Chiara Bernini intervista Vincenzo Frungillo

[L’intervista che Vincenzo Frungillo mi ha concesso all’inizio di febbraio 2018 conclude un percorso di studio lungo il quale, attraverso alcuni testi scelti a partire dal macro-criterio di genere poemetto, ho cercato di individuare in quali punti testuali e strutturali si inserisce e sviluppa l’istanza narrativa. L’analisi prende le mosse da alcune considerazioni di natura storica e letteraria e si concentra sulla lettura di La ragazza Carla di Elio Pagliarani, le Stanze della funicolare di Giorgio Caproni, Il disperso di Maurizio Cucchi e infine il poemetto/ poema in canti di Vincenzo Frungillo, Ogni cinque bracciate. Di particolare rilievo il ruolo che la definizione di genere svolge nell’economia di tutto il lavoro, dal momento che la scelta – dichiaratamente provocatoria – per il termine poema nel caso di Ogni cinque bracciate rappresenta un ulteriore passo verso una definizione, per esclusione e sovrapposizione, della tipologia testuale e narrativa delle opere affrontate nelle pagine precedenti: quasi a corroborare l’idea di tradizione su cui tanto e giustamente insiste Frungillo, ordinando un discorso continuativo che necessariamente trova i propri chiarimenti e le proprie giustificazioni in una dimensione di lettura in grado di proiettare le linee proposte dai testi, e di intrecciarle e contaminarle, verso una maggiore comprensione del testo e del codice poetico.]

Bernini: Questo lavoro che ho intrapreso a partire da alcune considerazioni teoriche e critiche e dalla lettura di diversi poemetti, tra i quali ho poi scelto La ragazza Carla di Elio Pagliarani, Le stanze della funicolare di Giorgio Caproni e Il disperso di Maurizio Cucchi, cerca di indagare, nei limiti della struttura detta poemetto, come l’istanza narrativa si sviluppa sul testo, in quali momenti del discorso poetico, come si confronta con la dimensione lirica. Volevo inoltre inserire un poemetto degli anni Duemila, così da avvicinarmi all’oggi e da aprire il discorso a termini più strettamente contemporanei, e ho scelto il tuo Ogni cinque bracciate.

Per iniziare la nostra chiacchierata ti chiedo: che differenza c’è tra poema e poemetto per uno scrittore che ha intenti poematici? Tu definisci Ogni cinque bracciate un poema, ma potrebbe essere definito anche poemetto?

Frungillo: Sì. Dunque, io per un periodo ho usato la parola “poema” anche in modo un po’ provocatorio, per porre la questione un po’ ad alta voce. Quando parlavo del libro, dicevo poema e non poemetto. Poi c’è un’altra questione. In genere si parla di poemetto quando si vuole abbassare il tono della scrittura. Che è una cosa che va fatta nel Novecento perché non possiamo pensare di scrivere ancora poemi come si scrivevano un tempo.

La questione del poemetto io direi che è un problema di ambizione, di cosa si vuole mettere all’interno del testo, quanto il testo debba essere evocativo, quanto il testo possa dire sulla contemporaneità. Il poemetto secondo me ha sempre quella voce stridula, tende ad essere un po’ autoironico, a fare il vezzo a se stesso. Tanto è vero che se poi andiamo a vedere i testi che si pongono su questa linea, notiamo che sono testi non lunghissimi, sono testi brevi che non hanno una gittata così lunga. Invece con il poema si rilancia la questione, si riprende la possibilità di rischiare e di fare qualcosa di più ambizioso sulla contemporaneità.

Poi del resto ci sono degli esempi. Pagliarani già è un autore che potrebbe rientrare al limite tra il poema e il poemetto. Invece Majorino ad esempio è un autore che ha provato a rimettere con forza al centro della poesia questa parola così impegnativa. L’ultimo libro di Majorino, Viaggio nella presenza del tempo, è un’opera che forse non riesce a raggiungere lo scopo, molti hanno detto che sia eccessivamente magmatico.

Poi mi sembra che la questione del poemetto si rifaccia forse a una tradizione anche un po’ distante dalla mia, dalle mie letture. Mi sembra che si sia più vicini anche a una certa tradizione francese dove la lirica viene abbandonata e ci si approccia a una specie di poesia in prosa dove poi la parola poemetto viene usata abbastanza spesso. Quindi la mia era anche una volontà di distanziarmi da una certa tradizione. A me interessava di più un discorso di linearità e ricomposizione del testo, al di là della frammentazione oppure di un abbassamento di livello dell’ambizione del testo. Quindi con riferimenti anche più vicini, penso alla tradizione che mi interessa di più, forse quella tedesca. Un riferimento più attuale e più vicino è quello di Grünbein e quello che ha provato a fare con la sua poesia; un autore vivente che ha rimesso in gioco la poesia con un respiro lungo e con testi abbastanza complessi e strutturati.

