Parola ai poeti: Roberta Ioli

Qual è lo “stato di salute” della poesia in Italia? E quello dei poeti?

Stando alla quantità di libri di poesia che si pubblicano, direi che i poeti stanno bene. Sullo stato di salute della poesia, cioè sulla sua qualità, non saprei. A me pare di leggere di tutto, poesie di assoluta bellezza e tanto altro che non è poesia.

 

Quando hai pubblicato il tuo primo libro e come hai capito che era il momento giusto? Come hai scelto con chi pubblicare? Cosa ti aspettavi? Cosa ti ha entusiasmato e cosa ti ha deluso?

Ho pubblicato tardi il mio primo libro, nonostante scriva da sempre. Era il 2014. Ho sentito che era tempo di congedarmi da un parto forse imperfetto, ma necessario per liberare la mia voce più vera. Editore Italic/Pequod. Piccolo editore anconetano di qualità, scelto sulla base dei nomi accolti nella collana poetica, di cui amavo anche la veste grafica, sobria, curata.

Non mi aspettavo niente di particolare. Per me è stata l’esigenza di liberarmi dalla paralisi, dare voce a quello che sono, a quello che tento di scrivere.

 

Se tu fossi un editore cosa manterresti e cosa cambieresti dell’editoria poetica italiana? Cosa si aspettano i poeti dagli editori?

Non so. Vorrei che l’editoria fosse libera da baronati e potenti influenze. Per questo amo i piccoli editori: mi sembrano più coraggiosi. Non mi piace che ci siano pressioni legate alle mode, che la poesia possa diventare un fatto di moda, un’espressione di autoesibizionismo e poco altro. O è universale, o non è poesia.

 

La poesia di domani troverà sempre maggiore respiro nel web o starà in fondo all’ultimo scaffale delle grandi librerie dei centri commerciali? Qual è il maggior vantaggio di internet? E il peggior rischio?

Vantaggio del web è la facile diffusione delle notizie, l’accesso di tutti a ciò che viene pubblicato e spesso anche scritto (blog letterari eccetera). Il rischio è quello di elevare tutti al rango di critici e conoscitori e recensori altisonanti. Non lo dico per la una forma di snobismo culturale, ma il binomio visibilità del giudizio/invisibilità del suo autore mi pare micidiale.

Pensi che attorno alla poesia – e all’arte in genere – si possa costruire una comunità critica, una rete sempre più competente e attenta, in grado di giudicare di volta in volta il valore di un prodotto culturale? Quale dovrebbe essere il ruolo della critica e dei critici rispetto alla poesia ed alla comunità alla quale essa si rivolge?

Mi piacerebbe molto che si creasse una rete e una sensibilità di questo tipo. Mi piacerebbe una critica militante (in parte già viva e attiva) e una poesia responsabile delle proprie scelte, fuori dalla logica del puro apparire. Credo molto nei piccoli gruppi di “resistenza culturale”.

Il canone è un limite di cui bisognerebbe fare a meno o uno strumento indispensabile? Pensi che nell’attraversamento della tradizione debba prevalere il rispetto delle regole o il loro provocatorio scardinamento?

Né l’uno né l’altro: importante – credo – è conoscere la tradizione per poi trovare la propria voce. Non esistono regole assolute o canoni immutabili. Per me l’amore per la tradizione è stato un nutrimento vitale, una linfa insostituibile per la sua forza e vitalità, ma troppo spesso anche un limite. Difficile trovare la propria voce sotto la zavorra dei libri. Soprattutto se bellissimi.

 

Quali sono i fattori che più influiscono – positivamente e negativamente – sull’educazione poetica di una nazione? Dove credi che vi sia più bisogno di agire per una maggiore e migliore diffusione della cultura poetica? Chi dovrebbe farlo e come?

Dico cose ovvie, ma sicuramente la scuola può essere un’ottima opportunità per avvicinare alla poesia. Penso, oltre che allo studio della tradizione, all’ascolto diretto della poesia e della voce dei poeti viventi, liberi dalle zavorre dell’apparato accademico e delle note a piè pagina.

