Vincenzo Frungillo: Le pause della serie evolutiva

INNOCENZA E COLPA

Per la legge naturale della specie
solo chi conosce fino in fondo
la tenerezza dello stare al mondo
può vedere le barbarie, 

e chi, per sua fortuna,
non conosce l’essenza delle creature
non può vedere la violenza,
può soltanto praticarla.

Le pause della serie evolutiva di Frungillo si apre, in modo sorprendente,  con una socratica dichiarazione di incolpevolezza: per “legge naturale” chi conosce il bene (“la tenerezza dello stare al mondo”) distingue la barbarie e quindi gli è possibile non compierla, mentre chi non riconosce la violenza “può soltanto praticarla”.  Il male scaturisce dall’ignoranza, dall’ignorare la tenerezza per le creature. Nelle poesie successive tuttavia, questa affermazione sembra essere posta in dubbio, e la meccanica si fa pesante: dall’iniziale sottolineatura dell’incolpevolezza del male, dipendente da un non saper vedere, si passa a una serrata riflessione sulla colpa della specie. Sembra quasi che la colpa scaturisca da un difetto nella continuità,  sia legata alle pause e alle lacune della serie evolutiva, quindi all’individuazione: l’individuazione stessa pare in qualche modo “colpevole”, innanzitutto perché nessun individuo viene a capo della propria origine:

non si afferra ciò che ci precede.
E allora si pone sulla bilancia la propria vita,
e la propria morte, chi tenga in equilibrio il tutto
non si conosce. La chiamo meccanica pesante
questo stare fermi a guardare il sistema di leve
in cui siamo entrati senza far rumore. 

Il sistema a cui apparteniamo e di cui siamo continuatori è incomprensibile e noi siamo separati da ciò che ci precede e che ci ha generati. Anzi siamo incastrati in qualcosa di macchinico (il fruscio di fondo della macchina, /il suo motore che continua ad andare, /ci unisce gli uni agli altri, anche se con gli anni /ci sentiamo sempre più soli e distanti), in un sistema di leve che comunque non controlliamo; ciò ci induce alla remissività e al silenzio, e ci procura soffocamento e sofferenza, anche perché il tacere di fronte al meccanismo che ci opprime – ma al contempo ci unisce gli uni agli altri – misconosce la nostra natura:

Eppure la nostra natura è fatta di parole,
la nostra natura è tradire, spostare l’ombra,
risanare ogni volta l’assenza che ci forma. 

Questi testi di Frungillo accettano una sfida e la rilanciano: credo che la poesia voglia qui diventare, in senso profondo, ecologia, cioè innanzitutto analisi di ciò che influisce sulla vita degli organismi naturali, e in secondo luogo drammaturgia della faglia apertasi fra soggetto e mondo, uomo e natura. Accade infatti qualcosa di molto interessante in questo libro, in cui i piani si intrecciano rimandando più volte gli uni agli altri:  ci sono serie evolutive che riguardano le specie (e istituiscono continuità in ogni caso problematiche: approfondirò fra breve la continuità-discontinuità fra uomo e animale) e ci sono le fratture biografiche all’interno di una continuità ereditaria. Ad esse appartiene la morte del padre, un evento che, per reazione, spinge “ad invocare la propria parte di pena”:

Ed ora vorresti una colpa tutta tua,
vorresti vederla fare ombra,
vorresti stanare i nomi dalla loro piega,
vorresti chiamarli fino a svanire
nel nucleo scintillante e parziale
della loro natura mortale.

Parzialità e colpa si appartengono: la colpa viene invocata, su un piano individuale, come rivendicazione della frattura che ciascuno di noi rappresenta all’interno di una continuità ereditaria. Una parte di tempo spetta ad ogni vivente, e qui Frungillo sembra dirci che con coraggio dovremmo esserne consapevoli, rivendicando  e accettando anche la parte di pena connessa al vivere. È la morte del padre a mettere in luce la natura mortale dei nomi: anche ogni nome è parziale.  Viene meno il padre, fondamento della permanenza, definito dal poeta  “occhio mansueto del tempo” e il linguaggio mostra di aver un nucleo “scintillante e parziale”, all’ombra della colpa.

