Lilith (2015) / 4 frammenti di Davide Nota

I.

Oh Lilith, oh Eva. Contempleremo i morti? Lei scrive “BLOOD FOR SONGS” con marmellata di fragole sulla tovaglia di un piccolo bar. Torna a casa, alza lo schermo, la chat è ancora attiva. Un uomo sui quaranta scrive: “fai il 4 cn la mano”. Lei digita “INSANE FOR THE DESTINATION”. Poi mostra il dito medio e compie la verifica richiesta. Ho sognato il mio piede mutare in tante piccole farfalle, molte ali leggere, era il mio corpo che evaporava ma chi ero se non ero più, chi mi guardava? Il segreto è scrivere risponde la voce solo lettere ad un amico fedele. Ma sono tutti diventati gli altri, alla ricerca di una posizione. Fratello dʼaltro secolo, il tuo nome è composto anche dalla mia voce. Apprendo segnali lungo il percorso dove non la scissione ma lʼebbrezza degli alberi si espande senza esitazione non dimentica il passaggio un cerchio dentro lʼaltro un anello infinito mentre nel cielo fiorito esplodono le profezie stellari. Ma sono tutti diventati gli altri, alla ricerca di una posizione. Vogliono credersi salvi, per giudicare, alla maniera dei padri.
Quando la natura cominciò a mutare alcune pietre scivolarono nellʼacqua, poi si fecero serpenti e tu non eri ancora nata anima grande ma qualcosa doveva pur accadere perché questo filo dʼerba fosse posto tra le pagine secche del mio diario.
Così avvenne che una piccola foglia trascinata dal torrente mutò in rettile e poi prese fuoco, perché il poema della gravità terrestre non altro dice che questo: metamorfosi ed amore.
Lei scrive “attendimi per una sigaretta davanti allʼedicola tabacchi in via gorizia 6 va bene?”. Qui comincia lʼavvento.
“Questo è per te”, mi dice (ti dice). Oh iniziata dai lunghi capelli neri, con una tunica rossa dal colore del legno che brucia. Dopo lʼimmagine conduci questo cieco nel mistero della tua grotta, tra i cuori verdi dʼedera e una gola dalle acque laccata. Ma persino uno smartphone ha la sua anima di faggi e un monastero risalente al secolo quattordicesimo. E lʼarco naturale fu così varcato, perché il miracolo della destinazione fosse compiuto.
Dopo lʼamplesso dico (dici): “Oh donna dai capelli di piccolo cane che dorme, i tuoi occhi nascondono unʼavventura.”. Lʼha solo pensato? Lei risponde cantando.
Un alveare di nylon, è una finestra, è un quadro marchigiano che attraversano lunghi capelli di luce di vento di vetro di tempesta è un temporale il mondo si sporge tra le fronde annerite e grandina ma siamo ancora vivi penso ho pensato in qualche parte del corpo ho deposto il mio passato dove la campagna insorge dalle crepe di un ponte abbandonato perché un gesto minuzioso era da compiere per trattenere la catastrofe fino a domani.
Dobbiamo riportare in vita i morti, le dico.
Addio. Addio. Vi lascio dove vʼho incontrati.

II.

Nel balcone della mia stanza: un leone, un coccodrillo enorme. Cristo a terra morente, due centurioni lo trafiggono con una croce. Io sul letto con alcuni amici, un pomeriggio vago. Parlo con una ragazza, mi cadono lucertole dai capelli.

VI.

È bello eiaculare in ogni modo e sempre eternamente leccare ed essere leccati sfondare muri innervati oppure essere sfondati in uno stato di grazia permanente, privi di personalità. Ma questi ragazzi ne facevano una grammatica. Il loro compiacimento mi nauseava. Pareva non soffrissero di nessuna esperienza. Solamente si testavano in quella omologazione di cui dovevano aver sentito parlare da qualche parte. Essa passava per la dimostrazione di avercela fatta. E avercela fatta voleva dire sghignazzare.
Vicino alla fontana una carcassa di micio è un ripieno di vermi di pistilli bianchi dalla testa rosa di cerino un fico spaccato in filamenti umidi ondosi mossi dal vento di foglie di falde di spermatozoi allʼassalto di un ovulo di sangue era un animale simpatico, una creatura adibita allʼincontro, adesso è qualcosa di nuovo, adesso è altro, eppure ha ancora un dentino, un piccolo dente bianco e aguzzo che si spinge dal musetto intatto rialzato. Leggevo Nietzsche, intanto, con una certa venerazione, nella misura in cui amavo riconoscermi in tutto ciò che egli definiva il male. Oh sì, viva gli storpi! Viva il cattivo gusto! Viva Gesù Cristo, il principe del caos!
In un paese assolato e senza denaro, commerciando qualunque cosa allʼombra di un albero, si può pur sempre filosofare fino alla morte dice un giovane angelo stringendo il suo frutto non più proibito in mano.

