MILO, L’ATOMO-PALLONE DI LUCREZIO E LA PARTITA NELLA CAPPELLA SISTINA

MILO, L’ATOMO-PALLONE DI LUCREZIO E LA PARTITA NELLA CAPPELLA SISTINA
(A margine della «differenza ontologica», della «différance» e altro nella poesia di De Angelis)

 

Milo De Angelis

«Sì, con Millimetri, e in particolare negli anni tra il 1980 e il 1983, tutto precipita […]. Di quegli anni ricordo l’insonnia che era entrata in ogni mia cellula… e il giorno… il giorno non dava più i frutti che la notte ha preparato. C’era come una frattura che aveva spaccato il ritmo… ogni giorno era di troppo tempo… era una veglia, perenne, di estensione sterminata, un corpo a corpo con la parola… e poi l’ossessione dell’algebra… andavo in giro con un quaderno pieno di numeri… è stato il mio tributo all’ascesi… una dimensione che prima non era mia e non lo sarà dopo… proprio così, il mio tributo all’ascesi… ero stremato ogni volta dalla lotta che nasceva tra me e la poesia… […]»:  così Milo De Angelis descrive in un’intervista[1] l’origine di uno dei libri più criptici e seducenti  degli ultimi decenni, nel quale Enrico Testa individua un «gelido e oscuro astrattismo» come cifra distintiva[2].

I titoli, in De Angelis, sono indicativi. E proprio a partire dai titoli delle sue raccolte poetiche (Somiglianze, Millimetri e altre, fino a Incontri e agguati) nel presente articolo critico si proporrà una differente interpretazione della poesia di Milo De Angelis, lontana sia dalle suggestioni  neoorfiche e stilistiche, che pure i suoi versi hanno legittimato, sia da un possibile recupero in ambito post-neorealista (si pensi alle popolari descrizioni deangelisiane delle periferie milanesi, realistiche e meticolose), di cui però non ci occuperemo[3] .

Millimetri è il secondo libro di Milo De Angelis, pubblicato nel 1983; preceduto da Somiglianze(1976). Tra le due raccolte s’inserisce un testo teorico giovanile, Poesia e destino del 1982 che ha innescato un meccanismo interpretativo contro il quale Milo De Angelis è costretto ancora oggi, se provocato, a  ricorrere ad affermazioni correttive in sede critica.

 

La distanza dal neoorfismo

Sui numerosi rimandi teorici al pensiero orientale, al mondo greco degli eroi e del mito presenti in Poesia e destino si appoggia l’ipotesi, variamente riformulata anche dagli stessi fan del poeta:  il primo De Angelis,  o almeno un certo De Angelis,  è neoorfico?

Maurizio Cucchi, in Poeti italiani del secondo Novecento,  sintetizza la poetica dell’autore e gli equivoci che hanno portato a questa deriva interpretativa includendo una responsabilità dello stesso Milo; infatti scrive: «L’andamento del testo è prevalentemente ragionativo, e si fonda su passaggi e associazioni ardue, con esiti oscuri, con soluzioni visionarie, ma anche con frequente nettezza di versi spiccati, definitori. Il clima e i luoghi sono più volte quelli di una periferia plumbea, una sorta di altrove assoluto, infinitamente ripetitivo, dove ogni cosa non è più se stessa, o quanto meno non è più segnalata all’interno dell’ordine apparente a cui siamo abituati a collocarla. Questo sottrarsi ai nessi logici consueti, nella ricerca di una verità che risiede sempre altrove rispetto al comune modo di intendere — in un testo che offre al lettore innumerevoli occasioni di attrito , ma che pure è sempre imprendibile, slittante in una sua autonomia misteriosa — ha anche alimentato, non senza il contributo dello stesso De Angelis (attraverso “Niebo”, una rivista da lui creata e diretta), l’idea e l’etichetta di una poesia neo-orfica , o addirittura neo-ermetica. Il tutto con qualche giovanile accenno oracolare che ha fatto di De Angelis, ma al di sotto dei suoi meriti, un precoce maestro per diversi autori della sua generazione»[4].  Cucchi, insomma,  dice — tra le altre cose — che l’interpretazione neoorfica è sostanzialmente non corretta.