VERTICALITA’ DELL’UOMO E ORIZZONTALITÀ DELLA TERRA E DELL’ANIMALE

Qui non serve prendere parola,
non serve lo sguardo frontale,
la postura verticale del primate
devi solo andare tra le pozze, 

saltare le buche, fare attenzione,
ragionare con la mente bipolare,
il fremito della corsa o il piglio
delicato della comprensione. 

Qui tutto si riduce all’elementare,
il carapace riverso sulla rena,
la carcassa decomposta della bestia, 

la vitrea sostanza della retina.
Ciò che conta è la spiaggia
e la lunga, secolare, distesa di terra.

Nelle pause della serie evolutiva, nell’interruzione del macchinico, si apre la possibilità di osservare l’esistente nella sua nudità. Frungillo “sta a guardare” attuando però una messa a nudo non tanto fenomenologica, quanto tragica, perché la realtà osservata, e ridotta all’elementare, resta muta e si distende come una spiaggia che attenda l’arrivo delle onde:

Lasci l’istinto minimale,
le cose poco serie, i refusi sul giornale,
a chi ancora crede in una correzione
e fissi l’orizzonte, 

la sua pancia gravida di onde;
resti in piedi nella secca, una sogliola ti fissa,
resta muta la natura, tutt’intorno si ritira
con l’onda di risacca che respira.

Non si dà comprensione né possibilità di correzione perché la natura si rivela un regno di corruzione senza storia; ma anche la cultura sembra quasi uscire dalla storia, la cultura è qui colta nel suo  tramontare, o almeno sta tramontando una certa idea di cultura, tanto che c’è il rischio di non essersi mai allontanati dalla preistoria:

“Bruciate ciò che resta”,
qualcuno rispondeva,
“bruciate anche la muraglia cinese”.
 

Perché un giorno non ci sarà confine
tra chi assedia e chi si difende.
La preistoria ci comprende.

“La preistoria ci comprende” e la sparizione ci attende, così come ha già raggiunto e cancellato gli animali estinti di cui parlano molte poesie del libro (in esse gli animali appaiono in sordina, quasi come se volessero nascondersi, perché l’autore non vuole fare della sparizione una bandiera). Frungillo infatti adotta in più poesie il punto di vista di un estinto, di qualcosa o qualcuno espulso dalla vita o dalla storia: si tratti di Pompei osservata da Plinio o di un animale (gli elefanti o l’orso) oppure di un grande complesso industriale dismesso o ancora della voce di Lucrezio suicida o di quella dell’ultimo malato nel lebbrosario di Spinalonga.  Non a caso alla sezione intitolata “Meccanica pesante” fanno seguito i dodici sonetti di “Terre straniere” e poi una sezione intitolata “La sparizione”: la meccanica pesante è alienazione ed estraneazione fino a sparire; il che è un venir derubati dell’esistenza stessa.

Nel sonetto Ora vivo dove riposano gli elefanti (che in una versione precedente apparsa sulla rete si intitolava La città del popolo. Völklingen) Frungillo opera in modo allegorico, assecondando la tendenza alla polisemia che caratterizza la poesia contemporanea, sicché gli elefanti che riposano con la gabbia toracica gonfia sono sia gli animali in via di estinzione sia le fabbriche del sito di archeologia industriale di Völklingen in Germania. Molti operai sono morti in quella fabbrica quando era ancora attiva. Gli elefanti citati nel testo sono il frutto di una sovrapposizione di immagini: elefantiache sono innanzitutto le fabbriche, con le loro ciminiere di ferro oramai arrugginite e dismesse. Qui il poeta incontra il fantasma di un operaio che ha “le dita molli del dubbio” e che potrebbe essere la proiezione della figura paterna (il padre lavorava in un reparto di meccanica pesante); nell’inconscio del poeta (solo lui può vedere l’avorio), tuttavia, si impongono anche le reminiscenze degli elefanti di Annibale costretti a scalare i valichi alpini dove trovarono la morte.