Bernini: e qui rientriamo in un’altra questione su cui tu insisti molto anche ne Il luogo delle forze, che riguarda il senso di fare poesia poematica oggi in rapporto con la tradizione e dove parli di motivazioni extra letterarie che portano alla scelta della costruzione poematica. Nel tuo caso quali sono le motivazioni etiche, politiche, letterarie che ti hanno portato a scrivere un poema in canti strutturato? Come dici tu, per fare poesia poematica è necessario avere un progetto, un’architettura. Gli strumenti linguistici poi sono gli strumenti della nostra quotidianità, sono gli strumenti tecnologici, però serve questo progetto. Mi chiedo, cosa ti ha portato a fare questa scelta?

Frungillo: Il mio testo precedente era un testo diciamo lirico, ma in realtà c’erano già degli accenni a testi più lunghi che facevano presagire l’arrivo ad un tentativo poematico. Questo per dire che è vero che lo scegli, di scrivere un testo poematico, però quando cominci a scrivere è anche la tua attitudine che ti porta a scrivere una cosa piuttosto che un’altra. Però l’esigenza poetica, e l’esigenza che va anche al di là della poesia, era il tentativo di ricostruire un quadro di frammentazione, che noi percepiamo come frammentazione sociale. Ed è il tentativo di uscire al di fuori dell’io che si riflette su se stesso e quindi di trovare una forma di relazione con il mondo. Si tratta di mettere in gioco la relazione tra io e mondo, e quindi riuscire a creare un testo che parli del mondo e che vada al di là della «chiusa gabbia lirica», come dice anche Cortellessa nella prefazione al testo. L’esigenza primordiale quando ho cominciato era essenzialmente questa. Io sentivo di avere alle spalle qualcosa di completamente frammentato, non dico distrutto. Le relazioni erano perse e quindi avevo l’esigenza di rimettere insieme queste relazioni, di riprendere i fili che si erano spezzati e rimetterli insieme e quindi di fare un’operazione che più classica non si può. Perché poi il rapsodo non fa altro che mettere insieme i pezzi che altrimenti andrebbero persi. Ci ho ragionato anche di recente su questa cosa. In realtà noi a pensarci bene veniamo fuori dalla nuova oralità, come ha mostrato Gabriele Frasca in alcune sue composizioni, quindi ci troviamo un po’ nella condizione in cui si trovavano i rapsodi, o comunque Omero, quando hanno cominciato a scrivere i poemi. La nuova oralità è quella sostanzialmente iconica, delle immagini, dove praticamente la parola scritta diventa muta o inascoltata. E questo è un processo che è cominciato durante la mia adolescenza, perché è cominciato negli anni Ottanta e Novanta, voi non lo avete vissuto…

Bernini: io sono nata nel 1992.

Frungillo: e quindi si partiva da là. Là si partiva con l’estetizzazione dell’immagine, dell’immagine iconica che rimandava soltanto a se stessa. È l’immaginario pop che molto poi ha dato anche in poesia, la poesia pop si nutre di quello. Da là è nato il postmoderno in letteratura, da questa esperienza sociale qua. E il postmoderno non a caso adotta molto l’ironia, che è uno strumento di frammentazione e schizofrenia. Ecco, secondo me si sentiva l’esigenza di uscire da questa fase e cominciare invece a rimettere insieme i fili. Questa esigenza è diventata anche personale ed esistenziale oltre che letteraria. Il quadro c’era, è stato distrutto, quindi adesso bisogna ricomporlo. È normale poi che per fare un’operazione del genere si debbano trovare delle immagini simboliche che siano allegoriche, cioè che riescano a dire qualcosa al di là della tua storia autobiografica.

Bernini: E tu le hai trovate in questa vicenda delle nuotatrici, le protagoniste di Ogni cinque bracciate.

Frungillo: Ed io sì pensavo di averla trovata, là c’è stato un richiamo tra vita personale ed esperienza mondo. È il mondo. Nel mio primo libro, Fanciulli sulla via maestra, avevo già scritto di nuotatrici, ma in realtà partivo da una prospettiva del tutto personale perché parlavo di una persona che mi era accanto e che era una nuotatrice. Questo era per farti capire l’avvio lirico, l’esperienza del sé c’è sempre. Si partiva da là, due poesie parlavano di questa cosa. Poi dopo mi sono imbattuto in questa vicenda delle nuotatrici leggendola banalmente da una rivista.

Bernini: Quando eri a Berlino?

