Il pensiero dell’occhio. Note su “letter of blank” di Shin Tanabe

Copertina-con-dedica“letter of blank”, di Shin Tanabe, è un raffinatissimo libretto in cui il medesimo carattere grafico viene ripetuto venti volte ogni riga (anche le righe sono venti) per diciotto pagine.

Ogni pagina differisce dalle altre perché quattro ideogrammi mancano, disegnando un piccolo quadrato bianco in posizione sempre diversa: tale quadrato, assumendo la fisionomia di un grande rettangolo, occupa l’intera ultima, diciannovesima, pagina (nella quale i caratteri grafici tracciano una sorta di cornice).

Sono inoltre presenti, forse titoli o citazioni, brevi scritti in lingua giapponese posti a precedere, ciascuno in un proprio spazio, ogni serie d’ideogrammi.

Il piccolo quadrato bianco, che diviene alla fine, per così dire, enorme (mutandosi in un’altra figura geometrica) appare protagonista di un’opera che attira il lettore non allo scopo d’ipnotizzarlo, bensì a quello d’instaurare un rapporto.

Non ci si perde in queste sequenze di segni tutti uguali, al contrario, si va subito alla ricerca di quel buco quadrangolare, lo si trova, lo si confronta con la posizione assunta in precedenza e in seguito.

Non conosco il giapponese e, perciò, il mio approccio a “letter of blank” è esclusivamente visivo: un approccio che, devo dire, promuove un dialogo capace di farsi via via sempre più coinvolgente.

L’uguale a se stesso, ripetuto molte volte, non è impenetrabile, è, piuttosto, un invito a osservare, a scorgere nell’identico il dissimile.

Se non esistesse l’identico, non esisterebbe il dissimile?

Sì e proprio nel suddetto assunto consiste la proposta di Shin Tanabe.

Quale proposta?

Quella della sorpresa nella serialità.

In una sequenza a prima vista uniforme, un piccolo particolare mette in movimento un’attività di lettura e di ricerca: ci si accorge, così, di come una piccola differenza possa modificare il senso di un’intera pagina.

Un susseguirsi di segni identici, interrotto e subito ripreso, è già un linguaggio poiché possiede un elemento di variazione tale da non rendere ogni pagina un’inutile replica.

Inutile?

Quale sarebbe stato il nostro atteggiamento se l’autore avesse presentato pagine tutte uguali?

Siffatto interrogativo ci pone di fronte a noi stessi per via di un testo immaginato differente da quello a nostra disposizione: siamo, insomma, anche una scrittura non concreta ma possibile.

Il diverso e l’uguale si chiamano a vicenda, si riflettono l’uno nell’altro o, meglio, s’integrano l’un l’altro: questo, a mio avviso, insegna quel piccolo quadrangolo bianco che finisce per assumere una grande dimensione senza occupare, tuttavia, l’intero spazio disponibile (non va dimenticata la cornice).

“letter of blank”, davvero, è un viaggio dell’occhio e assieme del pensiero.

Marco Furia
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