Abitare la frontiera. La poesia di Mia Lecomte

terra di risulta lecomteAfferma Luigi Anolli, in La mente multiculturale, che “il confine, al pari del simbolo, unisce e divide nello stesso tempo.” Il confine è il un luogo di tensioni, “in bilico fra difensiva e offensiva”.1 È barriera spesso invalicabile che isola e separa dall’altro, dallo straniero e dal diverso, ma anche da ciò che “rappresenta la distanza psicologia di un altro modo di vivere la vita”.2 Al concetto di confine, egli contrapporre quello di frontiera, che è uno spazio neutro, “la soglia attraverso la quale, se si desidera, si può entrare in contatto con l’altro.”3
Possiamo aggiungere che frontiera e soglia sono i luoghi della scoperta, i tempi e gli spazi dinamici che si aprono allo sguardo e che, perciò, rappresentano sfide, terre nuove da esplorare, colori vari, profumi e costumi ai quali avvicinarsi. Essi incorporano da sempre, però, sentimenti quali paura e timore di ciò che è inesplorato o sconosciuto, anche se, è bene ricordarlo, l’uomo anela costantemente a varcare le soglie, siano essere fisiche, psicologiche o metafisiche.

È ciò che fa Mia Lecomte in questa Terra di risulta (La Vita Felice, 2009), la sua ultima raccolta, pubblicata con una bella nota critica di Gabriela Fantato. Nella “Premessa”, Mia Lecomte ci offre già molte indicazioni sui percorsi da lei effettuati in vertiginosa profondità. Sulla prima sezione, “Dei vostri luoghi”, lei afferma che “è un viaggio nella non-appartenenza. Si attraversano luoghi sempre ‘altrui’, che comunque non possono che appartenerci (…) per interposta persona”.4 Pure nelle altre parti del libro – dai titoli “Oggetti naturali”, “Viario in rilievo” e “Bestiari domestici” – possiamo notare che il “non luogo” è, paradossalmente, il luogo per eccellenza della sua poesia, la linea fra le soglie che avvicina due frontiere. In tal senso, il “non luogo” è scavato nella vita, nella coscienza e nell’anima dell’io lirico che si trova in mezzo, né da una parte né dall’altra e che rivendica il riconoscimento di una posizione e di un posto, nel tempo e nello spazio, anche per chi, per motivi e contingenze diverse dell’esistenza, abita proprio un tale strano e scomodo interstizio, ricco di potenzialità e rivelazioni. Ecco che la zona di confine fra cose e persone, fra tempi e spazi passa proprio in mezzo all’anima, l’essere contiene in sé sponde diverse, l’essere è la frontiera ed è anche il ponte attraverso il quale andare da una parte all’altra. E per farlo, l’autrice ci ricorda già da subito, dal testo che apre la raccolta, che ci vuole la pietas: “Pietà di noi, qua dentro, pietà / con le finestre finte / pietà, dell’abitarci assente / del non poterci stare / pietà, pietà, pietà / in questa nostra altrui.”5 La pietas si lega all’empatia, il modo che hanno i poeti per entrare nella pelle e nei corpi, nella mente e nelle vite altrui, per comunicare, “e starci stabilendo palmo a palmo / misure sempre in scala del dolore”.6
Emblematica è la poesia “Lezioni salentine”, in cui l’io cerca di comunicare proprio la sensazione di stare e di abitare la frontiera:

Se volessi a questo punto spiegare:
si sta fra due mari, è già noto, ma non
come scissi o appena lambiti nei margini,
si sta come stare davvero nel mezzo
del senso più profondo di stare tra due mari
consapevoli delle rocce che squarciano spiagge
della luce che finisce più presto più tarda
del freddo dentro e fuori la grotta già caldo7

Tale tematica è ricorrente in tutto il libro. Nella bella e tenera poesia “Asuni”, l’io lirico assume consapevolmente le proprie frammentazioni e concepisce l’attraversamento continuo delle frontiere non come una menomazione dell’essere, ma come la possibilità di incorporare altro spazio e altri punti di vista, di assumere il confine come essenza e come opportunità di arricchimento: “Molte volte oggi ho passato la frontiera / della mia pelle dentro e fuori”; “io vado e vengo / sul confine mal tracciato di me”; “e quelle melograne a terra spaccate in due sfere / così almeno le voci non si sperdono più”; “mille volte oggi ho passato il segnale / di questa mia pelle a cortina ora là ora qua”.8
Se la soglia è il posto consapevolmente scelto dall’io lirico, è significativo come tale scelta venga vista anche attraverso chi, e sono in tanti, non può capire o accettare una posizione ritenuta scomoda e persino biasimevole, perché priva di quelle solidità e certezze che hanno le cose monolitiche, finite e definite nel, e dal, loro essere autosufficienti. Nella poesia “A Buridano”, abbiamo in dialogo fra un “io” e un “tu”, che rispecchia questa problematica:

Forse io non so scegliere
e potrei un giorno morirne,
sei tu a affermarlo
e ne sembri convinto,
rimarrei qui forse a aspettare
che la scelta si compisse da sé,
sei tu a insegnarlo
e non ne hai alcun dubbio9

È singolare che tale frontiera possa essere abitata, insieme agli esseri, anche dagli oggetti e degli artefatti umani, in altre parole che esista una soglia fra cose e persone che può essere attraversata. Gli oggetti acquisiscono un senso e diventano vivi quando, e perché, da noi abitati, si fanno compagni di vita, ai quali ci affezioniamo e attribuiamo un ruolo. Si legano ai ricordi, alle case che abbiamo abitato e poi, forse, lasciato per tanti motivi. A tale tema è dedicata la sezione “Oggetti naturali”, il cui titolo può essere inteso come un ossimoro che, avvicinando natura e cultura, abbatte la linea che le separa e provoca una sorta di scintilla nella quale gli oggetti si rappresentano animati e vivi, come nelle poesie “Barbapapà” e “Reguitti”. Traspare, qui, come tutto il processo educativo che riceviamo dai primi anni di vita sembri impostato per farci perdere l’essenza e la sostanza mutevole dell’infanzia e per indurci a vedere ciò che è plastico e poliedrico come sinonimo di “flaccido” (si veda, a tal proposito, la poesia “Barbapapà”). In questo modo, come le persone, anche gli oggetti della frontiera, legati soprattutto all’età infantile, sono senza posto, anch’essi abitanti dei “non luoghi”, come certi giocatoli, “se manca lo / spazio o in esuberi come i giorni si esuberano”.10
Dare anima agli oggetti e alla natura è proprio di tante tradizioni culturali con le quali è a stretto contatto Mia Lecomte nei suoi viaggi e nei suoi studi nell’ambito della comparatistica.

La stessa sorta di ibridismo e contaminazione avvicina la realtà concreta e il mistero metafisico che vi si cela, come la morte di una persona amata, il cui significato può essere contenuto in tutta la sua enormità solo in forma di poesia e di metafora che si allarga in lunghi versi in cui l’enjambement porta a galla la memoria della perdita e del dolore. Qui l’immagine che si anima e attualizza il ricordo è quella dell’onda che pian piano sommerge le persone:

L’onda era iniziata a Natale avvolta
nell’imballo traslucido lo stesso era il tavolo
(…)
un’onda soltanto intravista la schiuma leggera
finché ti ha raggiunto la bocca e noi insieme
ti abbiamo persa nel letto la tua voce di ossa ormai
a galla svanivi in quelle poche lenzuola solitaria11

Nell’antologia Al confine del verso (e non sarà casuale, anche qui, l’uso del termine “confine” nel titolo dell’opera), da lei curata, Mia Lecomte afferma, nella prefazione, quando presenta ai lettori italiani alcuni poeti della migrazione, i quali, pur originari da paesi diversi, con ricche tradizioni poetiche e letterarie, scelgono di scrivere in italiano e di dialogare con l’arte e la letteratura di questo paese:

Ed è diventato a questo punto necessario un confronto fattivo fra scrittori migranti e autoctoni – i viaggiatori immobili -, una collaborazione artistica trasversale all’insegna della contaminazione e dell’eterogeneità. Indispensabile agli uni, da un lato, per liberare la lingua della poesia italiana sfinita, autoreferenziale, da barocchismi, ermetismi e sperimentazioni di una certa avanguardia ormai in retroguardia, e riascoltarla davvero attraverso la voce altrui fatta propria; e agli altri per essere accompagnati nella messa a punto dello strumento sonoro senza rischiare un appiattimento e un impoverimento dei risultati poetici, perché questo possa risuonare e fare eco in tutta la sua potenza, e acclimatarsi musicalmente all’interno dell’universo comune di una parola sempre più bastarda e condivisa.12

Possiamo affermare che Mia Lecomte ha fatto proprio questo augurio che, per lei, è progetto di vita ma è anche poetica intensa e concreta, verbo autentico nel suo sperimentalismo vero, di voce e parola nuove perchè nate da sostanza e contenuto originali, quando è l’essenza stessa della vita a plasmare la sua forma e non il contrario.

(già su Fili d’aquilone n.17)

Vera Lúcia de Oliveira
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