Fantasmi, spettri, schermi, Avatar e altri sogni, di Claudia Zironi

zironi-254x350Per disinnescare la morte bisogna che sia proiettata su uno schermo, il quale si può   spegnere, come la mente assopirsi nell’irrealtà. Forse, da questo dipende una certa      convenienza a usare dispositivi per comunicare e ricevere notizie, anche personali, non solo collettive. Claudia Zironi,  in Fantasmi, spettri, schermi, Avatar e altri sogni, Marco Saya edizioni, 2016, nel convocare fantasmi e dei, eventi luttuosi o  incontri d’amore, esprime, tuttavia, un bisogno incoercibile di sentirsi partecipe con tutti, di consonare con l’universo intero, di fondare il presente sul passato, donando in tal modo al tempo odierno uno spessore, una consistenza. Se il presente  ne risulta privo, la denuncia della poetessa pretende un’altra risposta, diversa da quella convenzionale imperante nei media:

tu che sei stato nulla, tu che sei stato poi attesa
dolore e tramite
ti appresti ora a essere di nuovo nulla.
la tua essenza tutta dipende da infiniti
e inesistenti punti di osservazione.

La stampigliatura del dire degli umani su materiali inconsistenti, la cui voce viene riassorbita nel nulla, non irradiandosi, ma sparendo, è forse l’effetto più straniante che Claudia Zironi affida alla pagina. Denuncia ancora più grave, perché   ciò sembra coinvolgere anche la poesia, visto che  essa appartiene alla lingua. La poesia, dunque, non trova rispondenza negli altri e sembra aver smarrito il proprio ruolo di guida  nella costruzione di reazioni,  strategie e valori. La stessa voce della Zironi, la sua potenza di fuoco, la sua passione – e qui ci ritornano in mente alcuni  dei drammatici personaggi modellati da Sofocle o da Racine, le cui invocazioni sono pari a emissioni senza ricezione – sembra, appunto, votata alla mancanza di dialogo per sparizione di un interlocutore. Sarà la portata del messaggio, paradossale in quanto pretende una risposta, a svuotare il palco, ma certe domande sono fatte per restare inevase. Lo riconosce la poetessa:

“Se i poeti per ciò si riconoscessero senza potersi accoppiare, incapaci di lasciarsi in eredità, muli sterili assediati di visioni, separati: se fosse un difetto dell’amore, come un gene zoppo, una mancanza partorita, quest’arte? Se fosse sintomo di un fantasma nella mente?”

L’analogia teatrale (il fantasma shakespeariano) ci porta a leggere le poesie di Claudia Zironi come una scenografia in cui tutto sia pronto per l’evento, il fantasma convocato, però, colpo di scena, esso appaia come un simulacro di cartone. Tale inconsistente apparizione trascina con sé anche il dubbio sul valore  delle nostre produzioni culturali:

parliamo di ontologia a un’ape
citiamo l’essere guardando il cielo
con un telescopio. pensiamo
a un dio che a propria immagine
crei un batterio.
guardiamo al tempo
se ne siamo capaci
consideriamo l’etica e la morale
per la loro durata e il loro effetto.
Contempliamo l’inesistenza, poi
produciamo arte.

La scenografia cade qui come per un alito di vento: il meccanismo che presiede al dramma è stato svelato, aperto, mostra il suo sfavillante nucleo. Non faremo slalom fra queste poesie, seguiremo invece il filo rosso che inchioda il silenzio come un inganno, come una colpa. Poiché Claudia Zironi denuncia e propone. Il silenzio è appropriazione indebita, un esercizio di potere che va cessato. Il dire della parola poetica è così riconsegnato all’esercizio e al senso, allo scopo e al processo del fare. Ora pur anche l’esercizio dell’amore è un fare che si oppone al nulla, al vuoto, al silenzio, richiedendo pelle e ossa, struttura e vasi. Non può sprecarsi l’amore che, eppure, si vive. E che per essere ha necessità di legarsi al quotidiano, alle sfumate sensibilità, alle emozioni che reclamano platea. Ora vediamo che anche la morte è ricondotta a ciò che ne costituisce il terreno segno: “rinchiusi al cimitero a contare / petali di crisantemo, arresi.”

La scrittura è presa con fermezza, meglio afferrata, con questo ritorno all’immanenza, ove non importano illusioni, credenze ed errori, poiché il tessuto testuale è una trama larga che intercetta e raccoglie, promuovendo, in maniera progettuale, un diverso modo di porsi. Nelle pieghe di tale tessitura c’è posto per tutto: metafisica e spettri, disegni e proiezioni, ricordi e resurrezioni. Nella collisione di livelli semantici, anche incongruenti o indicanti false piste, si produce una sorta di polvere stellare che macchia le dita, consentendo loro di lasciare un’impronta visibile su fantasmi, su bambini morti, sulla pagina. Forse ancora prima che sulle parole, la lingua risposa su queste verità.

Il tentativo di individuare nell’età contemporanea l’ambiente nel quale sperimentare pensieri, percezioni ed emozioni muove la Zironi a delineare all’interno di un paesaggio di specchi, di video, di schermi, di proiezioni luminose ove la carne si fa schermo fino all’irrealtà, un substrato corposo, uno zoccolo duro. In fondo, è solo una nuova nomenclatura, che lascia intatte le domande e le risposte che la poesia presenta nel corso della sua storia: ma da qui deve ripartire lo scavo che ci consegna verità non rifratte e non deformate. L’impeto, l’assolo, la ricerca inesausta, la critica, l’insoddisfazione per la realtà che si riceve passivamente, non si possono deporre. Bisogna saggiare il polso al reale, sfidarlo affinché parli, si esponga, si mostri nell’amato corpo o in quello perduto. Che importa se “il quotidiano occulta”, se è lo schermo della nostra esistenza all’interno di un altro schermo? Resta pur sempre l’unica corda verso il cielo e l’amore, da tirare a sé, mentre si sale.

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Rosa Pierno
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