Poesia Condivisa 2 n.13: Derek Walcott

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Love after love

The time will come
when, with elation
you will greet yourself arriving
at your own door, in your own mirror
and each will smile at  the other’s welcome 

and say. Sit here. Eat.
You will love again the stranger who was your self.
Give wine. Give bread. Give back your heart
to itself, to the stranger who has loved you 

all your life, whom you ignored
for another, who knows you by heart.
Take down the love letters from the bookshelf, 

the photographs, the desperate notes,
peel your own image from the mirror.
Sit. Feast on your life.

*

Amore dopo amore

Tempo verrà
in cui, con esultanza,
saluterai te stesso arrivato
alla tua porta, nel tuo proprio specchio,
e ognuno sorriderà al benvenuto dell’altro,

e dirà: Siedi qui. Mangia.
Amerai di nuovo lo straniero che era il tuo Io.
Offri vino. Offri pane. Rendi il cuore
a se stesso, allo straniero che ti ha amato

per tutta la tua vita, che hai ignorato
per un altro che ti sa a memoria.
Dallo scaffale tira giù le lettere d’amore,

le fotografie, le note disperate,
sbuccia via dallo specchio la tua immagine.
Siediti. E’ festa: la tua vita è in tavola.

da  Isole, Biblioteca Adelphi ( 2009), a cura di Matteo Campagnoli.

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Annamaria Ferramosca
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7 Comments

  • Potremmo dire molte cose dopo l’immersione in questi versi e sono sicura che ognuno si avvicini al “senso” che mai potrà essere, come del resto avviene ontologicamente in poesia, del tutto attraversato. L’amore dopo amore è anche questa inestinguibile tensione a vedere in sé l’ altro, più vero e innocente, ma perduto, e insieme l’ allusione alla necessità di sempre ricercarlo. Grazie, Franco.

  • Forse ciò per cui si è spesa la vita, la propria immagine non è l’autentico sé stesso. Ecco inizio a leggerla così e non trovo niente di narcisistico nelle parole di Walcott. Non è infatti un invito ad amare sé stessi piuttosto un ritorno ad una terra d’origine, qualcosa che si era dimenticato ma non ucciso. Il ritorno è quello del figliol prodigo dal padre. La festa è la stessa narrata nel vangelo. Lì si uccide il vitello grasso, qui si offre vino e pane, a chi si credeva perduto. Lo straniamento, il perdersi nelle strade dell’omologazione, del successo promesso da quell’altro che sa a memoria la nostra esteriorità, perché sa tutto sui bisogni materiali, primari, secondari e falsi e per questo sa come lusingarci ma nulla sulla nostra singolarità. Non c’è questa nello specchio, l’immagine le assomiglia, ma potentemente narra un altro sè, quello che si è diventati straniandosi da quello vero e antico che solo il sé conosce. C’è invece una nuova dimensione dello specchio, che richiede di fermarsi, sedersi a riflettere finalmente sul profondo della propria identità. Oltre la luce che ricostruisce la figura c’è il cibo primario dell’esistere. Vivere dunque equivale ad essere sé stessi, ritrovare le fondamenta di uomo all’interno della propria storia. Il senso di appagamento deriva da questo passare in una dimensione di abbandono allo straniero, nelle braccia di ciò che abbiamo dimenticato o persino rinnegato: l’uomo nell’accezione universale della parola. Amore dopo amore dunque ha il senso di superare inevitabilmente l’esperienza di ognuno e di portarla a riconciliarsi con la vita. Nella mente ritornano i versi assoluti di Pasolini il suo magnificat all’affetto:
    … io credo
    che questo affetto altro non sia che un pretesto
    per sapere di avere una possibilità – l’unica –
    di disfarsi senza dolore di se stessi.
    (Un affetto e la vita. Da Transumanar e Organizzar.P.P.Pasolini )-

    Sembra che l’idea del superamento del piccolo io, per sconfinare nell’ universale accomuni i grandi poeti. La strada è quella della spoliazione del tempo, per inabissarsi e riemergere in un altro io, dove a tempo fermo riconoscersi come in una rivelazione.
    C’è qualcosa inoltre che spiazza il lettore ed è, credo, l’immediatezza con cui il poeta- l’ io predicente che fa da coro-va al nocciolo dell’uomo moderno, la facilità con cui lo riconduce a sé stesso e lo mette a nudo di fronte a quello che è sempre stato e sarà ancora. Il figliol prodigo che ritorna, spoglio di ogni avere, ritrova la sua ragion d’essere nella sua casa. Nessuno è straniero all’altro qui dove ogni cosa si riaccende in forza dell’amore e il poeta che assiste e canta, potrà finalmente bandire la sua tavola senza che manchi niente alla completezza della vita.
    ciao

    • ops! errata corrige : “potrà finalmente imbandire…” invece di “potrà finalmente bandire….”. scusa, ciao.

  • Si Annamaria, i popoli caraibici e quelli nuovi che si stanno affacciando (o riaffacciando) alla storia sono certamente più ottimisti e sinceri di quelli del declinante occidente, e Walcott ne è forse l’esempio più lodevole e ammirevole.

  • Sì, Antonio, anch’io ho una visione pessimista, indotta dalla nostra deriva di società al tramonto . Ma qui sento Walcott aprire un mondo creaturale nuovo, quel doppio del sé che è il lato inaspettato, limpido dell’uomo, pronto ad accogliere le buone offerte di pane e vino, metafore della pienezza e libertà del vivere. In questa festa possibile dell’umano vi è tutta la sovrabbondante anima creola, aperta alla speranza.

  • Non c’è solo il tema dell’esilio e del ritorno, c’è lo svelamento improvviso dell’identità, l’eterno problema dell’uomo che stenta a riconoscersi. A volte, come in questa poesia, la rivelazione è luminosa, gentile. Non sappiamo però, dal testo, se e come lo svelato risponderà all’invito. Borges sarebbe andato forse avanti d’un verso o due e ce ne avrebbe dato conto (ma da par suo, illudendoci o ingannandoci); Walcott lascia invece saggiamente al lettore il compito di immaginare la risposta e il dialogo che seguirebbe. Per quanto mi riguarda mi sentirei pessimista, ameno oggi, qui in occidente. Credo perciò che l’alter ego risponderebbe: I’m afraid, you’re not me.

  • Trovo su youtube un’altra notevole traduzione, di Anna Rusconi. Per chi volesse avere un confronto ecco il link https://www.youtube.com/watch?v=UMnkc5LblUk

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