E lo stesso De Angelis ha cercato di fornire una diversa chiave interpretativa; si legga, p. es., questa dichiarazione nella quale, pur non demonizzando  alcuni depositi novecenteschi, ne prende però decisamente le distanze:«La dimensione orfica, nei suoi simboli essenziali, è inseparabile dalla poesia: la salvezza, la notte, la luce, il voltarsi. Questa dimensione esiste, certamente, in ciò che scrivo. Meno presente è l’orfismo come si è configurato nella poesia degli ultimi secoli: Blake, Rilke, Onofri, Campana sono poeti  dell’archetipo e della natura, sono poeti lontani dal mio mondo. Li amo — soprattutto  Rilke e Campana — ma li amo proprio in quanto remoti, portatori di un’altra lingua e di un’altra visione…»[5].

Milo De Angelis, nel corso degli anni, è tornato all’attacco più volte contro l’interpretazione neoorfica dei suoi testi;  per esempio, in un’intervista del 2005 dichiara: «Ormai ho smesso di lottare contro le definizioni! Cerco solo di capire cosa può avere spinto i critici  a sentire “orfica” una poesia come quella di Somiglianze, così legata alla durezza metropolitana e quindi già a prima vista lontana dal puro canto di Orfeo»[6].

Nonostante i continui rimandi alle tradizioni orientali, al pensiero dei Presocratici e alla tragedia greca, non è quindi esente da malintesi un’interpretazione greco o dualistico-platonica, in sostanza neoorfica,  della produzione poetica di De Angelis: una lettura orientaleggiante del suo pensiero sarebbe possibile solo alla condizione di non tener  conto dell’intentio e della stessa biografia di Milo De Angelis.

 

Il “tormento” dei numeri e l’addizione che non raggiunge l’uno…

Nelle tante pagine in cui i numeri tormentano Milo, la precisione del calcolo è applicata all’analisi di testi letterari[7], anche alla Divina commedia: «Sorretti dalla speranza — gli esempi danteschi sono innumerevoli — i condannati enunciano il peccato che li ha condotti in quel luogo e attraverso la preghiera sperano di attenuarlo in peccato veniale, sempre più veniale fino a cancellarlo. La speranza è questa addizione di pentimenti, addizione che tenta di raggiungere l’unità aggiungendo un numero sempre più grande di decimali a 0,99: “dimitte nobis debita nostra, sicut et nos dimittimus debitoribus nostris”. Ѐ significativo il fatto che l’Induismo […] chiama “purgatorio”  questa addizione che non raggiunge l’uno.»[8].

In Poesia e destino il giovane De Angelis riporta in una pagina del diario datata giugno 1980: «“Sono un matematico” — mi disse sedendosi — “sono un matematico e credo che lo resterò sempre, nonostante queste sofferenze”. […] “Fin da piccolo i numeri mi hanno tormentato… […]”. “C’è una matematica più grande di quella che conosco? Una matematica che… come se i numeri respirassero… non so… e io insieme a loro… sì… il respiro dei numeri”»[9] .

«L’ossessione dell’algebra» è una costante, se ancora alcuni decenni dopo De Angelis dichiara in un’intervista: «Ecco, l’ossessione è stata questa esattezza, questa catena da tenere ferma. E non è facile, perché la logica della poesia è violenta, affonda in zone disastrate. Bisogna mantenere il contatto con la pazzia e con il niente, e tuttavia darne notizia attraverso una sintassi da stringere e costringere. Ci sono poesie di Millimetri e di Distante un padre che non riesco più a comprendere interamente. Eppure ricordo che in quei giorni pazzeschi della loro stesura tutto era incatenato, passaggio per passaggio, tutto era sottoposto a prova, come in una pagina di Cartesio. So che alla fine tornerò a comprenderle»[10].

Segnaliamo qui, a proposito delle febbrili ricerche degli anni Settanta, che c’è un punto di contatto tra le opere di De Angelis e quelle dell’artista visivo Vincenzo Agnetti (1926-1981), che in un pannello della serie Assiomi (1969-1973), p. es., teorizza: Quando le parole si elevano a valori di numeri i numeri valgono le parole.

