Su Alessandra Carnaroli, Femminimondo

Il titolo può dissuadere. La pubblicizzazione, firmata dall’Associazione Erinna (donne contro la violenza alle donne), pure. La scarsa o nulla distribuzione delle edizioni Polìmata incentiva a desistere.

È improprio circoscrivere l’impegno letterario dell’autrice alla denuncia sociale. La raffinatezza della scrittura colloca la raccolta tra le letture più piacevoli e sorprendenti in una stagione di produzione poetica piatta.

La dedica (a chi ho preso la parola / alle loro figlie) svela un’operazione di ascolto che s’inscrive in un orizzonte propriamente di verità. Una realtà più autentica si svolge in queste Cronache tratte da strade, scalini e verande, ovvero interni, esterni e interstizi intermedi. I componimenti si susseguono in Sfilate come indica una seconda intestazione alla raccolta: i fatti a sinistra, sintetizzati da rastremate coordinate del luogo e del modo del misfatto, disposte in suggestiva dinamica col vuoto; le colpe a destra, in una pagina dedicata alle testimonianze raccolte in vero e propri testi poetici.

Le donne nel mezzo sono soggetti ed oggetti della narrazione, che coglie l’accaduto in medias res oppure a posteriori e si svolge attraverso formule colloquiali. Non ci sono dialoghi: i monologhi si rivolgono spesso ad una seconda persona che non risponde; i componimenti che invece assemblano più di un punto di vista non realizzano un’interazione reciproca, fanno semplicemente coesistere estraneità già irrimediabilmente scisse.

Gli stili orali, abilmente personalizzati come di recente ha proposto Annovi ne La scolta, sono accomunati da diffuse sgrammaticature, prevalentemente nell’uso pronominale e dei congiuntivi, da deittici o da forme di discorso indiretto libero. La modulazione è scandita da ripetizioni che finiscono per svolgere anche una funzione letteraria strutturante: ti sei accorta da come mangio / che non mangio più uguale / dai pantaloni slacciati la scarpa slacciata […] da cosa ti sei accorta. Versi piuttosto lunghi assecondano il flusso di un discorso comune, che riproduce la realtà – lui ha tirato fuori questa cosa lunga mezzo braccio / e pan pan pan – e le sue scintille eloquenti – lui ha fatto cucù dalla strada come se era un orologio rotto / che segnava l’ora sbagliata.

La caratterizzazione del registro attraverso brevi frammenti lascia emergere immaginari ed esperienze individuali che ricostruiscono compatti universi paralleli. Si tratta infatti di uno stile colloquiale che da una parte si imbeve di elementi materiali, dall’altra basa la propria originalità sullo stridore con il lirismo delle catene associative che dal libero flusso di coscienza si librano, pur nell’elementarità del linguaggio.

Il materialismo del discorso fonda la sua necessità su una continuità coesiva tra la sofferenza psico-emotiva e quella fisica, riscoprendo una biologia sotterranea e minuta che si concretizza come nei testi di Elisa Biagini. I singoli componenti invocano il recupero del proprio valore – il sangue arrampicato sugli ossi / […] si sforza per arrivare al cervello – opponendosi a una disumanizzazione reificante – come rompermi i diti e sentire il rumore dei pezzi / come se sono un pacco di galletti. L’unità di questi frammenti organici si aggrappa alle più ordinarie esperienze per mantenere aderente al senso di realtà se stessa e il proprio carnefice.

La ricostruzione dei fatti, dunque, depone ogni psicologismo, ogni ricognizione delle cause, ogni espressionismo sentimentale. Si predilige un’aderenza ai misfatti, alle cose, ai gesti, giustapponendoli all’abisso dell’ordinarietà e del buon senso. Non c’è dunque vittimismo, né rancore nelle parole di chi ha subito. Da parte di chi ha agito violenza, non c’è una precisa coscienza della realtà o del discrimine tra vita e morte, tra umanizzazione e reificazione. I corpi, privati della persona, confluiscono nel regno delle cose disponibili o meno a soddisfare i propri bisogni materiali ed emotivi. Il delitto scatta quando questo “diritto” è negato, quasi che il soggetto subisse uno sminuimento della propria identità, a cui chiede risarcimento con vendetta. Dinamiche dunque elementari, proprie del mondo animale, a cui gli uomini scadono perché poveri: poveri d’amore, di consapevolezza, di strumenti di autoanalisi. Sono di carne / c’ho le orecchie e un naso la tessera conad è affermazione di sé che vidima la propria pochezza. Più aberrante l’opinione comune che in un paio di testi esprime spavento iniziale, poi insofferenza per il disturbo, infine vaghe giustificazioni dell’orrore, affastellate senza una gerarchia di valori.