Frungillo: No, questo l’ho letto precedentemente, poi dopo sono andato a Berlino. Ero in Italia quando l’ho letto. In realtà in Germania questa storia delle nuotatrici è arrivata abbastanza tardi perché i tedeschi tendono sempre ad avere un certo pudore sulla loro storia. Loro nei confronti del nazismo da una parte hanno un senso di colpa vissuto in maniera abbastanza forte, quel senso di colpa che noi italiani abbiamo rimosso quasi immediatamente. Però dall’altra parte tendono ad essere eccessivamente pudici nei confronti della loro storia. E così hanno fatto anche con quello che è successo durante la DDR, quindi là in realtà i documenti non erano tantissimi. Paradossalmente i documenti che venivano fuori nei media erano più presenti in Italia che in Germania, successivamente poi sono uscite fuori tante cose sulle nuotatrici della DDR.

Bernini: Una cosa che mi interessa, e in parte non so, è se questa questione delle Olimpiadi e del doping riguardasse solo le donne o anche gli uomini. Posto che i loro corpi, la loro figura, condensano una frattura storica, che è la frattura storica che io credo tu voglia manifestare – tra l’altro non raccontare ma rappresentare direttamente nel libro a partire dalla struttura costruita sul numero cinque delle bracciate, come scrivi nella premessa al poema – mi chiedo: è stata una scelta mirata quella di concentrarsi su figure femminili?

Frungillo: Anche in questo caso ci sono una motivazione conscia e una inconscia. Mi sono reso conto di aver adottato quasi sempre voci femminili dopo che ho scritto Il cane di Pavlov, infatti scherzando dicevo: devo un po’ chiedermi il perché di questa cosa. L’ho poi razionalizzata dicendomi che era l’ennesimo tentativo di spostamento dall’io lirico, nel senso che addirittura il poeta si nasconde ancora di più perché la voce che è sulla pagina è una voce femminile. Questa è la motivazione più poetica che io possa dare e non è una costruzione a posteriori. Forse è un po’ una ricostruzione nel senso che immediatamente non ho pensato subito alla possibilità di fare la voce maschile o femminile. Mi sono semplicemente imbattuto nella storia delle nuotatrici, forse per la ragione che ti dicevo prima. Perché queste nuotatrici erano più vicine ad esperienze personali, c’era maggiore compatibilità con un richiamo di un vissuto più immediato e quindi mi è sembrato più semplice e istintivo adottare la loro vicenda in chiave allegorica. L’altro motivo è appunto che molto banalmente io non ho incontrato storie di atleti maschi, la storia in cui mi sono imbattuto è stata questa qua e quindi ho approfondito questa qua.

Però poi ti ripeto, la voce femminile ha un effetto di spostamento ancora maggiore per quanto riguarda la composizione perché ti devi identificare o devi spostarti in una voce femminile. E l’altro elemento è che semplicemente erano raffigurazioni di un vissuto che mi era più vicino, c’è un elemento di richiamo al libro precedente.

Poi c’è la figura dell’androgino, cioè sono figure femminili ma in realtà sono figure tra il maschio e la donna e quella è una componente importante…

Bernini: sì perché prende molto di più su figure femminili che non su figure maschili.

Frungillo: Sì, esattamente. Quella è importante perché logicamente ha una sua funzione all’interno del testo. Al di là delle motivazioni mie personali che possono venire fuori, ciò che conta è la funzionalità all’interno del testo, non un’attenzione morbosa o pornografica sul corpo delle donne ma rivolta al valore simbolico allegorico che esso può apportare, quell’essere sesso di mezzo, , di passaggio tra una sessualità e l’altra per motivi che credo che siano evidenti perché si parla di un passaggio tra un’epoca e l’altra, si parla di un’identità non definita. E quindi questi corpi che diventano tra il maschile e il femminile sono la rappresentazione, sono l’incarnazione. Non c’è niente da inventare, loro sono qualcosa che storicamente ha anche un che di poetico perché sono state la messa insieme di un elemento di artificio e un elemento naturale. Cioè bios e logos, ci sono l’elemento fisiologico e l’elemento artificiale. E che poi è quello che fa la parola sostanzialmente.

Bernini: a proposito della congiunzione tra bios e mondo di cui tu parli molto ne Il luogo delle forze, io ho trovato in questa terza strofa de Le spalle al futuro l’esempio perfetto di quello di cui tu parli. In un paio di versi si passa dal sangue ai globuli, dalla materia al senso morale della cosa. E poi in Un organismo mondiale, dopo La caduta, una voce che sembra del Dottor Starkino o comunque di qualcuno della parte del governo: «costruiamo in laboratorio il nuovo corpo morale», che è quello di cui stavi parlando adesso. Che è un ossimoro perché il corpo morale non si può costruire in laboratorio, sono due campi di significato distanti.

