Nota su “I compianti” di Maria Pia Quintavalla

i compianti quintavallaBisogna partire da lì, da China, il romanzo in versi del 2010, in cui Maria Pia Quintavalla metteva in scena una storia familiare, anzi, meglio, una “storia corale” di due donne amorose, nel loro strettissimo intreccio, in una sorta di corpo a corpo attraverso la scrittura, a partire da un punto terminale: quella della madre China (Gina) e la sua, di scrittrice nel pieno della sua maturità, sulla scena di una difficile crescita e poi di una dolorosa elaborazione del lutto della perdita.

Partire da China, non solo per capire il libro più recente, I compianti (Effigie, Milano 2013) ma anche e soprattutto per capire e inquadrare l’autrice, la cui figura continua a non essere riconosciuta, secondo me, per quanto realmente significa, a dispetto del ruolo giocato nelle diverse stagioni di un molteplice e generoso investimento di sé (nella vita, nella poesia, nella critica) e benché Andrea Zanzotto già nel 2000, in margine a Estranea canzone (Manni, Lecce 2000),avesse notato che le “necessarie-imprevedibili tappe” del suo solitario lavoro poetico le garantivano “un posto di singolarissimo rilievo, di forte evidenza entro il quadro della ricerca poetica attuale”.
Condannata quasi paradossalmente al ruolo di “invisibile” tra tanti amati “invisibili” del suo personale pantheon poetico (tra tutte, la più amata, “l’ombra vivente” di Nadia Campana, assieme a quella russa di Marina), Maria Pia Quintavalla sconta forse il troppo amore per gli altri, “fratelli e sorelle, che non presero la parola”  fedele alla raccomandazione fattale in un soffio da China morente di coltivare gli altri nella memoria (“ricordati di lodarla”, riferito alla sorella): una sorta di Orfeo al femminile che ridà voce e vita per forza di scrittura a fantasmi e fantasie, ad “essenze e parvori” altrimenti dimenticati. È questo che certo establishment fa fatica a perdonarle?

Partire da China, dunque, dalla figura della Madre, evocata e aureolata di nostalgia, nel purgatoriale ambulacro di un desiderio di rinascita: lo stesso che compariva già in Album feriale del 2005, e che qui in questo romanzo in versi prepotentemente si staglia come un archetipo in tutta la sua “sempreviva” forza, a riprova della sua urgente distanza di fantasma necessario, di filo tenace di un destino che chiede e impone regole nella vita di ciascuno e vuole e deve perpetuarsi come “affettuoso / legame” al di là dell’apparire, come “sfondo ideale di una famiglia”, come si legge in conclusione di China.
Partire da qui, dal suo modo di rapportarsi con un nodo forte di emozioni, mettendosi totalmente a nudo di fronte a lei, alla Madre, per lasciare agire ogni altra presenza in uno spazio da comprimari, dando luogo a un privato teatrino esistenziale: una sorta di “educazione sentimentale”, dunque, costruita attraverso un muto dialogo, “una storia” tenace e potente, ancorché “invisibile ai più”, che acquista il suo essenziale valore testimoniale come assoluta necessità di un ricupero senza rete del passato, in virtù di un’assenza, quella di qualsiasi didascalia e nota introduttiva sul personaggio, quasi a voler proclamare la necessità di guardarsi in lei senza alcun intermediario, essendo se stessa e Lei contemporaneamente.

Ecco ora a far da pendant, necessario ed essenziale pendant emozionale e sentimentale, I compianti, edito anch’esso da Effigie (Milano, 2013), in cui l’altra figura, il paredro del freudiano “romanzo familiare”, il Padre, prende corpo e consistenza, attraverso una sorta di via crucis, una recherche, ansiosa e amorosa al tempo stesso, per luoghi e situazioni della vita, di ciò che di Lui la figlia sa rintracciare ed evidenziare attraverso un rito “convinto di parole”.

Sullo sfondo ben concreto e suggestivo di una città, Parma, luogo fondante e omphalos di un’essenziale esposizione alla vita, denso di suggestioni letterarie e soprattutto artistiche (Correggio), passato e presente,  memoria e sogno, si lasciano convocare per dare “congedo” a ciò da cui prende l’avvio il suo oggi, in una sorta di percorso all’incontrario rispetto al libro precedente: là, evocando, con l’ostinazione a far risorgere la sua Euridice; qui, placando l’ombra irrimediabilmente in fuga, attraverso una “narrazione dentro”, di scarne parole. Con la consapevolezza, dolente in entrambi i casi, di vivere da “testimone” solitario in un tempo “altro”, in un’”età moderna” di mature responsabilità, che dice la distanza dal tempo delle favole.

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Vincenzo Guarracino
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