Ora vivo dove riposano gli elefanti.
Lì, dietro le ciminiere, tra le balle di ferro,
puoi trovare il loro cimitero;
hanno la gabbia toracica ancora gonfia nel fiato. 

Ci sono carrelli che salgono piano,
portano carbon fossile al cielo,
dal loro odore si sente quant’è nero.
Un operaio mi viene incontro, mi stringe la mano, 

dice che è caduto lavorando–
i fantasmi hanno le dita molli del dubbio
come di chi saluta senza volerlo– 

lui di questo posto è il guardiano,
controlla che nessuno tocchi l’avorio,
dice che adesso solo io posso vederlo. 

Altre significative epifanie di animali mettono in scacco la frontalità dello sguardo umano: dinnanzi al dolore di un animale in via di estinzione (un orso che può far sentire la propria voce solo rantolando) la memoria, anche quella poetica, “si corrompe” e “non vale niente”.

Se queste pietre avessero pietà
per le mie ferite, io avrei ragione,
in quanto animale tra le creature,
perché l’accento che tu noti, il dolore, 

è solo memoria che si corrompe
e, pensa bene, non vale niente.
Ora il mio modo d’avere voce
è un rantolo che non m’appartiene, 

che mi distrae dal battito del cuore.
E tu pure, dall’altra parte,
ti rassegnerai alla forza che si sprigiona 

nel momento estremo della caccia,
alla preda, che non si nasconde,
che si è estinta dalla faccia della terra.

Altrove, in una delle poesie più belle dell’intera raccolta (per la circolarità che la fa girare su se stessa dal primo all’ultimo verso:  nel dubbio su quale sia la verità e quale il sogno) Frungillo immagina che il lavoro manuale abbia lo scopo di zittire i cani del sogno, e si domanda se è vero che i cani siano privi di memoria:

Oggi mi sveglio più tardi del solito
e mi chiedo se tutto questo sia vero,
se esista ancora lo stato presente,
se ci sia posto per il suo regno, 

per le voci dei muratori
che alzano ponteggi al cielo,
se ogni loro gesto non sia un modo
per zittire i cani che ho sognato, 

e mi chiedo se gli animali
se è vero che i cani
non abbiano memoria, 

se è vero che non soffrano,
non provino dolore,
come chi non ricorda i propri sogni.

 

Il DIFETTO DELLA VISTA

Pare dunque che l’uomo sia  caratterizzato da congenita debolezza della memoria (del resto, se i tempi risalgono all’indietro fino alla preistoria, l’esercizio memoriale si allunga a dismisura) forse imputabile a un vero e proprio difetto della vista e del punto di vista scelto: tanto più se l’osservatore tenta manieristicamente di imbrigliare le forze in gioco (“Poi c’è stato il tentativo manierista/di racchiudere la forza nella vasca d’una piscina”). L’autore fa parlare un altro poeta, Lucrezio:

Finire non è uscire dalla vita,
ma è restare per sempre
nella sua scena madre,
è un difetto della vista,
che non si sceglie, si subisce,
e vede solo chi sa guardare
la nostra ferita mortale. 

La pausa al crollo verticale
piega ogni scoperta ad una luce esterna,
la ragnatela dietro la porta,
il ragno ipnotizzato dalla preda,
rispondono ad una sola regola.
La luce, dunque la luce,
è il culmine della specie,
e la luce non è fonte naturale,
anche se è l’occhio che vede
la nebulosa di cenere sul cratere,
è la parola del poeta
che ne cattura ogni particella.