VIII.

Non vi era più arte possibile al di fuori di unʼesperienza fisica estrema. Unʼavventura tangibile. Il resto era ogni cosa, ovunque. Parole… Ricordami chi sono. Ti prego, picchiami un poʼ. Oh maionese, maionese, sopra dorate patatine croccanti. Ed un cheesburger di carni scelte, con del bacon e molto formaggio. Fiume, fiume, in un bosco di faggi. E una cascata dove nasce la dea ogni estate, quando le fate ubriache spompinano il viandante. Lo schermo dellʼI-phone è un affresco sudato. Threesome. Amateur. Shared wife. La camera è nascosta in una libreria tra i libri di poesia e qualche indumento. Lui li osserva dallʼalto, su un soppalco in penombra. Segue la performance chiedendosi se è davvero reale. Inquadra da una camera a infrarossi lʼesibizione come non esistendo. I corpi sono verdi come le vittime di un raid militare. Dopo discende, offre un caffè al ragazzo. Scherza con lei, le sussurra qualcosa allʼorecchio. Il ragazzo chiede lo zucchero. Gira.
La nostra non è unʼepoca di promesse ma di pietre mutanti in cadaveri mai nati in un piccolo bosco che brucia mi addormento con la ventola surriscaldata del portatile sullʼesofago è un tombino rialzato fumigante in una strada oscura di Manhattan tra coccodrilli e tartarughe molto abili nelle arti marziali, alla corte di un topo vendicatore, divoratrici di tranci di pizza margherita consegnata ogni sera alla stessa ora da un ragazzo cinese di ventʼanni con un ramo di ciliegio tatuato sullʼavambraccio destro per coprire unʼabrasione. Unʼesplosione che scardina le nostre deliranti certezze. Pietose digressioni preregistrate dentro un cranio blindato da un esercito invasore, questo è un posto lei dice dove crescono ancora i fiori e una principessa nordica si ammala di tristezza sui binari di una piccola stazione dove cigola eternamente il regionale da Avezzano a Pescara. Unʼampolla di vetro. Essa si frantuma come unʼampolla. Era stata forgiata da mani sapienti. Era stata soffiata dai venti dellʼEst… Ora giace sulla banchina come un ubriaco moldavo. Una ragazza fotografa con lo smartphone un rettangolo di mare ad alta definizione. Il display si adagia sullʼangolo smussato del finestrino come un modulo del multischermo di una all news.
Dobbiamo ambire al magico io dico senza essere ripugnati dalle trasmutazioni in orgia dalla dissolvenza delle identità nella crudeltà di un carnefice immaginario avrei bisogno dico che tu mi scopi come se fossi un uomo.
“Va bene” – mi risponde, amorevolmente.
Un giorno ce ne andremo su di unʼastronave straniera alla ricerca di un pianeta gemello dove tradurre lʼintera creazione. Noè venturo, mio unico amico, saremo mai felici?
“E perché mai dovremmo esserlo?”.
Si incontrano alle venti e zero quattro sotto la Torre degli Asinelli. Quando lei arriva ha ancora addosso gli abiti da cameriera.
“Ma sei davvero una studentessa?”.
“Certo che lo sono.”.
“Da quanto tempo incontri?”.
“E tu, da quanto?”.
“Lo fai solo per soldi?”.
Sorrise.
“Indossa, ti prego, delle calze autoreggenti. Cerchiamo di essere, tutti e due, entrambi.”.

(già su Davide Nota )

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