Fresco di stampa, “Le pause della serie evolutiva” (Oèdipus, 2016) di Vincenzo Frungillo è la seconda uscita della collana Croma K, diretta da Ivan Schiavone. Quasi in contemporanea, l’autore pubblica anche il testo teatrale “Spinalonga” (Zona Contemporanea, 2016), che va a costituire una sorta di dittico con il libro di poesia.
Presentato in anteprima a Bologna nella rassegna “Paesaggi di poesia” a cura di Sergio Rotino, “Le pause della serie evolutiva” è, nelle parole dello stesso Rotino, “un testo che, diversamente da molta poesia contemporanea, torna a interrogare la storia e, più in generale, la realtà”.
Le domande che seguono sono un tentativo di mettere per iscritto e proseguire quella conversazione, alternandola ad alcuni testi del libro dai quali scaturiscono sia gli interrogativi che le risposte.
Due pareti chiudono lo stesso letto,
il rumore esterno copre quello interno.
Ci sono voci che disturbano il sonno,
le sento poggiarsi sul tuo volto,
posso vederle nel cavo dell’orecchio,
cercare lo spazio che meritano.
Potessero trovarlo nella mano che ti tendo,
potessero legarmi come passiflora
al filo d’ombra che carezzo,
potessero trattenermi alla parte che ho scelto.
Eppure so, eppure dimentico,
che sono io stesso a fare questo,
che proietto sul tuo volto
le radici antiche dei senza sonno.
(p. 23)
Le pause della serie evolutiva nasce da un processo compositivo lungo più di dieci anni, dal 2004 al 2015. In questo periodo, il confronto con la storia/Storia è serrato ed evolve nel tempo: dall’episodio delle nuotatrici della Germania dell’Est al centro di Ogni cinque bracciate (Le Lettere, 2009) si passa a un rapporto che sembra più dichiaratamente allegorico, implicando una relazione esplicita – ancorché destrutturata – con la dimensione del soggetto. È così? Perché?
Il libro ha iniziato a prendere corpo dopo la scomparsa di mio padre. La morte improvvisa di un padre ci priva dell’occhio testimone, vigile sulla nostra vita; questo evento radicale apre una frattura nel corso “naturale delle cose”, tra me e mi padre si è aperta la faglia della morte e della fine dell’èra materiale o operai alla quale lui apparteneva. La successione s’interrompe, si crea una pausa che per me è diventato un punto d’osservazione dal quale scorgere le nude creature, sottratte alla funzionalità della specie. Il libro segue questo processo partendo dall’esperienza più legata alla bio-grafia per poi attraversare una terra di mezzo, per immergersi infine nella fusione della voce dell’io con quella di tre personaggi storici. Qui ritorna con forza la parola Storia. Le voci della seconda sezione sono quelle di Lucrezio, Stephan ed Epaminonda, ognuna in un certo senso emblematica per la cultura latina, cristiana e greca. Direi che qui si focalizza il tema che era già presente in Ogni cinque bracciate, tant’è che alcune delle composizioni di questo libro sono state scritte in parallelo alle ottave del poemetto. Anche le nuotatrici erano un’eccezione alla necessità meccanicistica o deterministica del loro Paese, da simbolo sono diventate mostro, fenomeno eccezionale; ossia hanno superato la volontà di declinare la natura secondo un progetto ideologico. Se la Storia di Ogni cinque bracciate è debitrice della concezione di Benjamin e Jesi, quindi è un’operazione di recupero del materiale pulsante sotto la superficie consolatoria del determinismo contemporaneo, la Storia di questo libro è presa d’atto diretta, faccia a faccia con quanto sopra descritto. La Storia è qui da intendere come accadimento, evento che sconvolge che rimette in gioco le forze, i soggetti, le persone; questa non può essere addomesticata dalla presunzione di conoscere ab origine le creature. Questo poi si allegorizza, come tu ben hai colto, nella forma-poesia. In Ogni cinque bracciate la forma era l’ottava, e quindi la forma più classica dell’epica, per lo più in questo ultimo libro prevale invece la struttura del sonetto, ma è un finto sonetto, direbbe Fortini si allude a questa forma chiusa. Si passa dunque dalla centralità della cornice (vedi Contini) alla centralità dell’io, mentre la cornice resta fuori fuoco. Nella prima sezione de “Le pause della serie evolutiva”, ad eccezione delle prime tre composizioni, il sonetto è infatti la voce dell’io in quanto espressione lirica per eccellenza. Nella seconda sezione del testo vengono adottate altre soluzioni direi più aperte, più vicine al monologo poemetto de Il cane di Pavlov, e questo avviene proprio perché esiste una decostruzione dell’io o una sua dissoluzione nel destino emblematico dei tre personaggi sopra citati. Per concludere aggiungerei una nuova specifica strutturale, nel testo c’è una corrispondenza a specchio tra la prima e la seconda sezione: ouverture filosofica (meccanica pesante-Lucrezio), peregrinazione o momento di dispersione (terre straniere-Stephan), riflessione sulla condizione comune delle specie (sparizione-Epaminonda).
