Quattro pezzi per ANTEREM: Alejandra Pizarnik, Anne-Marie Albiach, Emily Dickinson, Enrica Salvaneschi

[Venerdì 15 gennaio 2016 presso la Stanza della Poesia di Genova, è stato presentato l’ultimo numero della storica rivista di Anterem che compie 40 anni. Qui in basso, quattro interventi di Marco Furia presentati assieme all’ultimo numero della rivista. (lb)]

Anterem n. 91 - CopertinaAlejandra Pizarnik – Da “Estrazione della pietra della follia”

Una sorta di raffinato gioco pare essere implicito in una poesia, qual è quella di Alejandra Pizarnik, in cui l’approccio linguistico, nel mostrarsi semplice, sembra rimandare a qualcosa di strategicamente articolato.

Articolato in maniera sobria, certo, poiché l’espressione è piana, leggibile, intesa a proporre a chi ascolta una ben organizzata serie di strade e sentieri del tutto percorribile eppure partecipe di un’avvertibile complessità.

Complesso non significa, necessariamente, complicato, poiché la semplicità, talvolta, pur rimanendo tale, presenta molteplici fisionomie.

Alejandra è ben conscia di come gli schemi idiomatici, anche quando i loro significati appaiono molto dissimili, non siano mai del tutto separati.

Non lo sono, in particolare, in “Estrazione della pietra della follia”, ossia nell’àmbito di un linguaggio che, frutto del desiderio di dire davvero, tende a superare certi confini per aprire gli ampi spazi di una parola capace di accettare fino in fondo il suo destino.

La versificazione della nostra poetessa non conosce frontiere, poiché è una proposta aperta ed errante che ognuno di noi può accogliere, continuando, a sua volta, lungo il cammino.

Siamo al cospetto di una versificazione evocativa e, nello stesso tempo, esatta, senza dubbio molto originale.

Un sogno, alla fine, si avvera e, avverandosi, mostra di non essere un sogno, di non esserlo stato mai.

Gli immensi territori che si aprono non devono intimorire, poiché in essi si può sostare, abitare, percorrere innumerevoli itinerari.

L’erranza del dire di Alejandra, insomma, è concreta: i versi che leggiamo su Anterem non si limitano a mostrare una via, la percorrono già.

A toni descrittivi, in cui la sobrietà della parola è ricca di poetica eleganza (cito, ad esempio: “Dietro un muro bianco le varietà dell’arcobaleno. La bambola nella sua gabbia sta annunciando l’autunno. È il risveglio delle offerte. Un giardino appena creato, un pianto oltre la musica”), a toni descrittivi, dicevo, si alternano brevi frammenti che dell’aforisma presentano la forma ma non l’intento.

Così

“E soprattutto osservare con innocenza. Come se non stesse accadendo nulla, il che è vero”

è una pronuncia che non possiede il carattere di fulmineo giudizio, proprio appunto dell’aforisma, ma rappresenta uno stato di fatto che all’autrice pare evidente, naturale.

Talvolta una visionarietà di stampo quasi surrealista balena improvvisamente:

“Copri il mio ricordo del tuo viso con la maschera di ciò che sarai e spaventa la bambina che sei stata”.

Ma è la confessione di un’intima inquietudine il gesto poetico che, a mio parere, conferisce profondo senso a un’intensa erranza linguistica che non può trovare fine.

Confessione che emerge, ad esempio, nei seguenti passaggi:

“Eppure il silenzio è certo. Per questo scrivo. Sono sola e scrivo. No, non sono sola. C’è qualcuno che trema”

e

“La mia caduta senza fine verso la mia caduta senza fine dove nessuno mi attese poiché quando osservai chi mi attendeva non vidi altro che me stessa”.

Confessione o, meglio, consapevole riconoscimento di sé ottenuto ponendo in essere una versificazione che considera l’altrove luogo prediletto e il linguaggio non mero mezzo, ma quello stesso altrove in continuo divenire.

Una vera erranza, insomma.

***

Anne-Marie Albiach – “Flammigère”

L’intensa atmosfera del poemetto “Flammigère” di Anne-Marie Albiach, con il suo proporre un raffinato stile inedito, è, a ben vedere, già di per sé un caso d’erranza.

La poetessa, per così dire, continua con risolutezza, proseguendo per via d’intensi e specifici impulsi: la sua scrittura procede per illuminazioni verbali tali da rendere vivida una materia che non è più soltanto oggetto del discorso, poiché non è rigidamente distinta dalle parole.

In questa maniera, una rarefatta energia idiomatica si dispiega pienamente, si libera e, anziché risolversi in schematici sbocchi, si apre a dimensioni ampie e disponibili che chiamano in causa.

Anne-Marie, lungi dal ridurre chi ascolta a mero fruitore, lo coinvolge, gli chiede di non restare inerte sulla soglia.

Anche il pubblico, insomma, è invitato a errare, a fare esperienza di una libertà che non esclude nessuno a priori.

La diversità della parola poetica è frutto della sua erranza?

