Qualunque sia l’apparato linguistico, la poesia rende percepibile questo limite di rappresentabilità, come dire: rende percepibile l’irrappresentabile. — Cesare Viviani

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Stefano Dal Bianco: Inediti

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Il suono della lingua e il suono delle cose: Stefano Dal Bianco su “Trame di letteratura comparata”

Il suono della lingua e il suono delle cose: Stefano Dal Bianco su “Trame di letteratura comparata”

Non è vero che viviamo in un mondo vuoto. Oppure è vero, ma dicendo così non si è fatta abbastanza chiarezza sulla vera natura del nostro malessere: il nostro mondo è fatto male non perché sia privo di significati, ma perché di significati ce n’è troppi. Siamo bombardati dai significati, tutti i giorni, tutte le ore della nostra vita. Passiamo il tempo a interpretare i segni che il mondo ci scaraventa contro, interpretiamo tutto, psicologizziamo tutto e tutti, tutto si trasforma in sapere, tutto ciò che non è riducibile a uno qualunque dei saperi codificati tende a non esistere, perde ogni diritto di cittadinanza. Importa solo ciò che è dicibile, classificabile, scambiabile. E non ha molta importanza la qualità dei significati in questione: che siano effimeri oppure no, il meccanismo è lo stesso.Da questo punto di vista non c’è nessuna differenza tra un varietà televisivo, un libro di Habermas o di Cacciari e, al limite, una funzione religiosa o una musica new age: tutto è dominato dai significati. Io credo che si possa guardare alla storia della società occidentale (non conosco bene le altre) come alla storia della progressiva invadenza dei significati sulle altre modalità di percezione del mondo (modalità anti-ermeneutiche). Credo che l’angoscia di Leopardi di fronte al dominio del commercio “spiritualista” del suo tempo, o, a ritroso, la polemica di Petrarca contro l’aristotelismo, appartengano al medesimo ordine di discorso: siano due tappe della presa di coscienza, da parte di alcuni, dell’enorme posta in gioco nella battaglia secolare tra le istanze mentalistiche (e utilitaristiche) connesse all’uso dei saperi e le istanze, sempre perdenti perché costitutivamente anti-autoritarie, che puntavano allo sviluppo sociale delle facoltà percettive legate ai corpi. Questa è anche la storia mefitica del declino sociale della poesia, che dopo Dante si è dovuta arroccare in difesa dei sensi, della percezione soggettiva (psicologia), oppure svendere in qualità di ancella di qualche sapere o potere. La cosiddetta poesia civile, quella più implicata con il mondo dei significati, ha poco senso perché nel migliore dei casi ci dice ciò che già sappiamo, e questo mi pare un compito ben povero per [...]


Il respiro e lo sguardo: un saggio di Gian Mario Villalta sulla poesia di Stefano Dal Bianco

Il respiro e lo sguardo: un saggio di Gian Mario Villalta sulla poesia di Stefano Dal Bianco

Esercizi d’oblio, esercizi di presente Si può dire che i ricordi siano immagini e parole, singoli fram­menti o intere sequenze, conservate in una specie di archivio di cui disponiamo. E si può dire che la memoria sia l’archivio stes­so, il suo modo di trattenere e collegare i ricordi, di trasformar­li, anche. Se si può dire così, potrebbe anche succedere qualcosa di con­trario all’opinione più immediata, che vuole che si conservi la me­moria di una persona quanto più se ne «usa» il ricordo, mentre sa­rebbe destinato all’oblio chi non viene spesso ricordato. Prendo il verbo «usare» da Il posto di Nelly, in Ritorno a Plana­val di Stefano Dal Bianco, dove dice: Quelle cose che erano tue o nostre io le ho usate fino alla consunzione ed è inutile ripetermi che è stata una buona mossa, che avrei sbagliato a fare gli altarini, ora quelle co­se sono diventate uguali alle altre, a quelle che non esistevano allora e che per me non hanno nessun senso, le ri­spetto perché sono fatto così e basta ma non sono non sa­ranno mai Nelly. Molto tempo fa, quando è morta giovanissima in un incidente, Nelly ha lasciato la bellezza e l’amore dei ricordi e una ferita nel­la memoria. Conservare intatti i ricordi di Nelly, «fare gli altarini», ovvero non usarli: così i ricordi avrebbero potuto tenere aperta la ferita nella memoria. Mentre usarli ha significato modificare la memoria, sanare la ferita. Si chiama «elaborazione del lutto», qualcosa di ben noto nel­l’antropologia umana. Quello che nell’«elaborazione del lutto» fatica a venire in rilie­vo, perché si pensa che la psiche sia ben lieta di liberarsi dal do­lore, risulta essere il legame tra identità personale e sofferenza: fin­ché soffro per un lutto sono ancora io, il vuoto che mi ossessiona è ancora al suo posto, al posto della persona che mi appartiene, è ancora l’amore che mi fa essere me stesso. Se perdo anche la sof­ferenza, perdo veramente tutto, e con questo «tutto» anche (una parte di) me stesso. Scrive Dal Bianco, alla fine del «processo di elaborazione del lutto» di cui si parla in questa prosa poetica: Per [...]


