Daniele Maria Pegorari: Il fazzoletto di desdemona. LA letteratura della recessione da Umberto Eco ai TQ

Introduzione

La letteratura della post-realtà

fazzoletto di desdemona (219x340)È plausibile che una crisi economica di inaudite proporzioni non solo condizioni i ‘temi’ della scrittura letteraria (‘dettandone l’agenda’, per rubare al gergo giornalistico-politico una sua brutta e inflazionata espressione), ma addirittura ne modifichi gli statuti e ne scuota le fondamentali motivazioni etiche? E se gli economisti hanno da tempo abbandonato gli indugi e hanno introdotto nel linguaggio corrente la terribile categoria di recessione, è possibile che essa, per traslato, configuri una condizione di involuzione molto più ampia, tanto da attagliarsi anche alla sfera della cultura umanistica, anch’essa in palese contrazione ‘produttiva’ e privata di ogni capacità, non dirò egemonica, ma finanche orientativa e critica nel quadro del mondo contemporaneo? Vorrei provare a dimostrare che questo ‘arretramento’ e questa ‘scomparsa’ della cultura (ma mi limiterò a considerare solo l’ambito letterario italiano) sono disgraziatamente in atto e non potrà darsi alcuno scatto d’orgoglio, alcuna reazione costruttiva, alcun rinnovato protagonismo intellettuale, alcuna ripresa nella ‘produzione’ di senso critico, senza una preliminare presa di coscienza dei processi lungo i quali la soggettività in generale, ma più specificamente la creazione letteraria sono stati asserviti al capitalismo informazionale, divenendone alimento e sgabello, e hanno introiettato i modelli linguistici e le finalità economico-politiche della comunicazione di verità, allontanandosi come una zattera alla deriva dalla conoscenza della realtà.

In una prima fase analitica ci si può fermare al più semplice dei sondaggi sociologici, quello dei ‘temi’, notando come, a partire dagli anni Zero, la letteratura (narrativa, lirica e ‘ibrida’, dato che lo specifico della scrittura d’oggi risiede soprattutto nella quantità di esperimenti di contaminazione, per esempio fra fiction e non fiction novel) sembra essersi riscossa dal placido torpore in cui si era fatta avvolgere nel ventennio precedente: abbandonate le morbide cadenze della letteratura ‘di confezione’ e dell’individualismo come antidoto contro gli inestetismi delle neoavanguardie e le rigidità degli ideologismi, oggi gli scrittori, soprattutto quelli sotto i cinquant’anni, paiono affamati di realtà, quale spazio in cui la condizione soggettiva incontra quella collettiva e diventa narrabile, nelle sue sofferenze e nei suoi smarrimenti di cui piace sottolineare i connotati ‘contestuali’ (economici, politici, criminali) ed esaltare lo stile non finzionale, ma quasi giornalistico, testimoniale e saggistico[1]. Il caso letterario del decennio, il Gomorra di Saviano, che a detta di alcuni segnerebbe addirittura la fine del postmodernismo e l’inizio di un nuovo realismo (se non addirittura di un neomoderno), mentre per altri (come Arturo Mazzarella) sarebbe più che altro un bluff con tratti di ipocrisia[2], è in verità solo un esempio di una generazionale necessità di narrazione: credo ricopra maggiore importanza il corale tentativo di indagare i limiti di un’identità effimera (una Temporanea Qualità) manifestato dalla ricca letteratura post-industriale, che ha avuto il merito di costituire la palestra per alcuni fra i nostri migliori talenti letterari (come Murgia e Desiati per la narrativa e Franzin per la poesia) e di cogliere le radici antiche di una demolizione sociale che era iniziata ben prima dello scoppio delle bolle speculative.

