Dalla prefazione a “Hai bussato?” di Gianni Ruscio

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Scrivere la prefazione alle poesie di un poeta contemporaneo… mi spaventava talmente questa prospettiva che ho esitato, prima di scriverla.

Cos’è contemporaneo? C’è un senso triviale della parola, un significato immediato: essere contemporaneo vuol dire essere coevo, vivere nello stesso tempo di qualcun altro o di qualcos’altro. Ma c’è un altro senso molto più profondo, che ha a che fare con la poesia. E con l’arte, e con gli artisti in generale. Essere contemporaneo in tale accezione, cioè quella che userò d’ora in poi, sta per essere inattualmente distante dalla contemporaneità nel senso triviale. Significa viverci dentro, per ovvio obbligo di logica, ma esserne esclusi, per cogente necessità d’arte.

Un poeta contemporaneo è contemporaneo a Baudelaire o a Virgilio, molto più di quanto non lo sia a un suo contemporaneo in senso triviale. Questo non tanto perché il poeta si vesta di panni curiali e viva nel suo studio che puzza di lucerna, isolato e pazzo, disperatamente remoto. Il concetto di contemporaneità del poeta è più complesso. Riguarda il suo essere temporalmente anomalo, collocato non fuori del tempo ma in vettori temporali non convenzionali.

Con un telescopio molto potente vediamo la luminosità pazzesca di una quasar che ci arriva da miliardi di anni luce di distanza. Ciò significa che noi vediamo la quasar nelle condizioni in cui era non molto dopo il big bang, cioè come era in un tempo remotissimo. Com’è oggi non la vediamo.

Dunque potremmo inferire che in certi ambiti visibile è lo scomparso, il perduto, il perento, mentre quindi invisibile è il contemporaneo.

Così il poeta vede l’invisibile, o meglio il non convenzionalmente visibile, e poco considera la luminosità e l’evidenza assolute del visibile, ovvero il contemporaneo triviale. Il poeta segue dunque vettori temporali e spaziali alternativi a quelli comuni. In tal senso è contemporaneo a Virgilio, ma è anche precursore di Baudelaire, pur vivendo magari nel 2014.

Questo non determina necessariamente un’assenza del poeta dalla storia, un suo disimpegno, si sarebbe detto un tempo. La partecipazione alla contemporaneità triviale è possibile per un poeta, ma nelle forme della poesia, cioè nelle forme di una temporalità paradossale. Il poeta non è un aristocrate, può anche essere uno come Brecht, ma sempre poeta rimane, quindi osservatore di un presunto invisibile che gli è contemporaneo anche se può sembrare morto, e poco osservante di un visibile troppo lucido per essere vero, troppo lucido per non essere lucidato.

Niente più di un canzoniere d’amore è isolato dalla contemporaneità triviale. Ruscio ne ha già pubblicato uno (Nostra Opera è Mescolare Intimità, Tempo al libro 2011). Ora pubblica con Hai bussato? un canzoniere di abbandono. Come dire un approfondimento della solitudine, e della propria contemporaneità. Il precedente libro era pieno di eros, di sensualità e di jouissance corporea. Questo è tutto un libro all’imperfetto, o al passato prossimo, dove i tempi verbali si mescolano (anche all’interno di una stessa lirica), insomma un libro in cui il soggetto rimasto solo è così concentrato sull’abbandono da spremere l’evocazione fino a quasi perderla nella sua realtà.

Io e te, mi hanno raccontato,
eravamo assenti, come mai?
Assenti, nell’osservare Roma
dallo stesso avamposto
di settecentosettantasette anni fa e
nello sgretolarci per una dichiarazione
d’amore. Presenti nell’eterno non-luogo
siamo frattali centuplicati all’entropia.
Riuniti solamente in questo spazio
nero e bianco.

In una città come Roma è avvenuto l’amore e si è perduto. Roma, sfatta e sciatta, ma eterna (ci sia concessa la banalità) par excellence è il teatro della storia. Dunque in una città che induce alla contemporaneità poetica e degrada la contemporaneità triviale come poche altre (l’opposto di Parigi, per intenderci) si è svolto un amore pieno di sesso come può essere per una giovane coppia innamorata. E sempre in questa città si è decomposto un amore il cui ricordo fa dubitare del fatto che si sia realmente dato. Come nei romanzi di Marías, ove il trascorso scolora nel non accaduto, forse, quizá. Eravamo assenti? Questo si domanda Ruscio, in una città dove il non-esserci e il pieno paradosso della contemporaneità sono all’ordine del giorno.

Molto bello, insostituibile, questo registro dell’interrogazione (hai bussato? come mai?), il registro opportuno per un abbandono, che viene a coinvolgere anche l’amore vissuto, una cosa, l’amore, così contemporaneo quando lo si vive, così invisibile e ancor più contemporaneo quando lo si ricorda come quasi non esistito. Anche se asfalto o tungsteno sono marche che nella poesia di Ruscio ci rimandano a una metallicità o matericità volgari e quasi iperrealiste, la presenza del reale (una panchina, una cabina telefonica) è così dolcemente brutale, come l’amore, da essere contemporanea anch’essa, non nel senso triviale intendo.

Dunque l’abbandono, che è una meditazione sulla morte. Questo invisibile frugato dai poeti del resto è proprio morte, un poeta è morto, essere contemporanei significa esattamente essere morti (Pascoli l’ha insegnato). Morti in un senso pieno, non morti nel senso della visibilità evidente che cela una morte più deprimente, una quasi stellar radio source che moltiplica lo sgomento cosmico. Da giovani i poeti sono ancora più morti che da maturi e da vecchi. E a Ruscio auguriamo ovviamente di essere ancora poeta, e di vivere però (nel senso triviale) ancora almeno cento anni.

Una cabina telefonica,
una panchina vuota
e le mie visioni.

La voce separata,
i nostri assaggi
corrispondenze.

Siamo tramiti per il nostro sentire.
Con l’altro, il conoscersi.

Ho acceso una candela.
Passo la sua fiamma
di cero in cero
custodendone la processione.

Ti ho lasciato uno spiraglio.
Hai bussato?

Roberto Gigliucci
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