Stefano Dal Bianco: Ritorno a Planaval

Stefano Dal Bianco: Ritorno a Planaval

Ritorno a Planaval Stefano Dal Bianco 2001, 120 p. Mondadori (collana Lo Specchio) Dalla quarta di copertina di Pier Vincenzo Mengaldo: Stefano Dal Bianco è un uomo che si guarda vivere ad ogni istante ostinatamente, dolorosamente. E pensa a se stesso, col correttivo di affetti familiari nitidamente detti, come a una virtualità. Da ciò due aspetti salienti del suo libro: la forma di diario, o diario spezzato, e il continuo esprimersi al condizionale. Ma il “diario” è costruito con continue transizioni fra una prosa essenziale di micro-eventi (ma né “poetica” né sapienziale) e una poesia scandita liberamente: spesso all’interno dello stesso testo, con effetti quanto mai suggestivi di chiusura e distensione, inediti nella poesia d’oggi. E se l’introspezione è l’atteggiamento fondamentale del libro, quell’io però è collocato in ambienti precisi, sempre visti un po’ di sbieco, che possono ridursi alla casa, a una stanza, a una finestra. In fin dei conti, domina il contrasto epocale fra città e “natura”, che Dal Bianco si limita a porre senza dar risposte (come deve fare la poesia); e non è che la città non possa spremere minime gocce di felicità, anche se la libertà sta altrove. Dal Bianco non è un poeta “ideologico”. Neppure si chiude alla speranza che – diceva Kafka – esiste in misura infinita ma non per noi. Ed ecco che le immagini più ricorrenti sono quelle “contemplative” della luna e dell’azzurro, ora piene ora offuscate.   Questo poeta così notevole non assomiglia a nessun suo confratello d’oggi, anzitutto perché non ha alcuna fretta. La parsimonia e la concentrazione non sono in lui che la faccia operativa della serietà della sua introspezione.     Articolo 19, Aprile 2002, di Lorenzo Buccella : “Il ritmo è ciò che resta dopo che si è buttata via la zavorra del rumore del mondo”. L’affermazione di Stefano Dal Bianco, poeta padovano (nato nel 1961), forse meglio di altre rappresenta una sorta di “cartello stradale” per orientarci nella lettura delle sue poesie. Ed in particolare, dell’ultima raccolta Ritorno a Planaval che ha visto un autore della generazione di mezzo (quella dei quarantenni) approdare alla pubblicazione per [...]


Stefano Dal Bianco – Bibliografia

La bella mano, Milano, Crocetti 1991 Stanze del gusto cattivo, in Poesia Contemporanea. Primo quaderno italiano, Milano, Guerini e Associati 1991 Ritorno a Planaval, Milano, Mondadori 2001


Stefano Dal Bianco – Scheda Autore

Stefano Dal Bianco – Scheda Autore

Stefano Dal Bianco nasce a Padova nel 1961. Vive a Milano dal 1992. Dal 1986 al 1989, con Mario Benedetti e Fernando Marchiori, ha dato vita alla rivista di poesia contemporanea “Scarto minimo”. Nel 1992 si è laureato in Storia della Lingua Italiana presso l’Università di Padova, relatore P.V. Mengaldo. Dal 1992 al 1994 è stato redattore di “Poesia”, presso l’editore Crocetti di Milano. 1997: Dottorato di Ricerca in Filologia Romanza e Italiana (Retorica e poetica italiana e romanza), Università di Padova. 1998: borsa di studio post-dottorato a Padova. 1999-2002: Assegno di ricerca in Scienze della Letteratura, Università di Siena, Dipartimento di Filologia e Critica della Letteratura. Dal dicembre 2002 è ricercatore in Critica Letteraria e Letterature Comparate presso il medesimo Dipartimento. Si è occupato soprattutto di metrica teorica e applicata (Petrarca, Ariosto, Zanzotto) e di poesia italiana del Novecento. Ha curato un commento a tutte le poesie di Andrea Zanzotto (cfr. A. Zanzotto, Le poesie. E prose scelte, a cura di S. Dal Bianco e G.M. Villalta, con due saggi di F. Bandini e S. Agosti, Milano, Mondadori 1999). È nella redazione delle riviste “Il Gallo silvestre” e “Stilistica e metrica italiana”. È membro del gruppo di ricerca padovano (responsabile P.V. Mengaldo) affiliato al consorzio interuniversitario CIBIT per la informatizzazione di testi della letteratura italiana. Il gruppo padovano è responsabile dell’Archivio Metrico Italiano (AMI): marcatura metrica in rete di testi dal Due al Quattrocento. Ha tradotto da poeti angloamericani, francesi e neerlandesi, fra i quali M. Moore, M. Hartnett, B. Simeone, M. van Daalen, E. Spinoy, W. Stevens, E.E. Cummings, G.M. Hopkins. Ha pubblicato tre libri di poesia: La bella mano, Milano, Crocetti 1991. Stanze del gusto cattivo, in Primo quaderno italiano, Milano, Guerini e associati 1991. Ritorno a Planaval, Milano, Mondadori 2001. Alcune poesie sono state tradotte in neerlandese, in tedesco, in francese e in serbo.