Parallela a questa demolizione è la disgregazione della funzione intellettuale (cioè dello stesso statuto umanistico della nostra storia civile) che si scopre oggi assolutamente incapace di reagire se non nelle forme della ‘denuncia’ e dell’‘indignazione’ o dell’‘elegia’ e del ‘lamento’, giacché essa si trova strangolata nella tenaglia costituita dalla assuefazione sociale (l’indifferenza o la noia di moraviana perimetrazione) e dall’adeguamento dell’editoria alle strutture del capitalismo informazionale. Come potrà darsi una funzione protagonistica e antagonistica della letteratura, se essa può essere concepita ormai solo in termini mercatistici? E cosa accade alle proposte più trasgressive e innovative, quando le chimere della libera circolazione delle idee e delle merci e della libera concorrenza che dovrebbe premiare – chissà poi per quale indimostrato automatismo – la qualità e l’originalità si sciolgono come neve al sole sotto i fendenti della recessione che fanno implodere l’intera filiera della lettura e, anzi, l’intero universo della conoscenza e della ricerca? L’industria culturale si identifica ormai con quella della comunicazione (parallelamente alla fusione fra informazione e spettacolo, come dimostra l’ircocervo linguistico dell’infotainment) e impone un modello produttivo ormai fuori controllo, fatto di reperimento di materie prime (le informazioni, da acquistare a basso costo o da rubare o da inventare), elaborazione tecnica (occhio alle possibilità manipolatorie della cosiddetta ‘realtà aumentata’ o ‘diminuita’ e alle tecniche automatiche del new journalism digitale) e vendita di ‘oggetti’ che saranno ancora una volta informazioni.

A questo sistema non può interessare che le informazioni abbiano un qualche legame con la realtà e con la sua conoscenza. Il capitalismo non si nutre di conoscenza e non ne produce (per questo è improprio chiamarlo ‘cognitivo’, come in molti persistono a fare), ma raccoglie, trasforma e produce informazioni il cui valore non risiede nella loro referenzialità (cioè nella loro corrispondenza con ciò che è reale e perciò verificabile ‘chimicamente’ o ‘filologicamente’) ma nella loro vendibilità; questo processo è perfettamente complanare a quello dell’economia finanziaria, che moltiplica (o disperde) ricchezza astratta (cioè numerica, simbolica) secondo flussi che sono più rapidi degli effetti che essa può avere sull’economia reale (di qui le crisi di sovrapproduzione, le bolle, i crack, la morte del lavoro). Come l’economia finanziaria è ‘astratta’ (cioè è un ‘gioco’), ma ha un’incidenza decisiva sulle condizioni materiali di vita[3], così la produzione di informazioni (indipendentemente dal proprio statuto di verità o falsità) ha efficacia sulla realtà, costringendola a recedere in un regime di insignificanza, fungibilità o dispensabilità. Anziché costituire il fondamento dell’etica e interrogare il senso della giustizia e della responsabilità, la realtà è occultata nelle sue istanze di interpretazione e di soddisfacimento dei bisogni, o addirittura è mistificata, truccata, qualora possa occasionalmente sostenere, mascherandola, una falsa coscienza.

La forma più tipica in cui si presenta la realtà del nostro tempo è ben tematizzata dal fazzoletto di Desdemona, l’indizio che dimostrerebbe il tradimento della nobile veneziana col luogotenente Cassio e che precipita il Moro nella gelosia più violenta. Il fazzoletto, già collocato al centro della novella vii della terza decade degli Hecatommithi (1565) di Gian Battista Giraldi Cinthio che fu fonte del Bardo, è, in effetti, un frammento di realtà, attinto fra i mille altri che compongono la situazione reale (di quella realtà artisticamente ricreata che è la fabula dell’Othello): il «pannicello da naso […] lavorato alla moresca sottilissimamente» («handkerchief» o «napkin» nella tragedia shakespeariana) è un dato concreto, anzi, diciamo pure che è un dato di squisita importanza poiché è il pegno d’amore che Otello ha donato alla moglie (e di questo sentimento dovrebbe essere informazione), ma il suo significato viene sottratto all’ordine storico delle relazioni che esso intrattiene in realtà con gli altri oggetti che lo circondano, con lo spazio in cui abita, con i soggetti che lo toccano. Il fazzoletto viene decontestualizzato (operazione ben significata dal suo spostamento in un luogo in cui non avrebbe dovuto trovarsi, cioè nell’alloggio, «lodging», di Cassio, addirittura «a capo del letto», secondo le parole di Giraldi), il suo valore viene violentato, creato ad artificio dall’invidia di Iago, che costruisce la menzogna del tradimento di Desdemona come falsa coscienza dietro cui si nasconde l’insano progetto di liberarsi, appunto, di Cassio.

