La parola oltre l’ostacolo

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Rielaborando due scritti di qualche anno fa1 , sono tentato a dire la mia su “La parola oltre l’ostacolo”. Tema interessante e impegnativo, ma non nuovo nel mio percorso poetico. E mi sento di dire che mi coinvolge – in primis – ad individuare “l’ostacolo” nella parola mercificata, e nel contempo a sgretolare il rapporto di persuasione e pacificazione in cui l’artista si è spinto in questi ultimi anni. Si dovrebbe partire da questa azione nell’atto di comporre una poesia, un quadro, una rappresentazione: rapportarsi come “nemico” dello status (nel accezione di “stare fermo”) dell’arte. Dissacrare la parola, non prima di aver dissacrato la propria autorità e navigare il suo mare in un vortico convulso, febbrile, frenetico, travolgente, sfrenato, vertiginoso, come foglie sollevate dal vento.

Insomma, il rapporto con la poesia dovrebbe costituirsi dal ricercare qualcosa che non c’è (o non ci è dato – forse – di sapere), un linguaggio antifrastico, della contraddizione, palinodico e giocoso, tragicomico, che non affabuli ma aggrovigli, che non addomestichi ma interroghi. E sul piano prettamente stilistico, un accumulo delirante di parole deliranti (apparentemente giocose e comiche, col piacere di scorticare, scardinare, aprirvi squarci, ogni qualvolta il risultato si avvia verso l’ovvio, non senza il gioco delle combinazioni, degli anagrammi logogrifati). Un’avventura, insomma, una mobilità linguistica che non prometta consolazioni, che non raggiunga mai la centralità di un qualcosa fatto passare per verità; mai patetica, né intimistica, né romantica, ma irriverente, demistificatoria, dissacrante per una fisica visione dinamico-allegorica del mondo, per un itinerarium corpis in mundum.

Smentire tutte le possibili normative e lavorare sull’improbabile, contro la tentazione del senso, nel tempo inventariale, da un punto di non ritorno: ricerca come invenzione e autocritica, un’esplorazione nel vuoto della lingua, in quei meandri indefiniti e incalcolati, che urta nelle configurazioni – dell’antica e recente memoria di una letteratura alternativa a quella ufficiale ormai obsoleta e vietamente mercificata, priva di ogni nota progressiva – fatta di rimandi, riformulazioni, giochi allusivi ed allegorici, per un’invenzione continuamente inventata. Il tentativo è di frantumare dall’interno i falsi messaggi di una letteratura da mercanzia spicciola, sottrarre il testo alla facile fruizione, all’ipnotismo e qualunquismo intimistico-emotivo, al consumo lirico di fasulle certezze, per un linguaggio ossessionato a riconoscere qualcos’altro nella babele di una quotidianità dove tutto è penosamente merce di scambio. Ciò vale anche quando il fare poietico si sposta sul piano visuale.

In ogni caso, un dato da non trascurare nello scrivere e/o occuparsi di poesia, è la consapevolezza dell’impossibilità, la cui impossibilità fa emergere una consapevolezza – come dire – quasi brutale, istrionica, ludica, la stessa che si muove da una rigida opposizione al poetese, al dejà vu, per insediarsi nella differenza esistente tra Testo e Poesia, tra ciò che si dice e ciò che si vorrebbe dire, tra materia e tempo: corrodere la raréfaction del tempo e la materia verbale in superficie fino a farle impazzire di gioia e di dolore, fino a farle apparire nel loro “reale” apparire, che non è mai la realtà che uno crede di vedere. Si tratta di rappresentare un’immagine reale di un sogno, un’allegoria onirica del reale. Si tratta anche di una ricomposizione di memoria in cui l’impossibilità di cui sopra che emerge, sia anche uno stimolo a riconoscere qualcosa di non “vero”, di non definibile, giacché parlare di poesia (e/o comporla) è parlare (e/o comporla) di un’approssimazione di suoni, di parole, d’immagini, che si auto-generano dal loro interno proprio perché privi di codificazioni, e quindi presentarsi sempre nuovi e diversificati (non già del poetico – che spesso fa rima con patetico –). È generare un’esigenza “mobile” per dirla con Benjamin, mai in grado di soddisfare nel momento della sua composizione: l’indagine critica e plurilinguistica, apparentemente comica, giocosa, è il compito della poesia, e non può che svolgersi sul limite dell’impensato, per una moltitudine di voci, suoni, immagini, grafie che s’inseguono e si ribaltano per un linguaggio che diviene “semplice” materiale da usare e da mostrare nelle sue infinite proporzioni. Che cos’è in fondo la poesia se non il rendere possibile l’impossibile?

