Una parola tra pathos e distanza -prefazione a “Terra di risulta”

terra di risulta lecomteTerra di risulta è un titolo indubbiamente insolito per una raccolta di poesia, in quanto il termine è specificamente usato in ambito di ingegneria edile, anche in campo tecnico-ecologico e, talvolta per scavi archeologici, in quanto indica i vari materiali scaturiti dall’attività di scavo e allude a tutto ciò che resta o si ricava: un misto di terra e detriti, pietre e residuato fossile, non assimilabile ai rifiuti, ma che può essere riutilizzato, dopo un’ulteriore cernita. In effetti, il tono e l’atmosfera che attraversa questo nuovo libro di Mia Lecomte – che oltre poetessa, è critica e brava traduttrice, attenta osservatrice anche delle lingue e culture migranti – è proprio di una poetica in re: la poesia parte dalle cose nei testi di Mia, per inoltrarsi poi in uno scavo che riveli il senso.

Poesia, dunque, che rifuggendo dalla mimesi e dalla visionarietà, così come dal lirismo consueto centrato sulle vicende intime dell’io, segue un’altra via che si richiama a una precisa tradizione che, in parte almeno, è ricollegabile al nome magistrale di Antonio Porta. Poesia certamente di ricerca e sperimentazione quella di Mia Lecomte, seppure lontana da una linea poetica di certa neoavanguardia che si può far risalire a Sanguineti, per capirci, in quanto la poetessa italo-francese vede nella parola poetica, nel suo ritmo incalzante, nella costruzione sintattica slogata e ricca di enjambements non il modo per denunciare la vanità della lingua e l’impossibilità del comunicare in un mondo degradato, ma la via per attingere il senso più nascosto del reale. L’autrice, infatti, si avvicina ai realia nella loro quotidianità e dà voce a oggetti e luoghi concreti, a persone e animali celebri, storici o letterari, per mostrare il perturbante, ovvero, ciò che – da Freud in poi – ci è allo stesso tempo assolutamente familiare e assolutamente alieno. E così facendo, Mia arriva a mostrare l’estraneità con cui tutto attorno a noi pare rispondere al nostro stesso sguardo estraniato. Possiamo dire che questa è veramente poesia di scavo che indaga nel patrimonio del vissuto individuale e nell’immaginario, ma che sonda il passato non per nostalgia, non per un elegiaco canto di ciò che c’era, bensì per scendere in profondità e dirci che tutti abitiamo e contemporaneamente non abitiamo la terra, potremmo dire. Se fosse solo così avremmo un testo filosofico e non poesia, ma dal nome di un luogo, di un animale o di una città, così come da quello di un oggetto della produzione – conosciuto dall’autrice da bambina come personaggio della pubblicità nel famoso Carosello degli anni Sessanta, come dice la stessa Mia – prende vita sulla pagina un “congegno linguistico” percussivo e ad ampie volute che, scendendo e dilatandosi, rivela con il suo procedere che ogni esistenza è segnata dalla disappartenenza.

Nei versi di Mia, tuttavia, allo svelare l’assurdo del vivere, il destino di esilio, fa da contraltare anche una sorta di “sguardo” laterale e, infatti, in Terra di risulta si scorge una tensione utopica che spinge in avanti la scrittura e intuiamo la possibilità che, pur abitando il territorio dell’esilio, possiamo “essere affratellati”, come si legge in Dalla Moscova alla Neva: «Condividere il ghiaccio / nei canali verso il ponte / lungo il fiume condividere / spazi tra i palazzi verdeazzurri / nei palazzi condividere / fuochi e sonno tra le casse e la luce dell’entrata». Se iniziassimo a “condividere” il luogo che abitiamo, il minimo oggetto, il piccolo gesto quotidiano, vedremmo nella vita un altro senso.

La ricerca di Mia Lecomte ha, comunque, il suo perno “perforante” nella sua lingua mobile e vibrante, tesa fra un’epicità quasi da salmo – con le ripetute anafore ed epifore – e modalità pseudoscientifiche, sempre però attraversate da una tensione che, emozionalmente, empateticamente, aderendo alle cose del mondo, scava nel dato oggettivo, per darne una lettura espressionista, però sempre misurata nei toni, controllata nelle scelte.

Lingua vibrante e sofferta, dunque, che sa unire gergo quotidiano e vocaboli aulici, neologismi e liricità, in una sorta di attraversamento delle varie forme di vita per nominare lo spaesamento, l’estraneità che la poetessa stessa sente di vivere proprio in quanto vivente, come si dice in Madame Tussauds dove, evocando di lato il grande Shakespeare, con un piglio che intrica e ribalta continuamente i punti di vista, leggiamo: «Siete tutti nella stessa metà del sogno / rimpatriati in una verità dimezzata vi sentite sicuri così parzialmente / insediati non potete che sapervi / risolti per la parte migliore scampata / alla parte migliore con la parte peggiore / esiliata dalla parte peggiore». A contraltare di questo tono da Waste land, vi è però nel libro una forte tensione religiosa e lo si vede subito, nel testo che, come esergo, apre la raccolta: «Pietà di noi, pietà, / dell’erba che non cresce, pietà, / del tetto e la facciata, degli usci / senza chiave, pietà, dei nostri / ambienti vuoti, pietà del suono e / della luce, ancora spenti». La lingua della poetessa ha in sé un ritmo che l’avvicina a certo salmodiare medievale, mirante anche a una parola corale in cui la poesia si fa prossima alla preghiera, il che ci fa dire che quella di Mia è poesia della soglia, in bilico tra pathos e distanza, sorta di controcanto dell’esistenza. In relazione a quanto detto, si nota come nei versi di Terra di risulta sia importante il tema del sacrificio e della resurrezione, e lo si vede già in Cirene, il primo testo della raccolta: poesia dedicata a Simone, l’uomo che secondo i Vangeli fu obbligato dai soldati romani ad aiutare Cristo per sollevare la croce nella salita al Golgota. Qui il ritmo anaforico è crescente, quasi ossessivo nel dire il battito del destino, svelando come lo sguardo della poetessa sappia cogliere come l’attesa e il sacrificio siano condizioni esistenziali che dicono il tragico del nostro vivere.