 

Il poeta è un cittadino o un apolide? Quali responsabilità ha verso il suo pubblico? Quali comportamenti potrebbero essere importanti?

Il poeta è un cittadino, per la sua responsalità anche politica verso la comunità in cui vive, ma è insieme un apolide che conosce la condizione del senza patria, che ascolta le storie e sa raccontare il dolore. Testimoniare la bellezza e la verità della parola mi pare una scelta di grande coraggio e talmente fuori moda da essere necessaria.

Credi più nel valore dell’ispirazione o nella disciplina? Come aspetti che si accenda una scintilla e come la tieni accesa?

Il silenzio mi aiuta a far parlare le cose e i sentimenti. Spesso la scintilla è fuori, ma la voce va ascoltata nel proprio personale silenzio. A ciò però aggiungo la disciplina della forma: io scrivo riscrivo butto cancello. Il suono deve essere uno, e solo uno.

Scrivi per comunicare un’emozione o un’idea? La poesia ha un messaggio, qualcosa da chiedere o qualcosa da dire?

Non mi chiedo mai cosa voglio comunicare. Non c’è un messaggio definito da parafrasare. C’è un’urgenza che si crea e che crea (poi cristallizzata nella precisione della forma). L’emozione per me va raffreddata, altrimenti diventa pianto, gola, pancia.

Cosa pensano della poesia le persone che ami?

La amano. Ma la leggono poco.

Sei costretto a dividere il tempo che più volentieri dedicheresti alla poesia con un lavoro che con la poesia ha davvero poco a che fare? Trovi una contraddizione in chi ha la fortuna di scrivere per mestiere? Come vivi la tua condizione?

Sono abituata a dividermi tra le cose che faccio, e ho la fortuna di un lavoro che ha a che fare con le parole e non mi tiene troppo lontana dalla poesia. Dedicherei più tempo alla poesia se non lavorassi, questo è certo, ma forse va bene così. Forse la costrizione del lavoro mi permette una maggiore qualità di concentrazione nel tempo che mi è dato. La condizione essenziale è il silenzio. Non so se invidio davvero il poeta di mestiere. Penso alla poesia come a una forma di ascesi, che poco a che fare con altro.

Cosa speri per il tuo futuro? E per quello della poesia? Cosa manca e cosa serve alla poesia ed ai poeti oggi?

Mi piacerebbe che la mia poesia potesse parlare. Che potesse toccare e un po’ restare, come una lingua inaspettata, scoperta, che diventa nota e fa compagnia.


Roberta Ioli vive a Cesena, dove insegna filosofia in un liceo classico. Si occupa di filosofia antica e storia del mondo classico, a cui ha dedicato svariati contributi, tra cui Gorgia di Leontini, Su ciò che non è (Olms 2010), Teocrito. L’Incantatrice e altri idilli (Ladolfi 2012), Gorgia. Testimonianze e frammenti (Carocci 2013). Si occupa anche di teatro greco e vocalità, e per le Edizioni della Stoà ha pubblicato un contributo dal titolo Vocem devorat dolor. Ecuba e la voce del lamento, nato dalla sua collaborazione con Chiara Guidi e la Socìetas Raffaello Sanzio. Ha pubblicato due raccolte poetiche, entrambe con l’editore Italic/Pequod: L’atteso altrove (2014, prefazione di Barnaba Maj) e Radice d’ombra (2016, prefazione di Fabio Pusterla). Sue poesie sono apparse su diversi blog (Poetarum Silva, Nazione Indiana, Finestre). Dal 2015 cura una rubrica mensile su Aula di Lettere Zanichelli, dal titolo Il passato ci parla.

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1 Comment

  • Una bella intervista, condivisibile in tutto, tranne che nell’affermazione iniziale; qui la Ioli sembra vivere su Marte: non esiste più praticamente editoria per i poeti, a parte alcune poche cerchie di amici degli amici… Gli editori che contano e le librerie mettono la poesia in castigo, sia nella ricerca dei talenti che sulla visibilità “a scaffale”. Proprio non so dove questa ridda di editori pronti a ascoltare i poeti vi sia se non nell’immaginazione dell’autrice.

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