Milo De Angelis manifesta da subito, già a partire dalle poesie giovanili del 1969-1973, il rigore logico e il nucleo razionale della sua poesia, da considerare uno strumento per  misurare la realtà. Naturalmente, come qualsiasi strumento d’indagine umano, anche la scrittura presenta un margine di errore: il cruccio di De Angelis è proprio questo, calcolare in ogni verso — spesso ricalibrato e ricalcolato nel verso successivo[11] o in una serie infinita di varianti — l’errore di qualche millimetro delle parole.

La questione delle varianti è stata posta più volte dallo stesso  autore anche a livello teorico: «La variante è un tendersi dell’udito a una dettatura, a quella prima voce ascoltata che uno vuole mettere a fuoco nelle sue minime sfumature, nelle sue sillabe, nei suoi dettagli… quindi non è un esperimento la variante, anzi… è il ritorno a un’origine ancor più nettamente percepita. Una fedeltà  alla prima dettatura, alla prima parola scandita, che forse allora non avevamo ascoltato  con la necessaria e millimetrica finezza  e che ora ritorna e che ci chiede di essere messa a punto»[12].

 

Il margine di errore della scrittura: questione di… millimetri

L’uso di una  terminologia asettica e matematica è una delle caratteristiche stilistiche più evidenti: le numerose occorrenze dei termini: minuto/i, numero/i, chilometro/i, centimetro/i, metro/i ecc., che nella produzione da Somiglianze (1976) a Incontri e agguati (2015) tendono a prendere la forma letteraria di una psicopatologia quotidiana, sono il sintomo che, attraverso quella che Milo De Angelis chiama scherzosamente «l’ossessione dell’algebra»[13], si può arrivare alla distanza di pochi “millimetri” dalla realtà esterna e arrivare quasi a sfiorarla con le dita.

 

Questione di… millimetri: nella Cappella Sistina

Un’immagine può essere esemplificativa per capire la distanza millimetrica che divide l’individuo dalla realtà: nella Creazione di Adamo della Cappella Sistina Dio crea l’uomo a propria immagine e “somiglianza”; se Dio è la realtà delle cose (lucrezianamente: la rerum natura) e Adamo è l’uomo, lo spazio della poesia è contenuto nella brevissima e infinita distanza tra le due dita che quasi si toccano: c’è quindi una «differenza ontologica», ma anche una somiglianza (Somiglianze è il titolo del primo libro, inizialmente intitolato Esterno[14]), espressa da una distanza di millimetrica (Millimetri è appunto il secondo libro).

 

Questione di… millimetri: Il pallone-atomo di Lucrezio e la partita di calcio

Dopo aver descritto, nelle raccolte, esemplari partite tra ragazzi nelle periferie milanesi — mitizzate nel corso del tempo —, Milo De Angelis gioca ora a pallone nella Cappella Sistina con l’atomo di Lucrezio (poeta da lui tradotto e citato più volte).

La partita in quest’universo lucreziano è desolante perché restituisce una radiografia della realtà (al di là dei colori dipinti da Michelangelo, si potrebbe dire): «Vicino alla morte tutto è presente/ non c’è infanzia né paradiso/ tu cadi in un urlo segreto/ e non parli/ cerchi un arcano/ e trovi solo materia/ che non trema e ti guarda impassibile/ e avvicina muta i due estremi» (in Incontri e agguati, datato 2015[15]).

In Terra del viso (1985) c’è un testo che Milo avrebbe potuto tranquillamente scrivere nella Cappella Sistina: «Entriamo, segnati dal tempo che fu nelle corsie/o nelle gabbie d’acqua marina o nella/ pura e semplice, in noi, geometria: rovesci/ e luce. Questo è/ soltanto il mio turno, benché eterno./ C’è un colore di troppo — mi rispondi —/ la maledizione di un’immagine,  prima./ Anche per noi, non illuderti, non basterà mai/ la nostra poesia»[16] (“Un ateismo”).

La poesia è per De Angelis il tentativo di andare a segno, di segnare (nel duplice significato, con riferimento alla scrittura e al gioco): il goal è quel momento difficilmente ripetibile in cui il pallone-atomo di Lucrezio segue esattamente la traiettoria calcolata e fortemente ricercata dal calciatore (nel caso di Milo se ne conosce solo una Biografia sommaria, titolo della raccolta del 1999).