Pensando ai personaggi del poema e a Il luogo delle forze, mi viene in mente quello che scrivi a proposito della generazione dei senza padri. È una cosa che probabilmente io non potevo capire da sola per questioni generazionali, perché io sono nata in questa generazione già senza padri ed è il mio orizzonte di normalità, diciamo.

Mi chiedo quanto di quello che tu dici nel saggio in linea teorica parlando di Pagliarani e di altri, può essere letto nella microstoria che riguarda il padre di Renate (che è molto bella, è un micro racconto davvero riuscito). E in generale nella figura del regime che diventa da un certo punto di vista la figura religiosa, da un altro punto di vista la figura paterna. Ad esempio nella figura di Ute, che ha questo rapporto molto vero con il dottor Starkino, nel senso che riporta le ambiguità della vita reale dentro le grandi questioni storiche. Vorrei chiederti se è corretta una lettura di questo tipo, e di parlarmi della questione della generazione dei senza padri.

Frungillo: Sì, la lettura è molto corretta. Tu prima parlavi di Cucchi, Il disperso, io credo che quello sia un testo emblematico da questo punto di vista. Cucchi in quel testo riesce veramente a dire il tempo della fine degli anni Settanta ecc. Oltretutto lui ha tradotto Ivan Illich, un sociologo che si occupava di queste questioni, come la struttura della società cambia… lui di Illich ha tradotto Descolarizzare la società. Illich era un filosofo-sociologo che vedeva i cambiamenti della società sulla base dei suoi cambiamenti strutturali. Forse io nel testo cito Mitscherlich, che è un autore poco conosciuto in Italia, che ha scritto un testo che si chiama Verso una società senza padre e si riferiva principalmente al contesto tedesco nella Germania post nazista. Nel libro l’autore chiede che fine abbiano fatto i padri, quelli che collaboravano al nazismo, e i figli che sentimento devono avere? Qua sembra che nessuno è stato nazista ma in realtà c’è un’intera generazione di nazisti. Questo è uno dei motivi che hanno portato la RAF e il terrorismo in Germania, i figli hanno cominciato a chiedere con forza le ragioni alla storia.

La lettura che fai dei personaggi è quella, Renate era volutamente il personaggio femminile privo di padre, o comunque c’era un padre che come dire ha questa forma di depressione, che si lascia morire di inedia, la depressione che tocca tutti. Questa figura è l’assoluto passivo, che non riesce a reagire, che non riesce a cambiare l’andamento della storia perché era difficile e impossibile farlo. Però logicamente parla di quel tempo ma parla anche della contemporaneità. Giustamente come dicevi tu, la vostra è una generazione senza padre. Io ho vissuto il passaggio. La questione del padre è complessa, noi diamo per scontate delle figure sociali, il padre è una figura sociale, è una figura biologica, però noi esseri parlanti della figura biologica di per sé non ce ne facciamo niente. Ci devono sempre essere sempre le due componenti, la figura biologica deve essere anche figura sociale, culturale, altrimenti non funziona. Un padre se non sa come fare il suo mestiere di padre tende a scomparire, si nasconde. Prima forse era più semplice perché la struttura familiare era codificata e quindi era più semplice stare all’interno di quella struttura, ti limitavi a fare il compitino. Adesso è più complesso, prima era lineare, e poi era l’unica forma che in realtà in Italia si conosceva. Dopo si è cominciato a fare i discorsi su altre figure possibili di famiglie di altro tipo.

Tornando alle questioni letterarie, c’è un micro indizio già in Pagliarani perché nella Ragazza Carla lui non parla del padre, e dice «l’assenza del genitore è un trauma poi se manca la frutta sulla tavola». Quello secondo me è già indicativo, lui già l’aveva capita questa cosa. Quello che poi l’ha tematizzata poeticamente è Cucchi anche per ragioni autobiografiche, è venuto anche venti anni dopo.

Bernini: La figura di Ute, nonostante non ci sia protagonista, è quella che i lettori probabilmente ricordano di più. Anche perché spesso le questioni sono filtrate dal suo sguardo, Lampe tu la fai descrivere dagli occhi di Ute. E alla fine la chiusura di tutta l’opera è Lampe che parla di Ute.

Mi sono ricordata di un’intervista di Cucchi nella quale diceva che non era propriamente interessato a fare poesia narrativa, ma che gli serviva creare una struttura perché con i personaggi e con tutto quello che una struttura narrativa prevede, si aumenta la concretezza, aumenta la realtà di quello che si può dire. E il personaggio di Ute è perfetto secondo me da questo punto di vista perché racchiude molto di quel mistero…

Ecco parlando di mistero, un’altra domanda che voglio farti è proprio relativa al mistero. Un paio di volte viene fuori la parola “mistero” nel testo (il mistero di quelle adolescenti, il mistero dell’icona medusa). Mi chiedo, esiste nella rottura storica del Novecento un mistero nuovo che anche la letteratura deve raccontare rispetto all’epica e alla tradizione passata?

