Su “L’editto finale” di Alessandro Ricci

di Domenico Vuoto

alessandro ricci editto finaleI tempi condannano la nostalgia come uno sguardo volto all’inattualità del ritorno. Eppure, non è forse nel viaggio del ritorno e nella sua pena il lievito dell’arte? E il viaggio, o l’attesa che lo precede, non contempla il rischio, la rottura con i luoghi convenuti, le vigilie e veglie febbrili, e infine un approdo che potrebbe rivelarsi mortale? Chi frequenta l’assenza o il deserto e le loro affollate solitudini, chi si spinge alla ricerca di una verità oltre l’evidenza e le ingannevoli certificazioni della luce – il poeta – sa che appunto alla ricerca non c’è alternativa e che essa richiede un percorso avventuroso dove l’azzardo, la discesa nei propri e altrui inferi, muniti del sostegno della parola e del pensiero, non conoscono tregua. Ogni viatico verbale si affida a una voce, alla capacità di modularla secondo esigenze di unicità e necessità interiore, di musicalità e rotture e aspre dissonanze nello spartito poetico.

Sono, quelli sopra citati, taluni dei motivi che qualificano la voce di Alessandro Ricci e le conferiscono (al di là degli influssi di importanti autori storici: Montale, Eliot, per fare degli esempi) un marchio di forte originalità, e attualità, nella poesia a cavallo tra il secolo scorso e gli inizi del nuovo millennio. L’autore, che è mancato nel duemilaquattro, ha intervallato alla poesia interessi vari, ma in gran parte riconducibili al sentimento del viaggio, della lontananza, dell’inquietudine. Ha pubblicato in vita due piccoli libri di versi, Le segnalazioni mediante i fuochi e Indagini sul crollo. Postumi, invece, usciti con le edizioni Il Labirinto: I cavalli del nemico, L’arpa romana.

Il presente volume, L’editto finale, raccoglie una serie di inediti, divisi in cinque sezioni; è curato da Francesco Dalessandro, poeta lui stesso e insieme amico, affidatario e curatore delle opere di Ricci. Il quale, prima che al lettore, sembra aver deciso di negare a se stesso (con gesto di orgogliosa ripulsa o disconoscimento)  le sue “carte”. E però, come meglio spiega  Dalessandro nella sua nota esaustiva, la quasi totalità delle poesie risultano ordinate dall’autore secondo una cronologia puntigliosa – e un altrettanto puntiglioso criterio di assegnazione di valore. Una singolare contraddizione. Un dualismo di comportamenti, propositi, istanze sentimentali che si fanno materia pulsante dell’opera complessiva del poeta. Dissipazione (di sé e della parola poetica) e ricerca di una misura; spleen e poi soprassalti di nera allegrezza; amore e disamore (o anche: malamore); quiete, per quanto instabile, e disperazione; iperbolica costruzione dell’io e sua improvvisa deflagrazione in detriti e frammenti che raggiungono l’altro – un voi, un noi – con una violenza perforante accomunandolo in un destino di perdita. E poi: compattezza del verso e (conclamate) sprezzature sonore e svincolamenti logici, garbo e dolcezza a fronte d’ironia o sarcasmo – o addirittura sberleffo, acre sberleffo. Come in Donne: “Se è vero che le sofferenze d’amore possono misurarle / i nipoti di Freud, il prof. Cazzullo, gli stregoni, dio padre / onnipotente e chi altro mai negli intermundia / delle trascendenze, fino al punto di convincerci / che tutto sommato non ci va malissimo o che, amen, / è stata una pessima idea, noi stiamo al fenomeno”.

A questo punto bisognerà tornare alla nostalgia come forza propulsiva del fare poetico. Stabilire come in Alessandro Ricci il sentimento è forse (l’incertezza è d’obbligo con un autore che riserva continue sorprese nell’ordine stesso delle contrapposizioni) rivolto a un altrove, a un’imminenza dove la vigilia di un evento è, nella riesumazione memoriale delle disfatte, evento già compiuto; la prossimità del viaggio è viaggio in atto; l’inclinazione alla morte è mortale consumazione. Dove il discrimine tra ideazione e azione sembra sfumare e la loro contiguità risolversi in una disincantata cognizione del vivere. Del resto, già titoli delle precedenti raccolte dicono di quell’altrove, di quell’imminenza, paradigmatici di una condizione esistenziale – si pensi a Le segnalazioni mediante i fuochi o a I cavalli del nemico

Nei fuochi notturni che illuminano una vigilia che ha il senso di un redde rationem, nelle ridotte, nell’attesa l’uomo assume in solitudine consapevolezza del proprio destino e della sua irrimediabilità. Come in Gladiatori di mezzogiorno: “Quest’ultima luce – che ozio / l’attira nei sotterranei? – questa / luce che traina urla di complici / è tenera e profumata, hai poco / da disprezzare. // E poi: già odoriamo di sangue”.

O nella poesia di straordinaria bellezza e respiro poematico in cui sullo storico Ammiano (e sul poeta che ne riveste i panni) si condensano un interrogativo esistenziale e una risposta di stoica ineluttabilità: “Ammiano se ne sta andando, perché? / Dopo molto pensarci, / s’è deciso per la stanchezza. / L’ha divisa / dagli eventi e dal caso. Sazia, / non varia. Sa che / la carne è mancata, le dita / non hanno presa, che / il desiderio è vano”.

È la strofe iniziale della poesia. La cadenza grave, la solennità del tono e ritualità del gesto, innervano l’intera composizione. E costituiscono alcuni dei tratti caratterizzanti di questo come di altri componimenti, di questa come di altre raccolte. Conoscitore della cultura classica, soprattutto latina, e di storia non solo romana, il poeta ne fa un uso esemplificativo superando così le contingenze storiche e attestandosi in un luogo ideale che è la somma di tutti i luoghi dell’anima; dove l’uomo officia la sua dolorosa funzione laica, in solitudine, ripeto, inerme nell’attesa di un nemico invisibile, prima che imprevedibile – un nemico che lascia al lettore opportunità interpretative plurime: esistenza e cancellazione mortale dell’esistenza. Vita come premeditazione  di morte.

L’editto finale è un libro felicemente diseguale. Grande mobilità e libertà del verso assecondate da un ritmo che ai toni distesi, “argomentativi”, fa seguire sussulti sonori e di senso che lacerano l’ordito inducendo nel lettore spaesamento e disagio: vitalissimi. Un’opera di costruzione e di rapida decostruzione, un’anarchia di umori, di esiti. Come in Madrigale pensile: “Resta ancora un poco. / Il vizio / dell’espressione, il fiato sospeso / sui pozzi, il pugnale / della rovina, finiranno. Comincia / l’estate”.

Né meno vitale sconcerto provoca il gioco dei sentimenti. Del sentimento d’amore che ha nella raccolta decisiva importanza ed è disvelamento di inconciliabilità, di malessere, d’incomprensione che prelude a una dismissione amorosa. Al meglio: di esitazioni e sospensioni adolescenziali, sempre d’amore. Si vada, a chiusa di queste annotazioni critiche, ad alcuni versi della bella poesia che dà titolo ad una sezione, Con lievi variazioni di tono: “Fuori neve, al suo inizio. Vedi / dal finestrone sbiancare l’abetaia e le prime / pendici dello Sciliar, anch’esse rase / dalla muffa esatta che vi cade. Lento / felpare di stagione, assiduo / ultimare: che bufera / accade nei tuoi occhi. A tratti / fulmina. / Ma di nuovo / si avventa il tuo sorriso: dunque, / non mi dirai”.

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