Anche se l’occhio vede, la luce non è naturale come sembra, anzi è un culminare della specie,  e quindi descrivere ciò che si vede è un compito che spetta solo a “chi sa guardare”: in questo caso non il ragno, troppo “ipnotizzato dalla preda”. La parola del poeta (che cattura ogni particella di cenere) ha parecchio da imparare dagli animali: entrando nella “faglia animale”, cioè nella frattura che l’animale rappresenta, si ottiene un insegnamento. Nel poemetto dedicato a Lucrezio, la poesia si configura come un tradurre su pergamena il canto delle cicale forse nella speranza che in esso risuoni la pace che alberga ai piedi degli ulivi o forse perché quel frinire proviene dall’interno, dall’incavo delle loro larve:

questo tessuto di pergamena
traduce il canto delle cicale
dall’incavo delle loro larve,
quando ai piedi degli ulivi
tutto diventa pace: la morte
è lì presente, ma il frinire
delle loro ali già riprende.
Sapersi mutazione costante
oltre la divisione delle caste,
anche se il mondo,
orfano del sublime,
vede ogni cosa senza la sua fine

Il canto delle cicale va tradotto, desublimato (il mondo è comunque “orfano del sublime”, ci dice Frungillo per bocca di Lucrezio). Il tema della larva e della corruzione conduce alla scoperta che la mutazione è costante e che solo nel divenire si genera quel patto di alleanza orizzontale (“oltre la divisione delle caste”) che ci lega a tutto ciò che vive e che è destinato a non vedere la propria fine. Nei versi di Epaminonda il libro si chiude con un’immagine molto forte, sinistra e disturbante: il poeta schiaccia una mosca, gravida di larve che si spargono sul pavimento.

Rientro nella faglia animale.
Una mosca che annaspa sul vetro
porta in grembo il frutto del suo parto.
Se ne schiaccio il corpo,
si spandono, strisciando,
come fossero molluschi di scoglio,
senza guscio, cassa, riparo,
le sue larve sul pavimento.
Mi aggrappo a questo e scopro
che è scissa la faglia in cui m’innesco. 

Produce larve ciò che tocco,
solo se sto fermo imputridisce il mondo.
Ogni oggetto o animale è una costante
col suo fattore esponenziale
….
mentre ringiovanisce la mia morte,
e la mosca che schiaccio
è già in sé tutte le sue larve. 

Il legame fra stasi e decomposizione qui non è solo fisico ma anche spirituale (“solo se sto fermo imputridisce il mondo”). Con quest’insistenza sulla condizione larvale, tuttavia, Frungillo sembra volerne piuttosto sottolineare la duplicità: è il momento in cui in cui la linea del tempo si arresta per far coincidere la fine della vita con un suo nuovo inizio (la mosca “è già in se tutte le sue larve”).

Che cosa possono opporre gli uomini, dalla postura eretta e dalla vista difettosa,  alla violenza e alla distruzione, subite e inferte? Frungillo affronta in tutto il libro questa domanda decisiva e tenta alcune possibili risposte: innanzitutto sono i cani a rispondere, con il loro “fiuto” (bellissima analogia fra uomo e animale, tracciata fin dalle origini greche; in greco, infatti, sono due le parole per dire pensiero, intelligenza: una è il famigerato logos, il pensiero razionale, e l’altra è nous, pensiero intuitivo, una sorta di fiuto che abbiamo in comune con gli animali e che ci consente di comprendere immediatamente)

E vedo i cani annusare lungo i bordi,
mi chiedo cosa cerchino le loro bocche, 

se siano richiami di forze nascoste.
Mi ritrovo al confine del tempo,
che a volte dimentico, a volte rinnovo.

La seconda risposta, più propriamente umana, consiste nel trasformare il tempo e la violenza in “spazio”, cioè in “camere” (abitabilità, riparo: notevole il fatto che qui l’autore non dica stanze, anche se il discorso è senz’altro metaletterario) e strofe (dicibilità: “la nostra scommessa finale”):

Ma tentare, bisogna tentare,
perché il vuoto valga per ciò che vale,
resti una variante, sia lo sguardo pulsante,
ci distragga per un solo istante, ci porti a fondo,
ci porti a trasformare il tempo in spazio,
in camere e strofe, ci ricordi le parole,
la nostra scommessa finale […]

(già su Perigeion)

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Giusi Drago
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