È un discorso che mi è venuto in mente anche relativamente alla dichiarazione di Adorno sull’impossibilità di fare poesia e letteratura dopo Auschwitz, nel senso di tutto quello che è stato il Novecento storico e politico. La parola mistero mi ha fatto pensare che forse dovremmo essere consapevoli che non riusciremo mai a capire quello che è successo con gli elementi intellettuali e umani che abbiamo, non riusciremo mai a razionalizzare storicamente il Novecento, e anche una vicenda come questa delle nuotatrici resta per forza ambigua e misteriosa. Non solo perché non la conosciamo a livello di fonti, ma proprio perché non possiamo capirla, siamo andati così tanto oltre con la storia del Novecento che quello che è successo è oltre le nostre possibilità. Non è una vera e propria domanda, piuttosto una discussione su questo punto, mi rendo conto che è ampio e difficile.

Frungillo: È difficile come risposta, ci provo. Dunque, noi arriviamo alla porta del mistero non per sottrazione ma per accelerazione, l’accelerazione è talmente tale che a un certo punto ci ritroviamo di nuovo con una forma di soglia di fronte alla quale non sappiamo cosa c’è. Quando dico che non possiamo arrivare fino in fondo a capire il mistero di quelle adolescenze è perché le fonti, la lettura fra le foto, l’interpretazione possibile che si può dare a quello che è successo nella DDR, lasciano intatti questi corpi che sono questa specie di mutazione che loro hanno vissuto dal loro interno come una forma di eccezione rispetto alle cose che gli stavano intorno. Era un’eccezione sia rispetto alla DDR sia rispetto al capitalismo e a quello che sarebbe arrivato dopo. Quindi sostanzialmente interrogarsi su quei corpi, o comunque riuscire a farsi dire qualcosa da quei corpi significa porsi nell’elemento della poesia. La poesia deve ancora ascoltare qualcosa di misterioso. Questi però sono termini che si usano con una certa cautela perché si ha paura di cadere nella metafisica, nel simbolismo, nell’ermetismo eccetera. Quindi se si fa un certo tipo di poesia non si possono adottare i termini dell’ermetismo e del simbolismo di Luzi e Bigongiari. Il punto è quello, l’eccesso di interpretazione e di letture storiche di documenti, di fonti, di dati, di algoritmi, potremmo dire oggi, tutto questo elimina il mistero. Che poi il mistero più semplice, il mistero della parola, sta nel fatto che noi non possiamo precedere l’esigenza di dire qualcosa sulla realtà. Il problema è il mondo, non riusciamo a essere muti di fronte alla realtà. Il mistero è quello.

Parlando de La caduta la cosa è un po’ più difficile da spiegare. Io parlo di mistero quando parlo o di adolescenze o della caduta del muro, parlo sostanzialmente di due fasi di passaggio. L’adolescenza di per sé è una fase di passaggio tra l’infanzia e l’età adulta, la caduta del muro è una fase di passaggio tra un momento e un altro. È quello che dicevo pure all’incontro di Bologna e che dico nel saggio, è in quel momento che si apre la faglia, in quella fase di passaggio. Che poi è la fase di passaggio, o la falla, che noi possiamo vedere tra il bios e il logos, tra l’elemento naturale e l’elemento della parola, l’elemento culturale. Sostanzialmente la poesia non fa altro che rimettere in potenza questa falla, questo mistero. Ma lo fa perché è poesia, perché è la parola. Vorrei dirlo in modo analitico. Se noi fossimo delle piante non avremmo questo problema del mistero, siamo esseri forniti di parola e questo ci porta ad essere degli esseri misteriosi.

Bernini: a proposito de La caduta: è l’unico punto, a parte il proemio, in cui si interrompe la struttura dell’ottava e immagino che si interrompa perché deve, perché è la caduta, la caduta del muro. Mi sono chiesta perché dopo l’hai ripresa, l’ottava? In una visione progressiva da ciò che viene prima, poi la caduta, e poi il caos del capitalismo, hai in qualche modo dato un ordine anche a quello che è venuto dopo con la struttura dell’ottava.