Questo oggetto viene strappato al mondo reale (e recessivo) del matrimonio di Otello e Desdemona, di cui è suggello, e assume una nuova credibilità nel mondo post-reale (e dominante) del complotto di Iago, ricevendo un inedito contenuto informativo, quello di prova («proof» o addirittura «living reason») di un adulterio innescante la cieca follia di Otello che ucciderà la presunta fedifraga. A nulla varrà la tardiva scoperta dell’equivoco: ormai la post-realtà ha modificato la realtà, in maniera irreversibile e inemendabile.

È difficile dire quando la post-realtà abbia preso il sopravvento sulla civiltà occidentale, e certo anche la storia antica e medievale contempla clamorosi casi di falsificazione, che hanno mantenuto e mantengono la loro efficacia anche a distanza di secoli dal loro smascheramento (dalla falsa Donazione di Costantino ai Protocolli dei savi di Sion su cui, non a caso, s’incentra l’ultimo romanzo di uno ‘specialista’ del conflitto fra linguaggio e realtà, Il cimitero di Praga di Umberto Eco): ma certamente dal momento in cui la comunicazione diventa il sistema globale della formazione dell’opinione pubblica, essa è stata in grado di creare un regime di post-realtà (o irrealtà o antirealtà o iperrealtà), terza rispetto alla realtà naturale e a quella storica, ma assolutamente autonoma e autofàtica, perché affrancata dall’obbligo di verifica[4]. Nell’istante in cui predica il suo significato e viene creduta, essa diventa vera e visibile e a nulla varrà smentirla.

Uno dei momenti chiave di questa trasformazione è stato il Sessantotto, per la capacità che esso ha avuto di stimolare narrazioni anche di segno contrapposto (fra entusiastici consensi e denigrazioni reazionarie) in ogni caso sovradimensionate rispetto al reale coinvolgimento numerico dei soggetti. ‘Rivoluzione’ e ‘reazione’ hanno costruito una ‘comunicazione’ per la prima volta internazionale del movimento e delle sue istanze, riuscendo a creare l’illusione di una partecipazione di massa agli eventi anche se concretamente solo una quota minoritaria della popolazione italiana, europea e americana partecipava alle manifestazioni di piazza e alle occupazioni; in troppi hanno avuto l’autopercezione di aver ‘fatto il Sessantotto’ senza aver avuto ‘esperienza’ del movimento e senza aver conosciuto in profondo le istanze che venivano messe in campo. Un secondo aspetto interessante è costituito dal vitalismo o neofuturismo serpeggiante nelle generazioni coinvolte dai movimenti degli anni Sessanta-Settanta, un sentimento, cioè, in cui il bisogno di predicare una riforma radicale dei costumi, degli assetti economici, delle forme culturali e linguistiche, della distribuzione dei diritti e delle risorse, si accompagnava alla semplificante associazione fra ‘vecchio’ e ‘inaccettabile’ e anche fra ‘bello’ e ‘conservatore’. Non c’è stata forse epoca più triste per l’esperienza estetica di quella di cui stiamo parlando.

