Su “Tempo negoziato” di Giusi Drago – ovvero la poesia che si fa argine

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1.

Tempo negoziato è un libro che già dal titolo rivela il campo entro il quale il discorso si anima e prende corpo: il tempo come spazio strappato, «negoziato», di autorealizzazione e di produzione del senso e la negoziazione stessa come intreccio dialettico e discorsivo capace di elaborare la violenza del conflitto in sistema di accordi. Il luogo della negoziazione è anche il luogo dell’appropriazione attraverso la nominazione: vengono individuati  e connessi termini tra loro distanti, incaricati di veicolare un pensiero retrostante (e taciuto) che si manifesta solo attraverso l’enfasi argomentativa, il suo pathos, più che per denotazioni. A chi legge pare di seguire una riflessione veloce e ariosa sull’esistenza nel suo insieme, sul suo destino creaturale e temporale. In tale riflessione i passaggi avvengono per associazione orizzontale mentre la sintassi sorprendentemente tende all’ipotassi. Da una parte dunque l’affastellarsi di immagini, temi e ragioni, dall’altra il configurarsi di quest’accumulo eterogeneo entro cornici che mimano la chiarezza, la geometria o, almeno la sua nostalgia, la sua mancanza.

Si tratta di scrittura di pensiero. In molti sensi: innanzitutto il pensiero in poesia  è anche l’alludere a oggetti specifici proprio nel momento in cui il campo semantico si fa ambiguo  e si potenzia in una sorta di simulazione di ragionamento. Eppure i piani del discorso si accavallano non tanto per gli argomenti quanto per i toni dell’enunciazione che possono apparire improvvisamente quotidiani e desublimanti.

Già nell’incipit del Prologo è presente lo stilema che associa a tema nobile una sprezzatura con valore fatico, una richiesta di coinvolgimento a partire da un abbassamento di tono.

il destino – o come altro chiamate voi la cosa –

In questo verso è già evidente lo stilema che comprende in un colpo solo il tema alto, tragico, del destino, la disponibilità a cedere all’interlocutore il regime retorico e la quotidianità entro cui il discorso va a radicarsi.

In Ombre di bestia:

tutti sono nervosi e anch’io ho fretta
(come sempre prima di un temporale) 

stabilità mancata
nelle forme che il mondo assume 

siamo a corto di lumi
(per giunta neanche immuni
da nostalgia)

Qui il violento accostamento tra fretta e nervosismo da una parte e il tema nobile della stabilità delle forme del mondo, fa emergere in modo corale una condizione di inadeguatezza. E’ proprio questa inadeguatezza il senso dell’accostamento che carica di significato la prossimità del temporale e allegoricamente un più generale sconvolgimento.

Nel caso invece di Bestie sempre in salita la condizione umana, secondo antica tradizione, viene allegorizzata per tratti evocando le caratteristiche di un animale all’interno di un bestiario allegorico-gnomico (l’asino, la sciacalla, la pecora, lo sciame, la formica, l’armadillo). In queste allegorie non vi sono riferimenti al quotidiano o all’ordinario e neanche allo specifico zoologico. E’ un pensiero che si sviluppa prendendo l’oggetto a pretesto per la configurazione della soggettività. La soggettività si riempie di senso grazie alla lavorazione a cui sottopone immagini e temi. Mai direttamente. Non c’è nulla di lirico-biografico che possa trasparire da questa poesia che sin dall’inizio si muove all’interno di una riflessione sulla condizione umana. Se predomina l’enfasi raziocinante sui contenuti dell’argomentazione è perché il senso è proprio  la condizione tragica del pensiero alle prese con l’incomprensibile in cui spesso l’umano precipita. Invece di nominarlo col nonsense ( secondo le modalità delle avanguardie storiche e no), questo incomprensibile viene circondato, blandito, nella speranza di ammansirlo.