Frungillo: sì, in realtà ci sono dei giochi un po’ diversi dopo. Ne La caduta, logicamente, anche l’aspetto grafico è piuttosto evidente. Poi in realtà le ottave diventano più a singhiozzo, ci sono dei giochi. Ci sono dei rovesciamenti della strofa. Comunque la ripresa è un modo per dire che loro accettano sostanzialmente di ridare forma al caos, prendendolo in prima persona. Però è una domanda legittima, ti dico la verità che non ci avevo pensato fino in fondo a questa questione. Cioè, l’elemento di frammentazione c’è in queste strofe qua a pagina 86, alla fine de La fuga, dove c’è una falsa ottava ancora più decostruita rispetto a quelle che usavo precedentemente. Qua in Terrasanta ci sono i puntini perché si cerca di dare un’aderenza maggiore al corpo delle nuotatrici, c’è la questione della chemio, e quindi la resa della chemio con questi puntini di sospensione che fanno vedere il corpo che comincia a deteriorarsi, a perdere.

Non riesco a dirti fino in fondo questa cosa, comunque il gioco è quello là, le strofe diventano più frammentarie, meno compatte rispetto alla prima parte del libro.

Bernini: mi è tornata in mente una cosa che dicevamo quando eravamo a lezione con il prof. Colangelo, e leggendo il tuo poemetto era venuto fuori un dibattito in cui ci chiedevamo se la struttura organizzata in ottave fosse più un tentativo di ordine o la manifestazione di una gabbia. C’era chi diceva che fosse il tentativo di ridare una razionalità, un ordine, a un evento fuori da ogni ordine razionale e umano. Altri invece dicevano che si trattava di una gabbia quanto il loro corpo, la piscina, quanto la situazione stessa.

Frungillo: sì, era proprio l’ambiguità voluta dal testo, è un’ambiguità voluta.

Questo testo si richiama a una tradizione poetica però la mette completamente in discussione. La tradizione del metricismo, del ritorno alla forma chiusa. Qua il tentativo è quello di far parlare le forme chiuse ed è proprio nella strofa, nell’elemento formale del poema, che c’è l’elemento lirico, non nella modalità della voce ma nella forma. È il modo di fare propria una storia, quindi le cinque ottave sono le cinque bracciate e riproducono la difficoltà del respiro e la difficoltà di scrivere un poema così lungo. È proprio una fatica. Quindi c’è un elemento di personalizzazione dell’artificio metrico.

Poi la cosa che dicevi tu sulla gabbia o il tentativo di dare forma al caos, sì il tentativo è di dare una forma alla frammentazione come abbiamo detto all’inizio. Dall’altra parte comunque è anche una gabbia, la volontà è di manifestare che c’è impossibilità di dare forma a qualcosa senza però crearsi una gabbia che sia una gabbia personale, una propria gabbia. Di questo magari non ce ne rendiamo conto ma lo facciamo sempre, tutti i giorni. In quel caso là è qualcosa che lo fa al posto nostro, sono quelli che una volta erano gli schemi linguistici. Il tentativo è di creare una gabbia propria e con quella gabbia riuscire a darsi una voce che sia una voce che non ti viene data da qualcun altro.

Bernini: Che è poi quello che dicevi anche nell’ultimo intervento del tuo saggio, in rapporto alla poesia digitale. Parlavi proprio di questa questione qui della propria grammatica non imposta.

Frungillo: Che è anche un po’ un tentativo disperato, perché poi bisogna vedere gli effetti e le ricadute di questa cosa. Il fatto che qualcuno legga le tue cose è una ricaduta importante ma bisogna vedere se tiene nel tempo, bisogna vedere se ci saranno persone capaci di leggere quello che scrivi o avranno voglia di leggere quelle cose o se non sono presi da altri schemi indotti, che non ti dai tu.

Per quanto riguarda la strofa, nell’intervento del saggio, che riprende un discorso fatto a Bologna a un laboratorio sulle riviste del Novecento, dicevo che c’è questo gioco di apertura e di chiusura della forma, di dispersione e di conservazione, questo gioco di rapporto di forze. In Ogni cinque bracciate tentavo di dare maggiore evidenza all’elemento di conservazione, tentavo di trattenere. Invece nell’ultimo libro, Le pause della serie evolutiva, l’elemento di dispersione dovrebbe essere più evidente. In particolare nella parte finale dove ci sono questi sonetti che vanno a diluirsi e diventano un monologo. Ci dovrebbe essere il senso della dispersione, dove però l’elemento di conservazione fa sempre da controcanto. Si parte dal sonetto e si arriva alla dispersione finale.

Qua invece, tornando a quello che mi chiedevi prima, l’ottava tiene fino alla fine, fino al momento in cui c’è una frattura nella strofa, nella tenuta formale del testo. Però poi riprende.

Comunque sì, le due cose vanno di pari passo perché bisogna darsi una forma per dire qualcosa di evidente.