Si potrebbe, invertendo i termini, chiedersi il contrario.

A mio avviso, la parola poetica di Anne-Marie non è diversa perché errante e nemmeno è errante perché diversa, piuttosto è differente nel suo assiduo insistere in un esprimersi che trova nell’erranza una delle sue ragioni d’essere: in “Flammigère”, insomma, diversità ed erranza sono inseparabili sorelle.

La poetessa non sogna, bensì dice e il suo dire sposta di continuo i confini di un idioma che si rivolge alle origini, tende a diventare energia e restituisce, così, a chi ascolta la consapevolezza delle proprie attitudini comunicative, indicando la via di una pienezza espressiva in grado di suggerire opportuni atteggiamenti.

Ci accorgiamo, allora, leggendo gli eleganti e intensi versi pubblicati su “Anterem”, di come una sorta di consapevole adeguatezza costituisca ulteriore aspetto di un’erranza suscettibile d’essere arricchita di lineamenti fisionomici.

La fisionomia, notava un celebre filosofo viennese, non è distinguibile dal volto che la esprime: tale assunto vale anche per l’erranza poetica di Anne-Marie Albiach.

In una versificazione non certo priva d’inquietudine (come dimostra la pronuncia:

“bisogna aver timore
bisogna aver timore
l’obbiettivo del ritorno inesorabile ci possiede”),

non mancano riferimenti al mondo naturale rappresentato come spontaneamente tranquillo:

“lentezza delle piante
meraviglia delle molecole”

dice la poetessa che, più avanti, sembra perfino anelare a un ritorno alla terra e alla vegetazione

“Spirito delle piante
fin dai millenni la terra torna a noi
e noi andiamo a lei
nello spirito delle piante”.

Ritorno che, subito dopo, non dimentica l’àmbito linguistico, proponendo un verso che definirei geologico e, nello stesso tempo, antropologico:

“cristallizzazione terrosa delle parole”.

Forse rivolgersi al mondo naturale costituisce rimedio capace di affievolire l’“inesorabile” inquietudine?

Forse la “cristallizzazione terrosa” del linguaggio è effetto di tale propensione?

Non si tratta, a mio avviso, in questo caso, di una sorta di monito o di scoperta, bensì di lucida presa d’atto: se siamo sulla Terra, siamo già anche terra, nel bene e nel male.

L’errare, insomma, non esclude il constatare.

***

Emily Dickinson – 1071

Con otto lucidi versi, Emily Dickinson definisce il rapporto tra oggetto e percezione.

La brevità del componimento mi permette di citarlo integralmente:

“La percezione di un oggetto costa
né più né meno che la sua perdita –
La percezione in se stessa è un guadagno
corrispondente al suo prezzo –
L’oggetto in assoluto non è nulla –
La percezione lo avvalora
e poi censura una perfezione
che a sì grande distanza è situata –”.

L’intera poesia, intensa ed elegante, ha come cardine, a mio avviso, la sequenza:

“L’oggetto in assoluto non è nulla –
la percezione lo avvalora”.

L’oggetto, in sé, è privo di valore, anzi, si potrebbe aggiungere, nemmeno esisterebbe, se nessuno lo prendesse in considerazione.

Il mondo tace e la sua mancanza di parola non è neppure enigmatica, è indifferente: ciò che non parla, tuttavia, può assumere significato per noi a condizione di essere reso apprezzabile.

Il mondo, insomma, esiste poiché è il nostro mondo.

Per la poetessa, siffatta constatazione non richiede nulla più di una concisa pronuncia: la poesia, qui, è perfettamente compiuta proprio perché esprime un pensiero che sembra manifestarsi, fin dall’origine, nello stile dei versi citati.

La forma poetica implica, ovviamente, un’attività costruttiva (altrimenti consisterebbe in una silente pagina bianca), nondimeno, in questo caso, ogni mediazione pare esclusa da un gesto poetico esplicito e naturale.

Questa poesia non appare mai artificiosa: il pensiero dell’autrice, per così dire, non si distingue dal linguaggio da lei proposto e, perciò, può essere accolto e compreso dal lettore senza difficoltà.

A ben vedere, anche il componimento “1071” è “oggetto” dell’umana percezione e per esso, dunque, vale l’assunto della poetessa: non siamo al cospetto, ovviamente, dello sterile gioco di un sorprendente riflesso allucinatorio, bensì ci troviamo di fronte a una versificazione intesa a farci prendere atto di certe condizioni del nostro stare al mondo.

Ciò che esiste in sé, “in assoluto”, “non è nulla” (poesia compresa).

Non a caso, la “perfezione”, di cui al penultimo verso, si trova a così “grande distanza” da essere ritenuta non apprezzabile, poiché priva di aderenza alla vita concreta.

Con quest’ultima pronuncia, Dickinson, dopo aver espresso la sua opinione, confuta eventuali opposti pareri: per lei l’assoluto è pur in qualche modo pensabile, ma la sua astrattezza lo condanna a un’inappellabile “censura”.