E per questo De Angelis canta: «Vicina all’anima è la linea verticale./ Il pomeriggio ci portò suburbani in un canto,/ l’attimo divenne nudità/ e potenza greca del finale: siamo i supplici/ rimasti ad ascoltare, il cielo che nasce/ in ognuno di noi, pattuglia di ragazzi/ innamorati del numero giusto,/ la bella epopea, il peso mortale di un pallone» (in Quell’andarsene nel buio dei cortili, 2010)[17].

La distanza insuperabile dal Padre è ora, nel corso di questa partita con l’atomo-pallone di Lucrezio, definitivamente consumata; le due dita quasi si toccano ma restano immobili indefinitamente. Si consuma quindi la separazione e si definisce la distanza — calcolata millimetricamente ­—dall’origine e dalla verità (Distante un padre, 1989).

Relativamente all’opera complessiva dell’autore edita a oggi, alla fine di questo articolo occorrerà riflettere su un aspetto: De Angelis è alla ricerca di una verità logica o ontologica? La risposta (rintracciabile tra le righe) mette inevitabilmente in gioco i due ambiti: il testo e la realtà. A questo punto diventa sempre più evidente come la scrittura di De Angelis si avvicini moltissimo, e non imprevedibilmente — data l’interpretazione qui proposta  —,  al concetto di «différance» formulato da Jacques Derrida e, più in generale, al suo pensiero[18].

 

I titoli: la distanza minima tra due termini

I versi di De Angelis sviluppano continuamente il tentativo di misurare la distanza tra due estremi A e B molto ravvicinati, ma che non si toccano mai[19]: gli stessi titoli delle raccolte esprimono la distanza minima tra due parole (p. es. in Incontri e agguati,  dove basta poco per trasformare un incontro in un agguato e, anche, un agguato in un incontro); altre volte, come in Millimetri e Somiglianze, nel  termine stesso è implicita una distanza minima: c’è, quindi, una tensione delle parole — distanti tipograficamente pochi millimetri l’una dall’altra —, alla sinonimicità. Ѐ il tentativo originale di De Angelis di ridurre al minimo, a una distanza tendente allo zero, tutti gli spazi bianchi e i vuoti all’interno della pagina: «[…] Adesso/ ti è dovuto un foglio/ davvero qualsiasi, fittissimo di nulla/millimetro trentuno»[20].

 

Articolo critico pubblicato su “Il Segnale”, anno XXXVI, n. 108, ottobre 2017


[1] Luigia Sorrentino, Milo De Angelis: l’imperativo categorico e l’infinito presente, 22 dicembre 2006, intervista trasmessa su Rai News il 24 aprile 2007; ora in AA. VV., Milo De Angelis, Colloqui sulla poesia, a cura di Isabella  Vincentini, Milano, Book Time, 2013.

[2] Enrico Testa, Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000, Torino, Einaudi, prima edizione 2005.

[3] Cfr. Walter Siti, Il neorealismo nella poesia italiana, 1941-1956,  Torino, Einaudi, 1980, pagg. 290-292.

[4] Maurizio Cucchi, Stefano Giovanardi (a cura di), Poeti italiani del secondo Novecento, Milano, Mondadori, prima edizione 1996.

[5] Gabriela Fantato, Annalisa Manstretta, Uno sguardo verso l’indeducibile, intervista,  febbraio 1998; ora in AA. VV., Milo De Angelis, Colloqui sulla poesia, cit., pag. 42.

[6] Patrizio Ceccagnoli, Lo sguardo rimasto solo, intervista, agosto-dicembre 2005; ora in AA. VV., Milo De Angelis, Colloqui sulla poesia, a cura di Isabella  Vincentini, Milano, Book Time, 2013.