Bernini: Tu parli sia nel saggio che nell’esergo di Ogni cinque bracciate di paradigma. Quando le nuotatrici del poemetto parlano del futuro, o il narratore parla dell’ingresso delle nuotatrici nel futuro, ne parlano sempre come nel futuro, non verso il futuro. Non è un movimento consapevole ma linguisticamente sembra un catapultarle dentro il futuro. È un libro che segna un passaggio tra due diversi paradigmi, in quale paradigma si finisce dopo che loro diventano quello che diventano? Qual è il paradigma cui si approda? In che paradigma finiamo? «Senza averlo voluto entreremo in nuovo paradigma» scrivi in esergo, loro senza averlo voluto sono entrate in un nuovo paradigma.

Frungillo: Nel saggio ne parlo perché questa è una cosa che nasce dai critici di letteratura come necessità di darsi un paradigma per l’interpretazione della poesia contemporanea, e poi è una cosa adottata da Giovenale in particolare sulla prosa in prosa quando dice «siamo il nuovo paradigma». Cosa che io contestavo, perché mi sembra un po’ azzardato… La prosa in prosa come paradigma della contemporaneità mi sembra un concetto un po’ azzardato, è un po’ azzardato dire che si possa avere un unico paradigma per la lettura della contemporaneità.

È comunque un discorso molto attinente con quello che si sta dicendo oggi, è quello che dice un po’ anche Daniele Del Giudice in un suo racconto in cui fa parlare questo fisico in odore di Nobel con uno scrittore e dice: «Le cose stanno scomparendo. Quelle che arrivano, o arriveranno, ho paura che non potrò più sentirle. Ho paura che potrò solo usarle»303. Sostanzialmente il nuovo paradigma è quello là, è quello di cui stavamo parlando un attimo fa quando dicevo che facciamo uno sforzo, un tentativo disperato di creare delle forme sperando che queste forme possano essere evidenti, possano poi avere un rilievo rispetto al magma della contemporaneità. Perché in effetti il problema oggi è che ci sono delle forme indotte, non nostre, e che noi in realtà più che usare siamo usati da determinate forme, da determinati schemi mentali. I nuovi paradigmi sono quelli là, noi adottiamo delle forme, a volte anche delle forme linguistiche, delle poesie, pensando che siano nostre ma in realtà non facciamo altro che riprodurre delle cose che abbiamo già letto, che vengono reiterate in rete ecc.

Venendo alla tua domanda, con il passaggio di paradigma tu intendi anche il passaggio dalla prima fase del libro alla seconda fase del libro?

Bernini: Sì, ponendo la caduta come rottura.

Frungillo: Il controcanto rispetto a questo libro per me è quello che viene successivamente, Le pause della serie evolutiva. Per me quella è la risposta a questo libro e là l’elemento della dispersione diventa più evidente. Quindi il nuovo paradigma è quello là, nel senso della messa in evidenza della possibilità di non riuscire a dire la contemporaneità. Non è dirla in un certo modo o in altro ma proprio l’impossibilità di dirla. Dirla e la possibilità che ci sia qualcuno che abbia la capacità di comprenderla. Le parole ci sono ma sono parole mute, sono parole reiterate e sempre uguali. Quello potrebbe essere il nuovo paradigma. La citazione di Finkielkraut in esergo io la usavo anche per parlare di quello che sono i cambiamenti, anche storici, dell’accelerazione delle questioni sociali e politiche dell’oggi e della capacità di riuscire a trattenerli, di riuscire a creare una propria linea interpretativa, un proprio sentiero all’interno della contemporaneità.

Bernini: E ancora prima, trovare il luogo della memorabilità. È una questione di memorabilità.

Frungillo: Sì è una questione di memorabilità. La memorabilità è la questione del ricordo della finitudine dell’essere umano. Quello che non mi convince di una certa linea di letteratura e poesia italiana è una forma di utopia negativa. Si pensa che il nuovo paradigma sia quello appunto della dissoluzione e della disseminazione, non c’è più una possibilità di un io o di una razione, di riuscire ad organizzare il flusso delle parole. Così che anche quello che facciamo noi è un flusso di parole che vengono messe insieme un po’ a casaccio sulla base di algoritmi: questo è quello che viene fuori se andiamo a leggere il senso di una certa poesia, la prosa in prosa ecc. Di fronte a questo mi sembra che l’oblio, la dimenticanza che si fa con questo tipo di operazione, sia il tentativo di dire che non ci sia un riconoscimento della funzione stessa della parola, che è la funzione di per sé di ricordo della nostra finitudine. Il fatto che noi usiamo la parola, il fatto che noi parliamo, significa che noi siamo degli esseri finiti, siamo dei portatori di un’ombra e che l’ombra vedendola fino in fondo è l’ombra delle nostre capacità, del nostro essere mortali. Noi ci ricordiamo di essere mortali, di questo parliamo. La tecnica della parola è lo strumento che ci serve per ricordare la nostra mortalità ma anche per sopravvivere alla nostra mortalità; senza la parola, senza la possibilità di raccontare questa cosa, saremmo degli essere assolutamente disperati. Tanto è vero che l’elemento della depressione in termini psicanalitici è proprio l’afonia, quando ti rendi conto che cadono le parole c’è l’impossibilità di difenderti dall’esterno. Diceva Heidegger che la depressione è l’incapacità di distinguersi dal mondo, tu sei tutt’uno con il mondo e non hai più le parole che ti proteggono dal mondo. Quindi la prosa in prosa che cerca di ridurre al massimo questo diaframma di attrazione o di distanza col mondo fa un’operazione di messa in evidenza della depressione della contemporaneità. Invece di fronte a quello io voglio mettere in gioco la possibilità di riallargare di nuovo il diaframma, di ricominciare a vivere, di ricordare che noi siamo qualcosa che si può distinguere da una visione dominante e totalitaria delle contemporaneità, anche se è una visione negativa.