Già Pasolini, in una celeberrima poesia pubblicata su «Nuovi Argomenti» nel primo trimestre del 1970 (dunque scritta come riflessione ‘a caldo’ dinanzi alle scosse del mondo giovanile) e poi raccolta in Trasumanar e organizzar (1971), tuonava contro la «generazione sfortunata» che si sarebbe presto trasformata in «classe dirigente» senza aver conosciuto la poesia della tradizione (questo il titolo della lirica): presa nel gorgo della propria affermazione vitalistica, vissuta come liberazione dalle pastoie delle vecchie ideologie, la gioventù commetteva l’errore di assolutizzare le proprie «incertezze divinamente infantili» e la propria aggressività, non comprendendo che la rinuncia ai «vecchi libri» e alla «bellezza», l’incapacità di commuoversi dinanzi a «un Battistero» o a «un’ottava del Cinquecento», «l’odio razziale contro la passione» e la riduzione del discorso a una serie di «formule» burocratiche e slogan da corteo avrebbero fatto il gioco del mondo che essa s’illudeva di combattere.

Altrettanto tempestivamente, nello stesso 1968, il drammaturgo Nicola Saponaro dava la prima stesura di quell’Erasmo che rimane probabilmente il suo capolavoro: si tratta di un dramma in cui si mette in scena l’occupazione studentesca di un teatro parigino mentre si tengono le prove di una tragedia storica sulla riforma luterana. Potrebbe bastare la rilettura della scena viii per scoprire come già in questo testo si riflette sulla contraddizione di un movimento che trasforma «la rivoluzione» in «un orgasmo collettivo», in una «danza di Dioniso», in odio ai «velluti», agli «stucchi dorati», al «teatro tradizionale» e alla «musica da camera». In un crescendo delirante di odio antiestetico e di formule parapolitiche che ‘slogano’ la poesia del dialogo («La società è un fiore carnivoro. / L’immaginazione al potere. / Proibito proibire. / La felicità è cornuta», e via di questo passo), il ‘coro’ post-tragico degli studenti esplode in un clamoroso «L’arte è una nevrosi accademica», e a nulla vale il tentativo di Erasmo e Lutero (attori che interpretano quelle parti e insieme loro avatar meta-teatrali) di persuadere la gioventù circa l’utilità di riconoscere storicamente il sottile legame ideologico fra quelle antiche lotte contro il dogma e l’oscurantismo e le attuali contestazioni libertarie. Incuranti della raccomandazione di Lutero a non parlare per slogan («Ma la rivoluzione, come la cultura, / non si fa con gli slogan»), gli studenti proseguono nella deriva di desemantizzazione del linguaggio (accusato di essere una mera «convenzione»), fino a ridursi ad essere automi che «si abbandonano ad un’azione confusa, gestuale, animalesca, senza capo né coda» (come suggerisce una didascalia della successiva scena ix), inanellando psicotiche catene di parole senza altro legame se non la rima. L’alienazione che Paolo Volponi attribuiva nel 1962 al protagonista di Memoriale, l’operaio Albino Saluggia che, stordito dai ritmi della catena di montaggio, concepisce sgangherate associazioni di parole in rima, si è così impossessata per una via insospettabile anche dei giovani intellettuali sessantottini, addomesticandoli e disarmandoli proprio laddove essi più si sentivano rivoluzionari. La repressione postmoderna, infatti, può permettersi di spegnere l’opposizione con armi più subdole del controllo poliziesco, può agire il conformismo in forme inedite, inoculando lentamente una meta-ideologia, impalpabile, camaleontica e irriconoscibile[5].

Potremmo chiamarla l’ideologia del funzionalismo globale, l’idea che la gratuità sia un lusso, che tutto debba misurarsi secondo la capacità di trasformarsi in produzione, che il bello abbia meno valore dell’utile e che innovazione e crescita siano sempre un obiettivo irrinunciabile[6]. È su questo piano che egemonia borghese e slancio rivoluzionario, ricacciate ai margini e resecate le orrende spinte eversive e cruente, trovarono un agevole punto d’accordo: in cambio della cosiddetta liberazione dei costumi e di una relativa estensione dei diritti sociali (si pensi allo Statuto dei lavoratori e alla trasformazione del diritto di famiglia) il Capitale si assicurava il trionfo come modello organizzativo dell’economia e della politica, motore di progresso in quello che doveva apparire come il migliore dei mondi possibili.