[…]
Il sublime è la precisione.
Ma adesso, cosa avrò da dire,
cosa avrò da raccontare,
come rivelare il sublime,
l’iridescenza del clinamen?
Dopo aver visto la vista,
non mi resta che tacere.
[…]
(pp. 47-48)
La struttura di questo percorso poetico e insieme filosofico, che poi ha una sua ulteriore continuazione nel testo teatrale Spinalonga (Zona Contemporanea, 2016), è molto chiara, e può suggerire indirettamente la necessità di osare un percorso di riflessione e azione nella e sulla realtà che va oltre i rovelli epistemologici che caratterizzano molta poesia contemporanea penso al dibattito sulla scrittura “assertiva” o “non-assertiva”, ma anche a molto altro. È così?
La questione della poesia assertiva e non assertiva mi ricorda la disputa di inizio novecento tra le fenomenologia husserliana e l’ermeneutica fenomenologica. Famoso è l’episodio di Heidegger e che abbandona i corsi di Husserl perché stufo delle infinite discussioni circa gli oggetti e di come di manifesta una buca per le lettere. A Heidegger interessava invece la relazione tra buca per le lettere e il mondo. In verità questi rovelli epistemologici sono una riproposizione di questioni vecchie che in Italia hanno avuto una loro fortuna già ai tempi delle neoavanguardie quando Calvino coniò il termine di “mare dell’oggettività” per definire una letteratura professatasi priva di intenzione; Fortini, dalla sua visione hegeliana, accusò questa esperienza di rinnegare la Vermittung, della mediazione formale. Non sono cose poi così nuove, io ho provato a scriverne in un paio di interventi e mi toccano fin dal tempo degli studi universitari. Volendo cavarmela con una battuta direi che le dialettiche per essere reali devono essere storiche, non possono essere certo costruite in laboratorio, o in accademia, questi, al massimo, sono luoghi deputati alle scoperte. Per concludere su questa questione direi che l’esperienza che tu citi può avere un suo valore in quanto provocazione, espressione di un punto limite del linguaggio, non può certo diventare un canone. Se si prova a fare questo si ricade in un nichilismo accomodante e consolatorio. E comunque, per rispondere alla tua domanda, direi di sì, mi interessa la relazione stessa, la relazione in sé tra io e mondo, non l’io, non il mondo, ma la loro relazione. Le pause della serie evolutiva si conclude con il personaggio di Epaminonda che è l’ultimo paziente del lebbrosario di Spinalonga in Grecia, questi si interroga sulla solitudine e sulla fine delle cose. La lebbra è allegoria piuttosto chiara. Epaminonda incarna la fine della cultura così come ci è stata tramandata dalla tradizione umanistica, nel momento in cui scorge il punto zero, la compressione del mondo, si accorge pure che la faglia di natura in cui si innesta riprende vita. Il suo monologo parla proprio di questo e con questo si conclude il libro, su una nuova apertura di spazio o di campo. Per tornare all’esempio della buca per le lettere, io posso dire che questo oggetto ha un suo significato (astratto, universale, valido per tutti coloro che parlano una determinata lingua) ma ha anche un suo senso, sempre personale, riferito all’esperienza emotiva, temporale che io ho di questa particolare buca per le lettere. La poesia non assertiva, filosoficamente parlando, riduce al minimo la componente emotiva o temporale dell’oggetto, che però non può mai essere annullata del tutto. La differenza tra significato e senso, così come ci insegna Frege, è la differenza in cui noi siamo da sempre impigliati e da cui non potremo mai uscire. Qui c’è l’origine, ma c’è anche la fine delle cose, l’una si riversa nell’altra. Quando noi agiamo, usiamo le parole, siamo nella differenza ontologica, siamo giocati da essa, l’io è imbrigliato nella sua tela. Il testo teatrale di cui parli, e ti ringrazio per averlo citato, parte dal monologo di Epaminonda ma poi sviluppa una trama che tenta di dire qualcosa sul contemporaneo e sul rapporto tra potere e bellezza. Dal punto di vista formale è una via di mezzo tra teatro di parola, poesia e il dialogo filosofico. Ci sono anche quattro tavole di Davide Racca che arricchiscono il testo.
La curva della costa è perfetta solo ora
che si ritira la massa d’acqua,
il vertice naturale della distruzione.