Bernini: quanto può essere definita come situazione di esilio primario quella di queste ragazze, esiliate da qualunque tipo di esistenza? Durante la lettura si percepisce un senso di esilio in ogni caso, di lontananza da una qualsiasi possibilità di essere. Per quanto la figura di Ute ci parli del dottor Starkino e di questi loro in questo caso intesi come quelli che le hanno risolto la vita – non so se da una situazione precedente di povertà – sembra la tipica situazione in cui la povera ragazza è stata fregata con dei sogni di vita migliore. Nonostante queste ambiguità che fanno parte del rapporto grande storia-piccola storia degli esseri umani, c’è questo senso di esilio primario. Loro sono esiliate sia dall’esistenza reale che precede la caduta del muro, sia soprattutto da quella subito dopo. È corretta questa interpretazione?

Frungillo: è proprio così, il mio tentativo per la vita di Ute era di alludere a un passato di assoluta miseria e di dare anche delle caratterizzazioni ai personaggi. Lampe dovrebbe essere il personaggio con un’estrazione sociale un po’ diversa, migliore rispetto a Ute; Renate con la storia familiare di cui abbiamo parlato; Karla l’imbranata del gruppo. Sì, sono dei personaggi che sono il frutto… Questa è una cosa abbastanza singolare e misteriosa. I sovietici, la DDR, erano folli, gli esperimenti che arrivavano a fare erano incredibili, che poi sono gli esperimenti delle ideologie totalitarie. Come riferimento storico reale abbiamo il fatto dei figli di nessuno, di cui esiste una definizione in russo che non so ripetere perché non conosco il russo, ovvero dei ragazzi presi dalla strada perché non avevano genitori o che venivano sottratti alle famiglie. Questi ragazzi venivano messi in scuole collettive – e lì si realizzava quella che è un po’ l’utopia di Platone – e successivamente avrebbero creato il popolo sovietico ma vivendo senza un radicamento reale nel paese, senza una famiglia, un passato, qualcosa che li sostenesse dietro. Era proprio un esilio primario, erano figli dell’Unione Sovietica, erano figli della DDR. Questo è il riferimento storico.

Poi dal punto di vista di traslazione poetica è la condizione di proiezione del poeta che attraverso la parola si esilia dal mondo, c’è un impersonificarsi in questi personaggi che hanno questo tipo di caratteristica storica. La parola esilio è usata in modo fantastico da Brodskij quando fa il dialogo di accettazione del premio Nobel e dice che chi scrive poesia è un esiliato nel mondo.

Bernini: Ho una curiosità legata alla scrittura. All’inizio del canto V c’è una prima persona singolare non virgolettata, siamo nelle ottave dopo la caduta. Coerentemente con gli altri canti mi aspettavo delle virgolette e qua invece non ci sono più.

Frungillo: Sì, perché in questa seconda parte il tentativo è quello di creare una specie di discorso comune tra le nuotatrici, che diventano una specie di corpo comune anche se poi comunque si capisce chi parla. C’è proprio una parte in cui si entra in una nuova fase in cui loro trovano una forma di empatia fortissima tra di loro, in cui c’è una forma di destino comune. Sono l’una con l’altra e l’una nell’altra nella parte dopo la caduta. Anche perché si liberano in un certo senso dall’elemento competitivo e agonico della staffetta. Perché nella staffetta loro non sono mai contemporaneamente in acqua, anche se sono vicine è come se vivessero in queste forme di cristallo, non riescono mai ad essere veramente l’una con l’altra. Invece dopo la caduta, anche se in lontananza, percepiscono questo destino comune. Si comincia a parlare di un io collettivo che riguarda tutte le nuotatrici. Qui ho cominciato a fare a meno di riferimenti grafici, di virgolette e altro.

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Chiara Bernini
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