La moltepLice semplicità di uno sguardo – Postfazione a “Museo Bianco” Opera Prima 2015

Leggere queste poesie di Stefano Della Tommasina produce un effetto di piacevole e inquietante polifonia monovocalica, propria dell’unicità del suo autore. Potrebbe sembrare una banalità detta così, ma noi crediamo che non lo sia, perché riuscire a far sentire più vocalità in un’unica voce è segno di grande capacità nell’organizzare i sensi e le direzioni formali, nel modo coerentemente difforme (che è un’apparente ma prolifica contraddizione insita nella poesia cosciente dei suoi mezzi) con la singola sostanza significante che la scrittura attua e la lettura percepisce. E la consapevolezza di quanto la scrittura, se pensata e praticata superficialmente, sia una materia che può disgregarsi e perdere sostanza, è resa pienamente evidente quando nella poesia intitolata a Kafka l’autore riferisce di essere “sempre più indeciso / tra il volo e la tortura della forma”. Si dirà che queste parole non sono ascrivibili direttamente alla poetica dell’autore, ma a un altro che questa poesia prende a soggetto. Ma sarebbe una lettura ingenua quella che ritiene oggetto del dire poetico esclusivamente ciò di cui si parla e non anche chi parla. Qualcuno ha detto: quando il dito indica la luna, lo stolto guarda il dito. Noi pensiamo che sia stolto anche chi guarda solo la luna. Un percorso esiste a partire da dove inizia (e spesso non si sa), seguendo dove porta (con tutte le sue diramazioni e circonvoluzioni) e avendo presente l’interconnessione con chi (uno o tanti indefiniti) lo ha tracciato. E questo senza dogmatismi oggettivi o soggettivi.

E, di tutto questo, Della Tommasina e la sua poesia hanno piena coscienza, se riescono a contenere in un’unica opera, e in modo non claudicante, diversità di percezioni e andamenti che si mostrano, all’esterno, molto diversi fra loro, ma che, nel loro nucleo di significatività centrale, non sono. Infatti un buon gruppo di testi è ispirato (molto liberamente, precisa l’autore) a personaggi di romanzi; altri a famosi autori letterari; altri a musiche e musicisti; altri a momenti di vita personale; altre sono poesie che trovano in sé la diffusione del loro senso. Potrebbe apparire, dunque, un libro sostenuto da presupposti eterodiretti, dove la selezione dei temi e la loro combinazione rimangono distinti, senza amalgamarsi, fin dall’origine, nella coerenza sostanziale (piena di distorsioni, grumi, anamorfosi e metamorfosi) propria della scrittura e del suono che si fa in poesia. Ma questo è un abbaglio, perché se si legge con il dovuto sguardo si comprende come, ogni poesia di queste pagine, non tenda ad argomentare o descrivere il soggetto che il titolo esplica, ma, nell’indefinita fluttuazione della scrittura, lascia sprigionare parole inedite che ricostruiscono i significati sottostanti: che sono i segni di una poetica di corrispondenze intuitive, emozionali e pensanti. Arrivando perfino al limite sensoriale della perdita del suono, con uno sforzo fisico tale che i “polmoni perdono le rime del respiro”.

Ma è una perdita salutare per la poesia: liberare la voce da una lingua stanca, per ricominciare con un dire che si attacca alla natura iniziale delle cose, per incamminarsi là dove si arriva a “capire gli alberi”. E ancora e più a comprendere che il linguaggio poetico ha un’andatura che non rinuncia mai a contrastare ciò che appare conforme e desolato nella “tristezza del pensiero”. Una condizione che svuoterebbe il nostro essere, il nostro ricordare, ma che, grazie anche a una sola imprecisata immagine o un suono illeggibile o un desiderio provvisorio, nel poco e con poco riesce nell’impresa di folgorare il vuoto.

È così che la fissità del “museo” (come concetto e come struttura contenente) si ribalta e prende vita. Barcollando nella percezione del presente; iniziando con il fiato corto che hanno certe fatiche che nascono per necessità sconosciuta, le sensazioni si attaccano al nulla e nonostante questo “trasformano le cose”. Perché anche le parole, lentamente, crescono: e non sono più parole e voci, ma sono coloro che prendono coscienza che la poesia è vedere oltre, è un’alternativa alle “figure come calchi”, alle “cose che simulano”; sono coloro che finalmente “vivono in piedi, altissimi” anche “senza alfabeto”.

Ma cos’è questa “mancanza d’alfabeto” se non un ritorno a una semplicità non forzata, né intellettuale né semplicistica, ma profondamente intellettiva, lì dove si inserisce quel contrasto senza scontro, che già abbiamo trovato, tra il volo e la tortura della forma. Perché la poesia nasce in assoluta libertà dentro l’immaginazione, con pensosità meditate e contemplazioni, ma la scrittura e la voce poi la fanno materialmente esistere in architetture e articolazioni concrete. Così nel poeta si accende un dialogo – a volte pacato a volte rissoso – che procede sempre e costantemente verso; e non c’è un traguardo lineare, bensì un più proficuo vagare, anche incespicando, ma sempre, ci dice Della Tommasina,”tenendosi per mano”. E così come in un museo le opere, diverse fra loro per sostanza, materia, struttura, trovano un loro percorso conoscitivo, un loro stare in cui hanno modo di rispecchiarsi, queste poesie, nel modo in cui sono organizzate, accrescono vicendevolmente il loro valore di senso.

Ma c’è un punto, più di altri, dove la sostanza emotiva che lega i testi in un poema – di luoghi e tempi distinti, ma contemporaneamente intrecciati e solidali – diventa in una “vivisezione di parole e lampi”, quasi una nuvola di leggerezza malinconica e di nostalgia. Ma non per ciò che non c’è più, né per ciò che non ci sarà, ma per ciò che non c’è, non c’è stato e forse non ci sarà. Tempo e luogo mancanti che però in poesia prendono una loro propria difforme esistenza e vengono percepiti: con tristezza a volte, ma con precisione in ciò che è soltanto “respirare / e dire erba e dire mondo e dire aria / e dire io”. Ma a Stefano Della Tommasina questo non basta. La sua voce scritta vuole precisare, evidenziare, dare conto in modo certo dell’invisibile complessità che sta nella semplicità di una vita che fa esperienza di poesia: e lo fa dove “i pettirossi guardano / senza capire”.

Ma c’è ancora qualcosa in più che si aggiunge: non nelle poesie, ma in una nota che è un esempio quasi di ultrapoesia, per la precisione scientifica e il candore inusitati, con cui rende la spiegazione di un dato interno ai versi. Ecco allora scrivere alla nota relativa alla poesia 29, dopo un’informazione toponomastica relativa a un corso d’acqua: “Epeire e arginorete a volontà allora. Ora è tombato”. La morte dell’acqua, della sua vita lucente e dell’infanzia nella nominazione precisa dei ragni d’acqua che lì vivevano, quasi a voler dire che l’esistenza è dove si nomina e, ancor più quando scompare, deve contenere in sé tutta le precise significazioni che le sono dovute, per avere figura anche in assenza, e infine “per tornare al punto che riunisce le coscienze”.

Giorgio Bonacini
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