Tu, forse, ne hai avuto notizia,
osservando l’opalescenza dei sassi sulla battigia,
quella rivelazione è stata la prima.
Poi c’è stato il tentativo manierista
di racchiudere la forza nella vasca d’una piscina.
Hai opposto la vita troppo esposta
alla causa sommessa del vuoto,
pressione contro pressione,
o l’idea e la sua dispersione.
Tutto questo dall’infanzia ad ora,
tutto questo come sua forma.
(p. 33)
Per tornare alla dialettica storica, il distico appare nettissimo: “Poi c’è stato il tentativo manierista/ di racchiudere la forza nella vasca d’una piscina.” appare nettissimo. L’epoca attraversata nella scrittura e composizione del libro, che copre all’incirca l’ultimo decennio, è identificabile in qualche modo con un ritorno, o forse una nuova elaborazione, del manierismo? Per altri versi, invece, dalla concettosità alla poetica della meraviglia che ancora affiora nelle opere di autori e autrici ormai noti, per arrivare fino a un pervasivo senso di produzione letteraria come fenomeno terminale, si potrebbe parlare di barocco. Se è così, può esserci un movimento tra questi due poli che porti a qualcos’altro?
Questo distico si trova in un sonetto che dovrebbe avere per titolo “La forma dell’acqua”, ma ho deciso di omettere tutti i titoli delle composizioni brevi. La poesia parla delle due forze, di dispersione e di conservazione, che sempre si fronteggiano nell’elaborazione formale in versi. La dispersione in Ogni cinque bracciate fa la sua comparsa con la caduta del muro di Berlino e il conseguente sconvolgimento delle forme chiuse, dopo la caduta infatti l’ottava si decostruisce e la Storia agisce come una massa d’acqua che porta via con sé ogni cosa. Più che di dialettica parlerei però di compresenza di forze opposte che si fronteggiano senza mai annullarsi del tutto. La conservazione formale, la forma chiusa, comprende per principio l’idea della dispersione, le si oppone pur sapendo che è proprio la dispersione a dettare la necessità del lavoro di lima; a sua volta la dispersione, la forma aperta, sa dei margini che sta forzando e preme per ritornare nell’alveo da cui è fuoriuscita. Sfido chiunque a scrivere la dispersione senza conservazione sperando di trovare un lettore che possa essere interessato al messaggio che gli si sta inviando. Il vero manierismo, quello asettico e sterile, d’altra parte, deriva da una poesia che non sa o che non riesce a far sentire nell’elaborazione formale la spinta entropica che la minaccia. Se dico che della poesia mi interessa la relazione, intendo la relazione tra le forze in gioco. Mentre scrivevo il libro sulle nuotatrici già stavo scrivendo i versi che sono presenti in questo libro, avevo di fronte i due momenti. Nel sonetto che tu citi sono scanditi, secondo la capacità di sintesi lirica, il passaggio tra i due momenti, è una poesia che fa cerniera. In questo senso il libro del 2009 e questo del 2016 sono legati da un solo processo compositivo, nascono da una stessa idea di poetica. Credo che una poesia sia manierista o, peggio ancora, retorica solo quando non è consapevole di se stessa. Di solito si dice il contrario, che una poesia troppo consapevole di se stessa è retorica o manierista, ma se volessimo davvero applicare questo metro di valutazione alla produzione in versi dovremmo fare a meno di Parmenide, Lucrezio, Virgilio, Dante, Petrarca, Tasso, Marino etc. Spero che le cose non vadano mai in questo modo. Il nucleo della questione è quindi l’essere giocati, in quanto esseri pensanti, da forze opposte. Noi siamo la sola specie che deve ogni volta ridefinire i limiti del proprio mondo, siamo struttura mobile come qualcuno ha detto; questo sforzo ci è consegnato dal linguaggio. Ora la poesia è lo strumento umano che più degli altri mantiene il contatto con il principio stesso del linguaggio. Si fa manierismo quando si adotta un modello o un paradigma e lo si spaccia per universale. In questo modo si mente prima a se stessi e poi agli altri. Ciò che è davvero universale è la relazione di forze che noi possiamo approssimare nell’elaborazione teorica per farci un’idea di cosa siamo. Disegniamo spettri. Aldilà di queste considerazioni teoriche, direi che per superare una “poesia concettosa”, così come tu dici, e una poesia barocca, estremi di un pendolo che oscilla dal predominio della ragione cognitiva a quello di un fatalismo nichilista e apocalittico, sia necessario ritrovare il senso stesso della poesia come organon. La poesia ancor prima di genere letterario è strumento di memoria e di conoscenza. Sembra un ossimoro, ma non è così. Noi abbiamo la necessità di richiamare alla memoria ciò che per convenzione bisogna rimuovere in quanto tremendo.
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