Il ventennio iniziato con i primi anni Sessanta è stato dominato dall’ossessione centrale, totalitaria e totalizzante, dell’innovazione, sul cui altare il ceto intellettuale italiano ed europeo più avanzato ha sacrificato l’etica della conoscenza, fondata su un ordine di valori necessariamente alternativi all’economia dei mercati: la conoscenza prevede la gratuità, il riconoscimento e il rispetto per i ruoli sociali a cui è affidata la produzione di beni simbolici (insegnanti, scrittori, artisti, custodi del patrimonio culturale), una gerarchia di prestigio sociale che non sia fondata sul reddito, un’autorevolezza anche politica agita nel rispetto delle autonomie delle cariche e delle funzioni. Un siffatto ‘ordine del mondo’ è intrinsecamente e radicalmente alternativo alla società del finanz-capitalismo che si appresta a costituirsi e a trionfare nell’ultimo ventennio del secolo: a questa altezza il ceto intellettuale sarà già stato disarmato, reso inerte, la ‘bestia sarà stata affamata’ e ridotta a uno stato di prostrazione materiale e spirituale che non le ha più consentito, fino al giorno d’oggi, di ricostituirsi come chiave di volta di un nuovo edificio civile. Il fatto che possa esistere un’economia dei beni simbolici, una ricchezza effettiva a beneficio della collettività, un interesse attivo e mai passivo per chiunque partecipi di un’esperienza cognitiva ed estetica[7], viene cancellato nel momento in cui trionfa un modello di calcolo della ricchezza fondato unicamente sul profitto immediato e sul Prodotto Interno Lordo e in cui la nozione di investimento perde ogni sfumatura psicologica e morale per divenire esclusivamente economica.

Per questa via è chiaro che la cultura (l’insegnamento, la ricerca, la creatività) diviene esclusivamente un ‘peso’, una voce necessariamente negativa del bilancio di uno Stato, solo parzialmente alleggerita dallo sviluppo dell’industria culturale. Quando poi la recessione esplosa a partire dal 2008 divora anche quest’ultima, la produzione di beni e valori simbolici si arresta del tutto e scompare drammaticamente dall’elenco delle cose desiderabili e percepite come socialmente indispensabili. Qui si prospetta la fine della conoscenza e della stessa realtà, sostituita da una sua proiezione astratta e spesso mistificata. Il ceto intellettuale, forgiatosi attraverso gli anni dell’‘innovazione’ prima e dell’edonismo mediatico e commerciale poi, oggi governa i Paesi occidentali come blocco tecnocratico incapace di sottoporre ad analisi critica il modello produttivistico e quantitativo che hanno scambiato come ordine unico del mondo: come se non bastasse, la politica ha delegato proprio a codesto blocco la ‘cura’ del sistema, innescando un meccanismo di avvitamento ideologico (non si può chiedere a un organismo, infatti, di annullarsi) e di recessione economica (non è possibile far ripartire la crescita se si comprime il potere d’acquisto e si riduce la massa dei contribuenti attraverso la scomparsa del lavoro). In quest’ultimo decennio, proprio mentre la tenuta dell’idealismo finanz-capitalistico mostra le sue crepe, trionfa a livello nazionale e internazionale il regime di verità irreale che esso aveva prediletto e costituito attraverso la comunicazione.

Quale può essere il futuro della letteratura, in questo quadro? A quale ‘nuovo realismo’ si può aspirare, se ognuno di noi vive le sue sofferenze reali e i suoi desideri reali (e nasce e muore realmente), senza però fare esperienza della realtà, ma anzi ricavando la propria visione del mondo da fonti irreali?