Ogni poesia di questo libro è un tentativo di relazione: religioso, perché prova a stabilire legame anche laddove è più difficile riconoscerlo. La natura dunque non è romanticamente la patria perduta ma la condizione «franca», senza infingimenti, in cui è ancora più evidente la difficoltà di stabilire relazione.

2.

La poesia di Drago appare come suscitata dall’affiorare di un’immagine o un pensiero che chiedono «lavorazione» e «scrittura»: può essere un paesaggio fluviale che dà l’abbrivio, come nel poemetto Delta Dunarii dove il fiume è interrogato non per il suo fluire ma per il sedimento che lascia, per il suo farsi terra e detrito, traccia e porzione di senso possibile:

estraggono minerali dai monti / e li lasciano in deposito sul fiume, oppure: il fiume non mi trova impreparata, o anche: dilatato o sospeso? il fiume è tempo.

All’origine della poesia vi può anche essere un problema che viene posto e argomentato in presenza di chi ascolta:

in tre modi ha la meglio la paura:
in forma di battito pressante
anche muto o morituro,
in miseria occultata che riesplode
senza far testamento, il terzo modo
ha natura strana, si converte
in ombra da assecondare,
chiede indulgenza, confonde

o anche:

primo argomento in guerra è
la paura, argomento d’amore
la natura, in comune
fra natura e paura
a volte una nota bassa, ripetuta
con insistenza di sangue
con paura nel sangue 

(da Ombra di bestia)

A tal proposito, occorre sottolineare come l’andamento raziocinante mimato si articoli addirittura analiticamente per tesi enumerate. Viene qui mimata un’elencazione di ragioni che in realtà consiste in una successione di immagini. L’argomentazione che viene messa in scena si rivela essere motore per la produzione e per l’organizzazione delle immagini più che la definizione di un concetto.

Si potrebbe dire che fiumi, animali, immagini ridisegnino un’idea di natura. Natura qui è anche la biologizzazione della casa che appare sempre in Ombre di bestia:

Una casa vecchia proprio dentro,
o dietro, quella nuova

Le vene biologizzano, appunto, ciò che simbolicamente rappresenta l’io junghiano: la casa come progetto di integrazione si scopre , al contrario, come il luogo della non identificazione, ma piuttosto dello sdoppiamento. Si tratta della difficoltà di costruire un proprio percorso che resta come incastrato nella archeologia parentale. Questa consapevolezza avviene per immagini in una sorta di «fantasia produttrice» che pensa per immagini:

comunque ne ricalca
proporzioni e rientranze,
angolature e altezze
e quando cala notte non si sa
in quale casa sono accese le luci
che attraversano le vene
di muri antichi e più recenti

Quest’ambiguità della casa è quella costitutiva dell’io che resta incomprensibile se dissociato dalla linea temporale entro cui si è andato costruendo, mattone dopo mattone. Ma c’è coesistenza di linee temporali e compenetrazione. Un po’ come nell’architettura paleocristiana che prevede la costruzione del tempio di nuovo culto proprio sulle fondamenta del vecchio culto. E’ un modo per utilizzare i materiali e per inglobare il passato facendolo sparire. Questa poesia indica il momento in cui l’inglobamento non riesce perché si inceppa il processo di integrazione: la realizzazione del sé è la posta in gioco ed è il compito che dura quanto dura la vita stessa. E’ la durata che occorre all’edificazione della propria casa. Tale opus ha la durata della vita stessa e termina con essa.

3.

Nel contesto di queste considerazioni sulla poesia di Tempo negoziato, ci si sofferma ora sul poemetto Delta Dunârii, per uno sguardo un po’ più ravvicinato.

Una volta azzerata la metropoli non c’è la natura e forse neanche la storia: quel che appare è una situazione che sempre nuova si ripete, come quella del fiume. In questa poesia la civiltà e l’industria non sono negate ma semplicemente poste sullo sfondo, ridotte a pochi elementi. Quello che è invece in primo piano è l’attualità di un fiume e l’attualità di un occhio che guarda e che guardando ragiona. Un modo raziocinante s’impadronisce della descrizione ponendo in connessione aspetti distanti e di varia natura.

