poeta contemporaneo si carica del peso di un Sublime ormai insostenibile (fisicamente insostenibile) da un singolo signor Tal dei Tali; è il clown bianco, sempre sul punto di essere sopraffatto da quell’invadente Augusto che è la sua stessa presenza in carne e ossa, la sua prosaica identità anagrafica.
Per il solo fatto di essere messa in scena, insomma, la serietà della lirica tende a scivolare verso un’involontaria commedia. Questo effetto di distorsione deriva da una caratteristica anomalia della teatralità che si genera quando la poesia viene letta ad alta voce. In questo strano teatro, la presenza dell’autore introduce un incontrollato effetto di realtà. L’attore che qui si esibisce, infatti, non è un attore. Interpreta, in un certo senso, la parte di se stesso. Ma di quale se stesso? Del poeta lì presente, dell’io astratto virtuale disincarnato che opera nel testo, o magari di quel soggetto disseminato, poliforme, “nomade”, che è stato uno dei miti della poesia degli anni ‘70?
“Je est un autre”. Ma sul palco -ahimé- c’è il signor Tal dei Tali. I poeti ne sono ben consapevoli; la maggior parte di loro, infatti, si sforza di nascondere quel Tal dei Tali, di neutralizzarlo, di sublimarlo attraverso una lettura “impersonale”, straniata; o all’opposto -come nelle performances di certa tardoavanguardia- di conferirgli una generica dignità estetico-letteraria di corpo. Altri -lo abbiamo visto in Giudici e Sanguineti, ma potremmo pensare a Bellezza, a Cucchi- inseriscono il Tal dei Tali in un gioco di maschere; altri ancora, come la Valduga, lo fanno fuori, per incarnare definitivamente l’autre.
Nella loro varietà, queste strategie si misurano con un’unica domanda: qual è il rapporto tra rappresentazione e presenza, tra il testo e la persona viva che lo ha prodotto?

“Non sappiamo bene che cosa sia un ‘testo’, né se davvero esista”, scrive Andrea Zanzotto. “Posto comunque che ci sia, non v’è dubbio che gli sia propria un’indipendenza da ciò che lo ha fatto esistere, in un processo di genesi e quindi separazione”5 .
Il testo è tale, insomma, quando il cordone ombelicale che lo connette “alla testa, all’organo lingua, all’organo occhi orecchi” -al corpo dell’autore- è reciso. E tuttavia il testo -osserva ancora Zanzotto- “non è mai ‘nato abbastanza’ per potersi staccare dal corpo-psiche mediante il quale è stato reso possibile, e del quale, forse, è soltanto una proiezione, anziché una vera filiazione”6.
In ogni lettura pubblica, noi assistiamo a una nuova messa in scena di quella penosa separazione; siamo investiti dal suo scandalo, dalla sua oscenità. La tradizione occidentale ci ha aiutato finora a sostenere questo spettacolo. Noi abbiamo imparato a pensare che il testo salvi nei suoi segni, insieme col significato, ciò che della presenza di chi lo ha scritto è essenziale. Il corpo invecchia, muore, ma la sua traccia più vera rimane. Di questa fede si nutre la scrittura. Ma proprio l’alta pretesa del testo, di risolvere in solida memoria la precarietà della presenza, fa di ogni pubblica lettura l’esibizione di un ingombro imbarazzante. Se solo l’opera davvero c’è, che cosa ci fa il poeta lì, vivo, in mezzo ai suoi versi? Che cosa penseremmo di un pittore che si mettesse davanti al suo quadro, e ci costringesse a guardare la sua faccia di “omo vivo” insieme a ciò che ha dipinto? Riflettere sull’impertinenza di questo paragone significa pensare della poesia ciò che rimane impensato, ma che si mostra in ogni lettura pubblica.
Insieme al testo, il poeta che legge i propri versi consegna un corpo alla comunità, si offre intero alla sua memoria. Vuole restare, vuole salvarsi. Ma che cosa può, che cosa deve restare? Che cosa, e dove, la memoria salva? Che cosa è comune? Su questo ci interroga oggi la voce viva che ascoltiamo.


 

 

 

1 F.Fortini, La poesia ad alta voce, Taccuini di Barbablù, Siena, 1986

2 Ibid., p.18

3 Ivi, p.18

4 Si veda D.Tessa, L’è el dì di mort, alégher! De là del mur e altre liriche, a cura di D.Isella, Einaudi, Torino, 1985;

5 A.Zanzotto, Vissuto poetico e corpo, in “Poesie e prose”, Mondadori, Milano, 2000, p.1249;

6 Ibid., p.1250.

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