Il tutto in poche esatte parole: la propensione dichiarativa, nella versificazione in esame, non diminuisce la valenza artistica della lingua poetica, al contrario la esalta.

La esalta rendendola nel medesimo tempo disponibile all’altrui immediata comprensione, mostrando come la vera poesia sia un invito ad aprirsi per procedere ulteriormente, non certo a chiudersi.

Da qui, il senso di distinta familiarità che pervade l’intero componimento, il cui dire, mai ambiguo, non rinuncia, pur nel suo originale approccio, al rispettoso colloquio: poco propensa al distacco, Emily si rivolge al lettore con peculiare confidenza, raggiungendo, alla fine, il felice esito di coinvolgerlo.

E proprio nello stimolare la riflessione di chi legge, i versi appena commentati ottengono risultati di grande rilievo.

Risultati non gratuiti, se è vero che un pensiero privo di ambiguità e ipocrisia davvero “costa”, poiché implica un impegno di natura etica.

“1071” è dunque un componimento ricco d’intima valenza morale?

Sì, senza dubbio.

***

Enrica Salvaneschi – “Lo sguardo” e “Gorgia”

“Lo sguardo” e “Gorgia”, di Enrica Salvaneschi, con il loro articolato e ben scandito ritmo poetico, rendono testimonianza di un’interiorità vissuta intensamente e scritta, a mio avviso, quasi alla ricerca di uno spazio e di un tempo in cui collocarsi.

Ora, viene da chiedersi, esistono coordinate spazio – temporali riferibili agli stati interni?

Sì, in senso figurato, pare giusto rispondere.

Siffatta risposta, però, implica un ulteriore quesito: esistono spazio e tempo virtuali?

Certamente, sentimenti ed emozioni, nel loro errante modificarsi, non conoscono aree e perimetri e il loro tempo non si misura, almeno in senso stretto, in ore e minuti, tuttavia il fatto che diciamo di passare da una sensazione a un’altra, da un’immagine mentale a un’altra, indica che certi modelli trovano applicazione anche riguardo alla nostra intimità.

Ci accorgiamo, così, di come spazio e tempo interiori siano figurati ma anche reali, ossia di come i concetti d’interno e di esterno siano distinti ma, talvolta, non rigidamente separati.

La nostra poetessa, conscia di ciò, appronta un calibrato idioma adatto a riferire di una contingenza linguistico – esistenziale che tutti accomuna: Enrica, insomma, vive assieme agli altri nella sua originale, accuratissima, lingua.

Ho detto “assieme agli altri” perché la sua parola trae origine da un intenso desiderio di comunicare per via di espressioni il più possibile soddisfacenti, ben diverse da quelle comunemente in uso.

Consapevole della necessità del suo elaborato e vivido idioma, la poetessa parla comunque, risoluta nell’impegnarsi in quell’ardua attività che promuove un rapporto verbale più vivo.

Il gesto poetico si riconosce e consente di riconoscersi, non si ferma in se stesso, procede, supera le frontiere del dire logico e mostra i vasti territori aperti da un’energia espressiva che, nella ricchezza delle sue forme, risulta, alla fine, disponibile.

Nella vera poesia, insomma, tutti possono trovare posto.

Il tenace e duro lavoro sull’idioma ha prodotto i suoi effetti e la parola è, ora, semplice e, nello stesso tempo, complessa, vero e proprio nucleo di adeguata espressione.

Siamo al mondo, viviamo, anche con la poesia: questo insegna Enrica.

E il suo insegnamento, lungi dal voler essere un precetto, un’imposizione, è un dire nel suo stesso svilupparsi, un mostrare i rapporti tra energia originaria e vocabolo.

L’erranza si presenta talvolta in forme precise, quasi paesaggistiche:

“questa valle di lacrime mal terse: è il pianto
e l’incanto delle cose,
dove, nel giorno della vita giunta a sera,
cade ogni primavera”,

altre volte, in immagini gaie, fanciullesche:

“e nel celeste allegri ed allietanti,
quali soffici ciottoli di nuvola”.

Non mancano, poi, vere e proprie dichiarazioni in cui il riconoscersi come poetessa è soprattutto prendere atto della propria specifica condizione umana:

“Imprevisto è il regalo, e imprevedibile,
della semplice e multipla eresia:
smania di vivere dentro lo scrivere
di scrivere oltre il vivere: ironia”.

Il regalo imprevisto dell’eresia dello scrivere è forse, per Enrica Salvaneschi, l’inattesa consapevolezza dell’infinita erranza del dire poetico?

Sono propenso a pensarlo.

Quanto alla parola “ironia”, mi pare che essa, lungi dallo smorzare il tono serio della pronuncia, costituisca il sintomo verbale di una riflessione svolta prendendo le opportune distanze: per riconoscersi occorre guardarsi e guardarsi significa riuscire a vedersi, nello stesso tempo, come se stessi e come altri, ossia uguali eppure diversi.

Impresa ardua ma non impossibile.

 

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Marco Furia
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