Le azioni umane che vengono ordinariamente compiute intorno alla realtà del fiume si dispiegano nella stessa inevitabile oggettività di tutto l’accadere animale e minerale.

Estraggono minerali dai monti
e li lasciano in deposito sul fiume,
isole di polvere rossa incustodita
e pochi uccelli pigri.

Questa oggettività fa sì che ogni elemento sia al suo posto e che questo posto si riveli anche un ordine, un piccolo cosmo di cui è facile riconoscere il senso. Eppure al di là di questo senso ordinario, inscritto nelle opere dell’uomo nel suo rapporto con la natura, fa capolino un altro piano di senso, non riassumibile né veramente afferrabile ma intorno a cui si può dire, poeticamente se ne può sapere.

sul delta chi possiede pigre ali
le dispiega, chi è ossido di ferro si riposa,
chi è occhio come me
prende nota dei cespugli che si allungano
sull’acqua – quante ombre nei loro nascondigli
quanti rami spezzati a riva. E un depuratore spento

Questo sapere si annuncia come una ricognizione che ha come oggetto i dettagli, la vita silenziosa che si sviluppa ai margini di questo mondo costituito dall’alto (uccelli), dal basso (ossido di ferro), dalla posizione intermedia propria all’umano (gli occhi). Ai margini non si vede propriamente quel che succede, si può supporre o intravedere: è il gioco delle ombre, impalpabili, mutevoli eppur costituenti a pieno titolo il paesaggio. Ma è anche il luogo della mutilazione, il margine di ciò che resta, è il ramo tagliato e separato dall’albero come un inutile arto che si addensa a riva, rigettato dalla corrente, archiviazione caotica della storia che non stabilisce né senso né successione ma solo il trapassare delle cose, il loro incompleto e ancor dolente sparire. E accanto a ciò la macchina che avrebbe il compito salvifico di purificare, di distinguere il nocivo dal salutare, è rotta, ferma, spenta, incapace di assolvere al suo compito. Nulla può essere depurato e ogni cosa resta quella che è, o che è stata. Ogni cosa resta impura e confusa.

Il mancato funzionamento del depuratore fa presagire l’incremento delle impurità e forse anche il limite estremo in cui tali impurità possono condurre alla catastrofe. Ma per l’intanto la sua mole è ben incastrata nel paesaggio. Immobile come un minerale, come l’ossido di ferro, appunto.

E la mia vita che non conosce i suoi confini
e per questo si finge illimitata
trova la parola fiume e la perlustra.

E senza poter purificare, eliminare le scorie, anche i limiti, i confini perdono la loro evidenza, nell’indistinzione tra dentro e fuori. Senza purezza non c’è forma. In assenza di forma le cose perdono la loro evidenza. La vita priva di forma chiede al fiume e all’indagine intorno al fiume il limite e la logica che le mancano. Richiesta di soccorso attraverso il perlustramento, l’esplorazione del senso di una parola che fa da cerniera tra natura e umano, tra mondo e vicenda personale. Questi sono i piani che il fiume raccoglie e accorda.

Nella seconda parte del componimento il confronto con il fiume si fa serrato: sembra che da quella potenza possa discendere anche la guarigione. Ma intanto un legame di tipo propriamente religioso connette il timore al brivido e alla speranza della ricostruzione. E questa rigenerazione è possibile attraverso il mutare della qualità del tempo: dilatandosi si espande ed espandendosi  offre la possibilità di considerare un ordine nel cosmo che è anche leggerezza e facilità dell’essere.

Con poco sforzo il tempo è dilatato
come l’uccello dilata il corpo in volo,
gli alberi i rami in aria. E il delta i suoi canali
in onde di calma.

Ogni elemento naturale si armonizza: ciò che vola, ciò che è fermo e ciò che scorre. Qualunque sia la modalità del suo essere e la sua propria velocità, la nuova qualità del tempo tutto comprende e armonizza, appunto.