L’artista ‒ secondo il mio parere ‒ dovrebbe preoccuparsi unicamente di produrre un buon testo, sia esso lineare o visuale, senza stare troppo a fare calcoli del tipo “sarà comprensibile, avrà dei lettori? Venderà, troverà una galleria?”, etc. Niente di più sbagliato, tanto che la scrittura è ipotetica, non ha il dono di piacere a tutti, ed essere letta o venduta non ci conferma che essa sia pure stata compresa. Quindi, tanto vale andare avanti, oltre questi ostacoli, con proposte di poemi infiniti, senza mete prefissate. Sempre secondo me, un altro metodo per muoversi in tal senso è la pratica del frammento che rende imprevedibile e “inclassificabile” la scrittura.

D’altronde, quando parliamo di poesia, di una certa poesia, intendo – quella che ha sempre evitato il dejà vu, il sacro, il secolare letargo simbolista –, difficilmente possiamo sottrarci alla peculiare importanza della “pratica del frammento”. Una importanza camaleontica, mimetica, direi, che addita continuamente le piste scivolose del consumo di una spettacolarizzazione rissosa, l’inutilità della vecchia concezione auratica dell’arte, del culto della Bellezza, delle Grazie, del Grande Stile, per farsi portatrice di un linguaggio materico e contraddittorio, mobile ed eterogeneo, sostenitore di istanze problematiche. E questo ci induce a marcare il grado di responsabilità di una lingua creativa continuamente minacciata da un universo di discorso ove i predicati fanno dell’effimero concetto e creatività di una struttura pietrificata. Sopprimere la sua presenza nell’universo della dialettica, per dirla con Marcuse de L’uomo a una dimensione3 , significa sopprimere la storia, il passato e il futuro, il bene e il male, il mutamento, il rinnovamento, la negazione: il «linguaggio unificato […] è un linguaggio irrimediabilmente anticritico e antidialettico» .

Il frammento da adoperare è quello che si comporta sostanzialmente in modo spericolato e irriverente. E come tutte le pratiche spericolate e irriverenti, sostenitrici di istanze problematiche, è portatore di un linguaggio mobile, contraddittorio, eterogeneo. Come non vedere in questa “pratica” una peculiarità in grado di recingere la supremazia di una ideologia di scrittura trasparente? Sarebbe come non attribuirle nemmeno la capacità di evitare il dejà vu, il sacro, il secolare letargo simbolista che invece porta a compimento in modo impeccabile, grazie soprattutto alle componenti combinatorie di un inesauribile contenitore di materiale “inclassificabile”. In effetti, considerato che il linguaggio unificato – come dice Marcuse – è un linguaggio irrimediabilmente anticritico e antidialettico, la “pratica del frammento” non può che operare esclusivamente attaccando il ripristino dell’onnipotenza e dell’indissolubilità dei miti, dell’assorbimento e della neutralizzazione di una ipotonia che un testo anchilosato, lineare racchiude in sé. La sua funzionalità, ovviamente, è condizionata dal grado di attacco che riesce a portare al cuore della vecchia concezione auratica dell’arte. Quanto più agguerrito è l’attacco tanto più si ha la possibilità di rendere determinanti e indispensabili le combinazioni e contaminazioni linguistiche e la loro struttura creativa, di scavare nei meandri disabitati della lingua portando in superficie valenze “nutritive”, tensioni, usando le parole nei modi più diversi (intraverbale), interagendo con tutti gli elementi che le compongono (concetto, forma, semanticità, carattere visuale, sonoro, critico, progettuale, etc.), anche a costo di sfiorare l’incomunicabilità (chiaramente dal punto di vista di chi rifiuta la conflittualità e la decostruzione del linguaggio in quanto fa della poesia un fatto puramente privato, intimistico).