Nei versi iniziali, infatti, leggiamo: «Una vita è / quello che intanto si porta in attesa di altro» e nel finale: «Una croce è / quello che intanto si tace in attesa di altro», mentre in tutto il testo la ricorrenza dell’espressione «ti hanno scelto» – riferita a Simone di Cirene – sottolinea la presenza di un destino: «Ti hanno scelto e temevi di gettare / il cappello, ti hanno scelto, fermati sul fianco / la veste in nodo imperfetto, ti hanno scelto, / di addossarti un istante intricato di piaghe / l’imprudenza di avvolgerti stretto all’odore di pianto». Torna poi il tema dell’attesa e del destino che assegna solitudine e fatica anche in Lezioni salentine dove, con l’anafora ed epifora dei ripetuti «si sta», il lettore viene come inchiodato in un luogo di mezzo: l’esistenza è non appartenenza, impossibilità di patria e casa: «Si sta come davvero nel mezzo / del senso più profondo di stare tra due mari / consapevoli delle rocce che squarciano spiagge / della luce che finisce più presto più tarda».

Si parla di resurrezione nel testo precedente, riferito a un’esperienza personale dell’autrice, Resurrezione sull’Hudson, dove una sorta di leivmotiv ritma il fulcro immaginativo e dà un tono quasi profetico al testo: «Poi mi hai detto che la carne non è / tutta la vita sai la carne non è mai / tutta la vita» e lo si rilegge, con il verbo appena mutato, nella strofa seguente: «Ma hai ridetto che non è tutta la vita / che la carne non è mai tutta la vita / quattro volte nientemeno / era pasqua e la barchetta è colata / senza aver praticato un solo inchiostro / dei bisonti tutti i fiati stesi a picco ». Veniamo così a sapere che la scena si svolge nei giorni della pasqua ed è in atto una trasformazione che però pare non dare ancora senso al mondo.

Il senso è ciò che manca alle cose, a tutti noi e la poetessa, ostinatamente, in Swissminiature ce lo rivela a partire da certi luoghi di divertimento conosciuti da bambini (come Minitalia o simili), dove nel “volutamente falso”, nella miniatura emerge chiaro “ciò che manca” alla vita reale e dove l’esplicita simulazione permette all’autrice di svelare, per contrasto, ciò che «occorre » alla vita: «Occorre scompagnarne le ragioni / farne terra promessa ai voli più spaesati» e poi ancora «occorre rinnovarne le utopie / rischiare Heidi urbanizzata / e i lanzichenecchi seduti nella stübe» e, infine, leggiamo: «Occorre rifugiarsi dentro al minimo /vagliando prospettive in proporzione / e starci stabilendo palmo a palmo / misure sempre in scala del dolore». La religiosità si fa più esplicita in alcuni testi dove compare il Cristo nel momento della passione, diventando emblema della condizione di solitudine e dolore dell’esistenza di tutti: «Le voci sono semplici si somigliano tutte / riportano il coro alla pazienza del figlio / perché mi hai abbandonato / a quell’unica nota che l’infanzia riconosce / nel palato sulla lingua dura in gola». Lo stesso accade nei versi di Zigulì, nella sezione successiva, Oggetti naturali – dove dalla pallina di zucchero che evoca l’infanzia si fa risalire l’eco delle preghiere, il senso di insufficienza dell’umano e del peccato: «Dopo il sanctus e il credo a schiera / tra i ventagli cartoline quanto meno / sai è il peccato e il caldo affanno / fa il sudore tutto in veli / screpolati muffe storiche nel nero / petti baffi e nei pelosi non son degna / alla tua mensa ma dì solo una parola».

Nei testi di questa sezione l’infanzia è al centro e diventa sorta di condizione ontologica perenne dell’umano, come accade in Polaroid, dove i due bimbi della foto sono “sempre piccoli”, immobili nel tempo; o come accade in Viale dei tigli – nella sezione Viario in rilievo – dove l’infanzia è colta in una fuga, in un moto di terrore della bambina inseguita e diventa condizione emblematica dell’inadeguatezza e, contemporaneamente, della paura del vivere. Il libro torna poi a dar voce alla non appartenenza nei testi molto inventivi della sezione finale, Bestiario naturale: monologhi di animali reali, fantastici, storici o letterari dove la parola si dà sempre in bilico tra filastrocca e tragedia.

Qui incontriamo il Cuculide, nel testo eponimo, che dicendo tutto il suo dolore, l’impotenza e l’imbarazzo che prova, visti i suo limiti vocali, dice anche che sa che non può far altro che ripetere il suo canto, diventando, dunque, una specie di figurazione del poetare, almeno per come l’intende Mia Lecomte, per la quale la poesia ha il compito di farsi lingua ritmica, percussiva e ossessiva, persino, nel suo procedere ostinata, per larghe campate e attraversare così le cose del mondo, diventando “scavo” che svela la disappartenenza. Resta però qualcosa d’altro oltre questo: la terra di risulta, quella fragile, frantumata e resistente parola che è la poesia, voce tra i detriti, lingua sempre in bilico tra esistenza e sparizione.

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Gabriela Fantato
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