Non può essere solo una questione di stile, come è stato per gran parte del Novecento, non si tratta di scrivere ‘in maniera realistica’, cioè tale che sembri reale; si tratta, invece, di dire quella verità che è anche reale, il cui statuto, cioè, sussiste solo in rapporto a quello «zoccolo duro» dei fatti e delle parole (per dirla con Umberto Eco) che non è negoziabile (letteralmente: che non si può vendere né acquistare) e non è manipolabile[8]. La scrittura argomentativa e creativa deve imparare a interpretare l’inedito ‘teatro di guerra’ che le si para davanti, facendo tesoro delle sconfitte accumulate negli anni Zero, allorché sembrò possibile la tattica dell’‘infiltrazione’ mimetica, dell’astuto ingresso nella cittadella fortificata della comunicazione attraverso il mascheramento nel ventre di un cavallo di legno.

Erano gli anni di Luther Blissett e di Wu Ming, di «Nazione Indiana» e de «I miserabili» e poi di «Carmilla» e del New Italian Epic, di strategie, cioè, che proponevano l’utilizzo dei codici e dei linguaggi dei new media in letteratura, con evidente distacco da una visione tradizionale dell’arte, avvertita come accademica e passatista. L’idea era quella di superare l’assedio alla Città di Comunicazione con l’accettazione delle nuove parole d’ordine che spalancassero alla letteratura le porte del nuovo mondo: concetti come anonimato, collettivo, fruizione democratica, ibridazione formale, provocazione, guerriglia mediatica, fine della critica, globalizzazione dei modelli, rapidità dell’elocuzione, copyleft, controinformazione, liquidità dei contenuti e provvisorietà delle poetiche non erano che tentativi di elevare allo statuto letterario attitudini che già dimoravano nello spazio del web, ma l’esito è stato quanto meno inferiore alle aspettative, lasciando una sensazione disarmante di desertificazione culturale, di impermanenza delle proposizioni, di polverizzazione delle aggregazioni intellettuali, continuamente coagulate e subito disperse nel blob nauseabondo della comunicazione paraculturale. Qui vengono compresse le facoltà primarie dell’estetica letteraria, fatte di meditazione e mediazione, di articolazione del linguaggio nelle sfumature che sollecitano il pensiero della differenza e non soltanto della diversità, di ciò che si può riconoscere come qualitativamente alternativo, cioè, e non solo come fenomenicamente difforme. La stilistica del twit, la brevitas liofilizzata in 140-caratteri-spazi-inclusi, esaltata addirittura dai primi dibattiti letterari on line, come fosse la contrainte su cui fondare le modalità di pensiero del terzo millennio, ha invece narcotizzato e sclerotizzato le potenzialità gnoseologiche della letteratura, fino a sostituire l’imperativo della conoscenza con una parodia del principio di piacere, sintetizzato da un clic sul pulsante “Mi piace”…

«Presi nella rete», per dirla col linguista Raffaele Simone, soprattutto i cosiddetti nativi digitali hanno rapidamente ridotto le proprie competenze linguistiche[9], mentre non è affatto documentabile il tanto agognato allargamento della base dei lettori da ottenersi attraverso le nuove dinamiche dei supporti digitali. È questione solo di tempo, si dirà. E sia, ma ciò che più preme mettere sul tavolo è la necessità di un’autonomia del linguaggio letterario, che mantiene un fondamento nella realtà e che è produttivo di spirito critico, dal linguaggio della comunicazione, che ha origine solo in se stesso e inocula un nuovo conformismo post-ideologico, anzi meta-ideologico.

