POESIA CONDIVISA 2 N.7: YVES BONNEFOY

Yves Bonnefoy

La lumière, changée

Nous ne nous voyons plus dans la même lumière,
Nous n’avons plus les mêmes yeux, les mêmes mains.
L’arbre est plus proche et la voix des sources plus vive,
Nos pas sont plus profonds, parmi les morts.

Dieu qui n’es pas, pose ta main sur notre épaule,
Ébauche notre corps du poids de ton retour,
Achève de mêler à nos âmes ces astres,
Ces bois, ces cris d’oiseaux, ces ombres et ces jours.

Renonce-toi en nous comme un fruit se déchire,
Efface-nous en toi. Découvre-nous
Le sens mystérieux de ce qui n’est que simple
Et fût tombé sans feu dans des mots sans amour.

 

 

La luce, mutata

Non ci vediamo più nella stessa luce,
i nostri occhi e le mani non sono più gli stessi.
L’albero è più vicino e più viva la voce delle sorgenti,
i nostri passi risuonano più profondi, fra i morti.

Dio che non sei, posa la tua mano sulla nostra spalla,
abbozza il nostro corpo col peso del tuo ritorno,
completa l’unione delle nostre anime con gli astri,
i boschi, le grida degli uccelli, le ombre e i giorni.

Rinuncia te in noi, come si lacera un frutto,
cancella noi in te. Rivelaci
il senso misterioso di tutto ciò che è semplice
e, senza fuoco, seme caduto in parole senza amore.

 

da Pierre écrite, 1965, in  Bonnefoy – L’opera Poetica, collana “ I Meridiani”, Mondadori, 2010, a cura di Fabio Scotto, trad.ne  di Diana Grange Fiori e Fabio Scotto

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1 Comment

  • E’ un linguaggio duro, post morte di Dio o almeno così mi arriva, un’orazione forse sulla sua tomba da parte dell’unico autorizzato a farlo. Questo ruolo sacerdotale è dato al poeta da ciò che avverte, profondo nel suo animo, in solitudine:

    Non ci vediamo più nella stessa luce

    Dove all’ intimità della comunione è subentrato il niente e la luce che lo faceva presente ha preso solo il suo significato di onde e corpuscoli ma comunque materialità come è diventato tutto ciò che prima era animato da un fondo di sacralità: gli occhi, le mani e ciò che rappresentano: l’uomo. Senza nessun trionfo si è sprofondati in una dimensione di vita vegetale, come se riacquistando la verginità delle radici e delle fonti si accettasse anche di far parte del regno dei morti. Forza della contraddizione dunque o se si vuole della tragedia che accompagna il nostro vivere.
    È al grande spirito assente dunque che ci si rivolge, come ad un totem innalzato davanti a noi per tirarne fuori una positività a cui non si ha diritto ma verso la quale ci conduce inesorabilmente il senso di colpa che ci lacera.
    E’ dunque questo che leggo nei versi successivi: il senso assoluto della precarietà umana espresso dal fatto che il progetto lanciato alla conquista del mondo adesso ha le gambe rotte. Un vuoto incolmabile lo collega agli astri come al resto della natura. Non è la resurrezione di quel dio che s’invoca bensì che la sua mancanza si trasformi in positivo, come a voler creare, questa volta noi, dal nulla.
    Non è questa creatività in fondo l’evidenza estrema che abbiamo definito incompatibile con Dio?
    Che la si metta coscientemente alla prova, dunque come risorsa suprema e disperata a completare l’opera iniziata dai padri, persi nel tenere a freno la paura con simulacri della propria mente che chiamava Dio.
    Ma è l’impotenza a rivelarsi evidente.
    Impotenza nell’estirpare le radici profonde di dio in noi fino a chiedergli di tagliare lui stesso le nostri radici in lui.

    Rinuncia te in noi, come si lacera un frutto,

    Parole che sembrano incomprensibili ma che acquistano un senso se si immagina che in quel dio si capovolgevano come in uno specchio le nostre imperfezioni, esigendo a fondamento della sua perfezione assoluta l’ esistenza.
    Se come uomini però siamo stati capaci di innalzare un totem al posto di dio, chiediamo che sia il grande spirito con cui adesso ci identifichiamo a sfoderare le stesse armi formidabili che ci legavano a lui: rinuncia e rivelazione.
    Sopraggiunge così lo smarrimento di fronte alla rivelazione di un pensiero incline alla discordia, incapace di spiegare il mistero delle cose semplici (la vita stessa nella sua evidenza, per esempio).
    Ecco, dunque, proprio adesso si capisce la preghiera al dio che non c’è

    Dio che non sei, posa la tua mano sulla nostra spalla,
    abbozza il nostro corpo col peso del tuo ritorno,

    ce ne sarebbe bisogno davvero, per ridare peso a quest’uomo senza importanza alcuna
    e comunque resta il mistero del senso da dare alle parole nel verso finale:

    e, senza fuoco, seme caduto in parole senza amore.

    È come trovarsi in un regno e non sentirsi protetto dalle sue leggi. Penso alle parole del poeta, così cariche di passione e semplicità, che cadono tra quelle della ragione fredda (del calcolo che domina il nostro mondo) lasciando un tributo di fuoco agli spazi attraversati e solo indifferenza sulla terra. Ma è solo un’impressione del tutto personale, chiaramente, di un lettore incline a identificare poesia e contraddizione.
    Ciao franco

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