Questa pochezza di assassini e violentatori si esprime con un’ingenuità a tratti disarmante, capace di una leggerezza favolistica: ti sciogli come la neve sul terrazzo, dice un uomo alla moglie che brucia, resti solo osso / e vestiti che s’incrostano ai denti / fanno la lotta coi nei della schiena; un padre alla figlia da lui stesso stuprata si rivolge attenuando la gravità della ferita come fosse una qualunque, assimilando il registro infantile: se perde forse smette di uscire di fare i disegni per terra / quella sembra una faccia con gli occhi che ride / a quell’altro gli manca un dente. Micidiale, come altri, il vuoto che poi qui si schiude sulla pagina: le conclusioni sono spesso tronche e glaciali, con notevole capacità di cristallizzazione.

Altra ingenuità, disarmata questa, è quella delle donne e delle bambine. La prospettiva dei minori riconduce a un mondo semplificato a regole semplici ed elementi quotidiani: non mi toccate la passerotta mia madre mi ha detto di no / non avete lavato le mani sono sporchissime di penna bic, dice una dodicenne al branco che la violenta. Colpisce la compostezza silenziosa dei minori, vittime doppiamente, anche del tradimento di quel mondo adulto che avoca la rettitudine educativa e che trasgredisce quel sistema di riferimenti di valore imposti.

Qualcosa di analogo accade nelle donne: l’oralità interagisce con una raffinatezza letteraria delicata, non invadente, tessuta da similitudini con la vita reale, nota. I paragoni non mirano dunque a impreziosire il discorso ma a renderlo più comunicativo nella concretezza dei referenti. Mica mi facevo scopare da tutti / cosa diventavo dopo / diventavo un tubo con l’acqua e la ruggine che la mangia, dice la prostituta al branco: l’associazione ad una corrosione materiale tangibile rinnova la dignità e il rispetto della propria dimensione umana. O su un altro piano, più raffinato e sottile, i pugni che si staccano come mele col verme è un paragone che condensa la fisicità del gesto e il senso di fiducia tradito che convoglia. L’originalità della scrittura sta proprio in questi cortocircuiti tra il contesto cruento da una parte e dall’altra la tendenza a normalizzare la situazione, ad evidenziarne l’anomalia rispetto all’ordinario, la lievità di immagini e la docilità di sentimenti: non mi dare ventotto coltellate / che mi confondi la destra con la sinistra / la maglia di lana con la pelle / mi giri il cuore nelle tasche. Talvolta questo risultato è raggiunto con ironia – la guancia scoperta il nervo / che saluta da sotto, ad esempio – o con senso materno nel trattamento dei propri oppressori: c’hai questi bracci forti da maschio / se ci metti il coltello arrivi dall’altra parte / come un bambino che calza la penna sul foglio / […] è meglio che il coltello lo usiamo / per sbucciare le patate / lo usiamo per l’arrosto / stai calmo e molla l’osso / lo usiamo per il pane. Un effetto prepotentemente lirico si innesca quando il focus dell’attenzione si sposta su un termine di confronto e su di esso costruisce un piano immaginifico denso: il ferro è arrivato dall’altra parte / come se c’era una calamita […] come se era il nord / dove ci cresce il muschio / che lo mangiano animali come le renne / e il muschio erano i capelli delle donne sporchi col sangue. In questi casi sembra quasi che l’abbandono alla visionarietà sospende anestetizzato il dolore, attenuato o occultato.

E la misura è sempre contenuta, mai debordante nel letterario. Sebbene si rinvenga un piccolo rifacimento di Soldati di Ungaretti: casca dal letto come le foglie / stava / la puttana / in autunno / marrone.

(già su Nazione Indiana)

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Silvia De March
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