Ai pellegrini del significato toccherà, allora, ridisegnare la propria mappa del tesoro, tracciando con forza la via maestra che incrocia la realtà (naturale e storica), ingaggiando la lotta più severa contro ogni forma di mistificazione e reagendo alla colonizzazione del pensiero operata dalla tirannia della comunicazione: laddove essa induce una percezione frammentaria e deresponsabilizzante del mondo (ora miracolistica ora traumatica), occorre riscoprire l’azzardo di una scrittura globale e anticonsumistica, che abbia nella complessità strutturale e nella cura dello stile i propri punti di forza.


[1] Il tema di una ridefinizione del reale come perno concettuale di una nuova modernità (e superamento delle speculazioni postmoderniste) ha caratterizzato il dibattito prima letterario e poi filosofico degli ultimi anni, soprattutto grazie a due discussi libri di R. Luperini (La fine del postmoderno, Guida, Napoli 2005, 20082) e M. Ferraris (Manifesto del nuovo realismo, Editori Laterza, Roma-Bari 2012); il dibattito filosofico innescato da quest’ultimo è stato raccolto in M. De Caro, M. Ferraris (a cura di), Bentornata realtà. Il nuovo realismo in discussione, Einaudi, Torino 2012.

[2] A. Mazzarella (Politiche dell’irrealtà. Scritture e visioni tra Gomorra e Abu Ghraib, Bollati Boringhieri, Torino 2011, cap. I: I fantasmi dei fatti, pp. 13-52) sostiene fra l’altro che a Saviano «al contrario di Capote, Sciascia o Ellroy – non interessa scavare nell’evento, ricostruirne la storia sommersa. Il suo unico obiettivo resta quello di esibire lo scandaloso oltraggio che comporta la trasgressione di ogni regola del vivere civile perseguito dalla camorra. Tutto è manifesto, esplicito, agli occhi di Saviano: forse fin troppo. […] la mancanza di prove, l’assenza di resoconti attendibili, costituisce lo spettro contro il quale Saviano combatte strenuamente: con l’ossessiva coazione a ripetere di uno scrittore che vorrebbe a tutti i costi entrare anche lui in una pagina di cronaca, pur di esorcizzare l’inestirpabile potere creativo della parola letteraria» (pp. 41-42).

[3] Il più serio dibattito scientifico sulle ragioni dell’ultima crisi economica e sulle strategie della sua soluzione non ha visto solo posizioni di tipo neoliberistico; vorrei qui segnalare un libello collettivo, Manifeste d’économistes atterrés (Les Liens qui Libèrent, Paris 2010 ; ed. it : AA.VV., Manifesto degli economisti sgomenti. Capire e superare la crisi, Minimum fax, Roma 2011), in cui, fra l’altro, si sottolinea la capacità del capitalismo finanziario di agire a dispetto della realtà, nell’illusione di poterne creare una a propria immagine: «I mercati finanziari hanno finito con l’assomigliare ai mercati “privi di attriti” dei manuali universitari: la teoria è riuscita nell’intento di creare la realtà» (p. 12).

[4] Scrive in proposito F. Tonello (L’età dell’ignoranza. È possibile una democrazia senza cultura?, B. Mondadori, Milano 2012, pp. 118-119): «Quella in cui viviamo è una iperrealtà frammentaria e caleidoscopica, dove l’elemento unificante è solo la velocità: velocità nell’acquisire le notizie, velocità nel consumarle, velocità nel passare ad altri argomenti. Le televisioni satellitari, e poi l’uso della Rete da parte dei grandi media, hanno trasformato il sistema dell’informazione in una specie di ‘flusso di coscienza giornalistico’ dove l’imperativo della diretta sostituisce qualsiasi altro parametro, in particolare la verifica dei fatti, la credibilità, la contestualizzazione».