Il frammento ha una rarità riscontrabile in poche altre pratiche. Ed è quella di richiamare continue suggestioni e possibilità di comporre interminabili testi, evitando così la stagnazione proveniente da una costruzione univoca, magari fatta di fasulle certezze. Proprio questa capacità di “fluidificare” e registrare pluralità a tutto campo, rende più marcata la presenza di una componente ideologica. Non più la posizione ma una sovrapposizione di piccoli frammenti alle correlazioni e presunzioni di un’arte codificata sia la coscienza della parola. Una inesplicabilità dell’opera d’arte che riconosca nel gioco, nell’ironia, nel divertissement, nei giochi linguistici, nell’autocritica, nonché nello strazio e nel dolore della “lotta” – dunque, trattasi di un gioco serio, persino tragico, drammatico ché nasconde o vuole nascondere, ma senza riuscita, l’impotenza del poeta di fronte allo strapotere mimetico del linguaggio –, istanze in grado di desublimare e demistificare la volontà intellettuale, gnomica, con la connivenza di una letteratura di consumo. L’identità di un orizzonte (in)verificabile di teorie fasulle viene abbandonata al proprio destino effimero e restaurativo. La forma frammentaria e smembrata che ne consegue mette sul piano delle iniziative non più il metodo ma i metodi, non più l’assolutezza ma la relatività, non più la verità ma le verità dei linguaggi: la realtà della poesia non ha orizzonti prefissati ma una provvisorietà che stimoli a riconoscere qualcos’altro; una postulazione da formulare – quando la testualità tradizionale, lineare, non regge più il proprio compito – sul limite dell’ “impensato”, nei richiami di una nuova oralità dove “corpo” e “voce” del poeta, nonché il segno come immagine non esaustiva, siano corpo e voce di una allegoria del reale – appunto -. Una specie di trait d’union che, attraverso il recupero della memoria (chiaramente quello che vale la pena recuperare), leghi il buono della storia alle pulsazioni dinamiche di un’apertura sul mondo, attraverso una ubiquità di un “io materiale”. Come il silenzio rispetto alla voce o il segno rispetto al non-segno, il frammento rispetto al testo “completo” è provocazione allo stato puro di un’invenzione continua, di un proliferare di operazioni progettuali e di una riproducibilità e irriducibilità straordinariamente aperte al tempo, a una gravidanza di forme intraverbali e immaginative. Martellando, cesellando, sezionando, il frammento oscilla in una polifonia ritmica e sonora, consapevole dello spostarsi con lo spostarsi della vita, del modificarsi col modificarsi delle realtà.

In effetti, la “pratica del frammento” – come tutte le pratiche irriverenti e spericolate – dovrebbe operare esclusivamente contro il ripristino dell’onnipotenza e indissolubilità dei miti, contro il pericolo dell’assorbimento e neutralizzazione di una ipotonia e di una ipofonia che un testo cosiddetto “unificato”, anchilosato, lineare racchiude in sé. L’atto della “manipolazione” e della “gestazione” del frammento implica l’atto del recingere la supremazia di un’ideologia di scrittura trasparente che miri essenzialmente a rafforzare il dominio di pratiche con valenze assolutistiche e a garantirsi – con la facile fruizione e l’inganno – la gestione del mercato. Ogni frammento, si capisce, funziona proprio in relazione alla capacità intrinseca di saper annullare queste insudici presunzioni. Spesso, il suo cattivo uso taglia fuori le soluzioni alternative.