Il fiume attraverso la dilatazione del tempo s’imparenta con gli uccelli e con gli alberi: la calma delle onde appare come il sangue che fluisce nelle vene. I canali del fiume come vasi capillari irrorano e distendono e tutto diventa piano e largo.

E la terza parte sospende questo corale come un momento riflessivo e appartato di un a solo davanti al pubblico, come tra sé  e sé di un personaggio tormentato dal dubbio. La dilatazione del tempo può anche essere una sua sospensione: è questa la possibilità di guarigione, la conquista di un tempo largo che smette il suo accadere per accelerazioni e che diventa dal punto di vista musicale propriamente un largo.

La quarta parte del componimento scompagina il tempo presente che si era dilatato orizzontalmente celebrando il cosmo, l’ordine del sincronico. In quest’ordine  sincronico inizialmente era entrato anche il manufatto umano del depuratore ed aveva trovato una sua collocazione. Irrompe ora improvvisamente una visione diacronica, verticale: secoli di storia si cancellano in un solo momento e riappaiono non come ombre ma in tutta la loro consistenza di dettaglio gli antichi romani che pure avevano frequentato il fiume. Ed è il fiume che nella sua dismisura rispetto alla limitazione umana che permette questa visione: è un attimo in cui il fiume si anima come quello omerico assume psiche e decisione, s’abbatte vendicativo sulla tracotanza dell’esercito romano. E’ la seconda volta che l’umano appare sulla scena, dopo il depuratore spento, traccia difettosa e inutilizzabile dell’industriosità umana. E in questa seconda volta  la negatività viene sottolineata: all’organizzazione boriosa della violenza e del potere il fiume risponde con un prodigio terrificante. Sembra per la prima volta accorgersi della sua stessa potenza: l’umiliazione della guardia imperiale appiedata è solo il presagio di ciò che sta per accadere.

E il fiume li studiava. Andar nel secco, anzi spezzare gli argini,
uscire dall’alveo stretto, vorticare in aria e di lassù abbattersi
facendo franare case e monti.
Seppellire le legioni di Traiano.

E si tratta di una vendetta ma soprattutto di una consapevolezza, di una presa di coscienza. C’è del non consapevole nel fiume che subisce  e scorre senza mai fermarsi. Ha bisogno di studiare l’avversario e quindi di fermarsi. Dà l’idea di non aver mai immaginato di poter avere avversari, di non dover interagire col mondo umano. E invece il potere con il suo delirio lo sfida. Ed è questa sfida a tirarlo fuori dalla sua non consapevolezza.

Nella quinta e ultima parte del componimento si chiarisce la relazione tra l’umano e ciò che umano non è. Ogni illusione panica è svanita: l’incommensurabile s’accampa come legge.

Ma prima che questa incommensurabilità sia dichiarata il fiume lascia le sue metafore come doni utili, come saggezza delle proiezioni antropomorfiche.

una voce che racconta dell’adunanza,
la ascolto finché non mi convinco
che siamo tutti fiumi, deposito di giorni,
alveo di labbra minacciate da drenaggi,
ombre ampie di fiume, un fiume d’ombra
che confina con altre ombre.

Il fiume qui non è tanto l’eracliteo del fluire quanto il suo contrario: è il sedimento. Il drenaggio, il saccheggio e l’impoverimento presuppongono una ricchezza che non fluisce ma che sta in profondità. E la minaccia non è rivolta all’acqua ma a ciò che l’acqua contiene e custodisce, ciò che l’acqua nasconde. Ma poi il fiume d’ombra sembra minacciare l’esistenza dello stesso fiume: la parte di non consapevolezza come la parte sparita e assente sembra dominare l’intero quadro. Quasi che la vita non potesse competere col suo contrario. E poi l’espressione estetica è poca cosa. E sarebbe comunque poca cosa a confronto con ciò che andrebbe detto. Di qui l’incommensurabile la cui cognizione chiude il poemetto.

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Biagio Cepollaro
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