[5] P. Dorfles (Il ritorno del dinosauro. Una difesa della cultura, Garzanti, Milano 2012), in un bel libro dedicato al declino della cultura umanistica determinato in gran parte dall’espansione dei nuovi linguaggi, ha a lungo discusso della televisione come di uno strumento per costruire le forme attuali di «indifferenza» e di «conformismo», che altro non sono che le condizioni che hanno consentito i regimi autoritari del Novecento: alle pp. 29-30 si legge, ad esempio: «abituandoci al decadere del comportamento degli uomini pubblici, non ne sentiamo più l’effetto tossico. Per tutti i veleni, in medicina, si dice che la consuetudine ad assumerne dosi all’inizio minimali, poi sempre più massicce, ci desensibilizza: come Mitridate, che per evitare di essere ucciso dai veleni se ne faceva inoculare un po’ tutti i giorni, così facciamo noi. Ci mitridatizziamo».

[6] Non è questa la sede per entrare nel merito delle proposizioni della dottrina economica della decrescita che meriterebbe di essere commentata e, al limite, anche contestata al netto delle banalizzazioni che ne sono state offerte. Qui mi sento obbligato solo a rinviare a un paio di saggi di S. Latouche che appaiono più vicini alla critica del finanz-capitalismo come economia della post-realtà e che predicano un alternativo sistema di valorizzazione: Breve trattato sulla decrescita serena, Bollati Boringhieri, Torino 2008; e (con D. Harpagès) Il tempo della decrescita. Introduzione alla frugalità felice, Elèuthera, Milano 2011.

[7] Molto noto è il saggio del filosofo M. Perniola (Contro la comunicazione, Einaudi, Torino 2004) che elabora una critica del sistema della comunicazione (su cui si fondano l’economia e la politica nell’era della globalizzazione) al quale egli, ispirandosi alla teoria del sociologo francese Pierre Bourdieu, contrappone «il paradigma di un’altra economia, alternativa rispetto all’economia capitalistica»: «È l’economia dei beni simbolici», fra i quali ci sono «anche la scienza e la morale». In nome di questo sistema fondato sull’«estetica» Perniola può sostenere che «una società che non è più disposta a ricambiare il dono disinteressato dei suoi ricercatori, burocrati, professionisti, insegnanti, artisti… è destinata a perire» (pp. 72-74).

[8] U. Eco, Ci sono delle cose che non si possono dire. Di un Realismo Negativo, in «Alfabeta 2», III, 17, marzo 2012, pp. 23-25. Il Realismo Negativo si collocherebbe a metà strada fra il postmodernismo e il nuovo realismo: «Ci sono delle cose che non si possono dire. – scrive Eco – Non importa che queste cose siano state dette un tempo. In seguito abbiamo per così dire ‘battuto la testa’ contro qualche evidenza che ci ha convinto che non si poteva più dire quello che si era detto prima. […] Ci sono dei momenti in cui il mondo, di fronte alle nostre interpretazioni, ci dice no. Questo no è la cosa più vicina che si possa trovare, prima di ogni Filosofia Prima o Teologia, alla idea di Dio o di Legge. Certamente è un Dio che si presenta (se e quando si presenta) come pura Negatività, puro Limite, pura interdizione» (p. 25, corsivo dell’autore). Il saggio è stato scritto da Eco sulla scia del Manifesto del nuovo realismo di M. Ferraris e, col titolo Di un realismo negativo, è stato incluso anche in M. De Caro, M. Ferraris (a cura di), op. cit, pp. 91-112 (le lievi modifiche riguardano solo il primo capoverso).

[9] R. Simone, Presi nella rete. La mente ai tempi del web, Garzanti, Milano 2012. Il saggio analizza le dinamiche attraverso le quali la nostra definitiva immersione «in permanenza nella mediasfera» (p. 11) conduce a una modificazione dei modi attraverso i quali ci costruiamo una idea del mondo e stabiliamo una relazione fra i singoli. Alle conclusioni suggerite da questo mio lavoro il libro di Simone offre una ‘pezza d’appoggio’ molto amara: «Può darsi che internet non ci renda più stupidi, ma sembra certo che ci rende più bugiardi» (p. 17).

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