Tuttavia, esso ha una immunità raramente riscontrabile in pratiche simili. Ed è quella di “interdisciplinare” la componente ideologica insita in esso, di ribaltare sia i codici dell’autore che del fruitore. Proprio questa capacità di rovesciamento e di registrazione di pluralità – che non esclude però, un ragionare che registri anche la ripresa di vecchie idee, teoricamente agguerrite –, rende più marcata la componente ideologica: non più lo svuotamento del vuoto ma il suo riempimento, “alla luce del sole”, diacronico e sincronico, è fornitore di poetiche costruttive (a piccoli frammenti), dove il gioco, l’ironia, il divertissement, i giochi linguistici, la “neutralità” dell’“inventore”, nonché la naturale peculiarità “inespressiva” e “inglobale”, diventano oggetti di una rivalorizzazione del vuoto stesso.

È fuor di dubbio l’importanza di un altro elemento per delineare un certo tipo di poesia: la rappresentazione dell’attimo, dell’atto puro. Da non intendere come “aura” o come dice Benjamin, un singolare intreccio di spazio e di tempo. Tutt’altro. Esso avvicina le cose, annulla lo spazio temporale per avvicinarsi alla morte, e più velocemente alla rigenerazione. La sua enigmaticità, il suo essere portatore di un discorso più ampio e continuo, la sua parziale “intelaiatura” sono attrazioni irresistibili e garantiste contro il perdurare di codificazioni consuete, produttrici di teorie fasulle. Pertanto, sancisce l’enigmaticità della poesia, il proliferare di operazioni artistiche, il riordino della scansione poetica teorico-critica.

Il frammento rispetto al testo “completo”, è provocatore di una invenzione continua, di una riproducibilità e irriducibilità straordinariamente aperte al tempo, a una gravidanza di forme intraverbali e immaginative plurime.

Ma affinché risulti completa la sua peculiare importanza, occorre menzionare tre cose:

  • a) il suo uso dà la possibilità di mantenersi determinati, senza porre limiti alle combinazioni poetico-visuali;
  • b) permette di scavare nei meandri disabitati della lingua, anche a rischio di sfiorare l’incomunicabilità, dal punto di vista di chi omologa le conflittualità del linguaggio come un fatto prettamente privato, intimistico;
  • c) permette di non escludere assolutamente l’inesistente, la riflessione critica sulle infinite possibilità di sopravvivenza che un linguaggio articolato possiede.

Per spostarsi verso uno specifico “altro da sé”, una prospettiva gest/azionale di sconfinate possibilità creative e rivoluzionarie, l’istanza di antagonismo letterario anarchico, nel senso di “senza padroni”, che rompa l’ordine del potere di una scrittura celebrativa e di verità assolute, diventa di primaria importanza.

Per concludere, nello specifico della poesia visuale, suggerirei un cambiamento di rotta, invadendo non solo spazi deputati di solito ai pittori (le gallerie e musei) che solitamente, per questo scopo, diventa un quadro o un surrogato di esso, furberie per farsi apprezzare dal mercato dell’arte, esclusivamente come merce ornamentale, sinonimo di piacere giaculatorio, di inerzia parsimosiosa, ma scuole, biblioteche, osterie, librerie, etc. Insomma, in ogni luogo di aggregazione, affrancata dai ricatti del mercato, per restare poesia verbovisuale, scrittura critica e ideologica, messaggera d’un movimento, d’un cambiamento. Per la poesia in generale, cosciente del suo fallimento in riferimento ad una ricerca del nuovo e per nulla ripagato dalla sua scelta di rifugiarsi nella nicchia di un pacifico passato o nella dorata turris eburnea, aggiungo che, terminata la stagione della resistenza, è ora che essa scenda tra la gente, denunciando lo stato comatoso in cui versa l’umanità, con una proposta di poesia politica, sociale, ambientale, etc., in modo che qualcuno inizi a pensare di cambiare rotta (a volte chi si vede cedere il terreno sotto i piedi lo fa), perché come recita uno slogan di Lamberto Pignotti – citando a braccia – «la poesia te lo dice meglio, la poesia lo sa fare meglio».

Licola, luglio 2013

___________________
1 AA. VV., La poesia di ricerca in Italia, a cura di Francesco Muzzioli, antologia telematica del CIRPS, 2001.
2 Einaudi, Torino, 1989 .
3 HERBERT MARCUSE, L’uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata, op. cit.

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Giorgio Moio
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