[7] In un’intervista, De Angelis viene sollecitato da una domanda diretta di Viviana Nicodemo (il cui nome compare in alcune poesie): «V. N.: “Un matematico, così come un poeta, è un creatore di schemi, se i suoi schemi sono più duraturi degli altri è perché sono fatti di idee.” (G. H. Hardy) Alla luce della tua grande passione per la matematica, come interpreti quest’affermazione? M. D. A.: Quando Kurt Gödel, nel 1931, afferma che la verità di un ente non si può dimostrare con il linguaggio di quell’ente, dice qualcosa che riguarda tutti noi. Quando Brouwer, in quegli anni, nega che gli enti matematici  possano esistere prima di essere definiti, dice anch’egli qualcosa che riguarda tutti noi. Mi interessa dunque la matematica che interseca l’uomo la scrittura e la sua comprensione. Ancora Gödel insiste furiosamente  sul fatto che la coerenza interna di un sistema non ne garantisce il valore di verità. E questo non è già un rifiuto della semiologia? […] Ѐ vero: un poeta e un matematico sono accomunati nella loro grandezza da un’idea unica e duratura […]» (Viviana Nicodemo, dialogo con M.D.A., 21 gennaio-31 dicembre 2007, “Almanacco dello Specchio”, dicembre 2007; ora in AA. VV., Milo De Angelis, Colloqui sulla poesia, cit., pagg. 196-197).

[8] Milo De Angelis, Poesia e destino, cit., pag. 22.

[9] Milo De Angelis, Poesia e destino, cit., pagg. 140-142.

[10] Stefano Massari, Intervista seconda, novembre 2006 – agosto 2007, “La mosca di Milano”, n. 18, maggio 2008; ora in AA. VV., Milo De Angelis, Colloqui sulla poesia, cit., pagg. 169-170.

[11] Nella citazione dei versi di M.D.A., per comodità del lettore, il numero di pagina si riferisce sempre al volume che ne raccoglie l’opera fino a Incontri e agguati, l’ultima raccolta pubblicata al momento della stesura di questo articolo:  Milo De Angelis, Tutte le poesie, 1969-2015, Milano, Mondadori, “Lo Specchio”, 2017.  Alcuni esempi, tra i molti possibili, di figure di parola: «[…] Forse è ora, è quasi ora» (p. 39); «[…] “io devo/ io devo cambiare”» (pag. 65); «di te e di noi, di noi soli creati» (pag. 126); «Due. Solo due. Solo due.» (pag. 187); «il corpo in un’idea, fendendo l’idea» (pag. 252); «[…] Solitudine saliente./ solitudine innata.» (pag. 335) ecc.

[12] Luigia Sorrentino, Milo De Angelis: l’imperativo categorico e l’infinito presente, cit., pag. 158.

[13] Un altro poeta nel quale è presente un forte richiamo alla matematica e alla scienza è Pancrazio Luisi, autore di una raccolta di poesie intitolata Il punto di Lagrange (1995). Si veda il saggio: Mario Buonofiglio, Poesia “euclidea” e “non-euclidea” nel Punto di Lagrange di Pancrazio Luisi, con alcuni appunti sulla versificazione, in “Capoverso”, n. 32, lug.-dic. 2016, pagg.67-72. Ora anche online: https://independent.academia.edu/MarioBuonofiglio

[14] Milo De Angelis lo conferma anche in un’intervista: Stefano Massari, Intervista seconda, cit., pag. 168.

[15] Milo De Angelis, Tutte le poesie, cit., pagg. 352-353.

[16] Milo De Angelis, Tutte le poesie, cit., pag. 140.

[17] Milo De Angelis, Tutte le poesie, cit., pag. 319.

[18] Giorgio Linguaglossa ricorre al concetto di traccia “inconscia” di Derrida nell’analisi di alcuni versi di Milo De Angelis. Cfr. https://lombradelleparole.wordpress.com/2015/02/28/una-poesia-di-milo-de-angelis-linn-lavvicinamento-da-distante-un-padre-1989-con-un-commento-di-giorgio-linguaglossa/ (ultima visita 06/09/2017).

[19] Angelo Lumelli ha individuato nella poesia di De Angelis un contatto tra gli oggetti: «Io trovo estremamente affascinante uno sguardo che si appiccica all’oggetto in modo che nulla possa più essere distinto, e tuttavia qui sta l’estremo nitore tattile, cioè gli oggetti si toccano tutti perché al buio non puoi che fare così». Il brano è riportata nella postfazione al volume dello “Specchio” che raccoglie l’opera omnia di M.D.A., cit., da Stefano Verdino, che ne segnala il «particolare punto di vista, estremamente ravvicinato, millimetrico, appunto, tra soggetto e oggetto» (pag. 433).

[20]  Milo De Angelis, Tutte le poesie, cit., pag. 230.

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