La poesia in forma di prosa – Nuove linee di tendenza

il-segnale80Nel mese di settembre 2004 il gruppo Formica Nera, nel suo sito online, propose un manifesto tecnico della poesia in cinque punti, invitando i naviganti a una libera discussione.

Il primo di tali punti così recitava: «La poesia delimita organismi linguistici in cui va riconosciuto il verso come elemento costitutivo»; una tesi, questa, che ci parve subito fuori tempo massimo, tanto è vero che, neppure due anni dopo, usciva nella collana Lo Specchio (Poeti del nostro tempo) Cronaca perduta di Tiziano Rossi (Mondadori, 2006): una raccolta di umane vicende – microstorie di evangelica semplicità – condensate in forma di prosa.

Ciò nonostante, è innegabile che la stragrande parte della poesia che oggi si pubblica, anche se talvolta di contenuto decisamente prosastico, si scrive ancora in versi.

Ma fateci caso: ascoltando un poeta che legge in pubblico i suoi versi, quasi mai riuscite a capire quando nel testo c’è l’a capo. Anzi, spesso l’autore fa pause (espressive) fra una parola e l’altra a prescindere dagli a capo stessi.

I versi, però, sulla pagina ci sono, e magari raggruppati in inudibili strofe.

I più spiegano questa contraddizione col fatto che il poeta si è dato una regola metrica e intende renderla visivamente evidente. Ma la contraddizione resta, perché, all’ascolto, la musicalità del metro si avverte pur in una lettura senza soste.

Dal che si deduce – o perlomeno io deduco – che tanta poesia d’oggi si potrebbe stendere tranquillamente in forma di prosa senza inficiarne l’effetto né la sostanza.

Insomma, se (A) nella poesia ascoltata non si distinguono gli a capo né le strofe, e le pause sono a discrezione e se (B) la poesia ascoltata non perde qualità né musicalità, ne consegue necessariamente che (C) la poesia potrebbe essere scritta senza gli a capo – in forma di prosa – senza perdere qualità e musicalità.

In conclusione, quindi, credo si possa dire che la poesia, oggi, non è più definibile soltanto come «arte e tecnica di espressione in versi» (Zingarelli) o come «quella parte della letteratura caratterizzata da una forma chiusa» (S. Battaglia).

Come definire allora la poesia in un nuovo ipotetico dizionario?

Io direi così: la più alta forma di linguaggio espressivo di cui l’uomo è capace. Un linguaggio ad alta condensazione connotativa in cui la significazione lessicale subordina a sé, fino alla trasgressione, gli elementi prosodici e sintattici della normale comunicazione.

Ma permettetemi una digressione. Si è parlato qui sopra più volte di musicalità, intesa, nella poesia, come valore imprescindibile e inscindibile dagli altri che la caratterizzano (pensiero e immagine). Anche qui mi pare opportuno fare qualche riflessione.

A quale musica fanno riferimento gli aficionados delle forme chiuse? È accettabile che in un contesto musicale quale si è delineato da un secolo a questa parte, dei poeti compongano testi musicalmente strutturati secondo modelli armonici e melodici sei-ottocenteschi?

Non insegnano nulla vecchi maestri come Andrea Zanzotto (Sovrimpressioni, Mondadori, 2001), i cui testi, sovente, sono veri e propri spartiti di musica nuova? come il selvatico Roberto Roversi (La partita di calcio, Pironti, 2001), incurante di armonie e cadenze, come si conviene a un paesaggio – il nostro – che si disfa e implode? o come Cesare Viviani, a tutti gli effetti un nuovo maestro, pure lui di lungo corso, che nel 2005 pubblica La forma della vita (Einaudi), un’opera fondante sia sul piano espressivo per la sua profonda e sofferta relazione col mondo, sia sul piano formale per la declinazione radicalmente prosastica e per l’assunzione di una scrittura a tratti provocatoriamente denotativa?

Versi, strofe, armonie… sonetti…

Se è vero che nel secolo appena trascorso l’avanzamento della scienza e della tecnologia hanno influenzato la percezione della realtà e la sua rappresentazione (e quindi l’arte), come mai non sembrano aver influenzato – formalmente – la poesia, che invece, unica fra le arti, resta immutabile, strenuamente abbarbicata ai modelli formali della tradizione millenaria? E come mai qui da noi ognuno riconosce la grandezza di un Rimbaud ma non si vuol prendere atto, traendone le debite conseguenze, che le Illuminations e la Saison en enfer sono scritte in forma di prosa?

Ma finalmente, in questo principio di secolo, si è manifestata una nutrita schiera di poeti, in via di espansione, che con sempre maggior consapevolezza e determinazione persegue una scrittura poetica in forma di prosa.

In ordine di vetustà anagrafica, si va dal laconico Giampiero Neri, il primo forse a proporre, con L’aspetto occidentale del vestito (Guanda 1976) una poesiaracconto, una scrittura icasticamente prosastica, a Flavio Ermini, che nel 2001 pubblica il Poema n. 10 (Empiria), «un corpus scarno ed ellittico, estremo reiterato tentativo di tradurre in poesia la desolazione di un’irredimibile ineffabilità»; passando per il già citato Tiziano Rossi, che a tutti gli effetti può essere considerato l’iniziatore di una nuova scrittura poetica e per l’appartato Giulio Campiglio che, con La soglia scomparsa (sua undicesima raccolta, Book, 2007), in una prosa distesa ma densa, intreccia pensiero poetante e poesia pensante.

Ma a provare questi nuovi percorsi, e in alcuni casi in avanscoperta, ci sono anche non pochi più o meno giovani poeti, come Silvio Giussani, con Madam Trusseaud (Tamari, 1994), Rosaria Lo Russo con Sequenza orante (Bompiani, 1998), Rosa Pierno con Musicale (Via Herakleia, 1999), Stefano Guglielmin con Come a beato confine (Book, 2003), Gherardo Bortolotti con Canopo (Ed. Biagio Cepollaro, 2005), Marco Giovenale con Numeri primi (Arcipelago, 2006), Marinella Galletti con Dentro alle fonti (Anterem, 2006).

In quest’ambito, infine, non possiamo non ricordare l’esperienza-esperimento della collana Corpo 10 di Michelangelo Coviello (e lo stesso Coviello come autore, anche se ultimamente è tornato alla versificazione), attiva negli anni Ottanta dello scorso secolo.

È superfluo precisare che non propugnamo l’abolizione universale della versificazione. Sappiamo benissimo che ci sono ottimi poeti e belle poesie che per interna necessità non possono fare a meno di una versificazione metricamente determinata: i dialettali, ovviamente, per ragioni per così dire genetiche, e, un esempio per tutti, il sempre sorprendente Guido Oldani.

Semplicemente riteniamo che poeti come Roversi, Neri e Viviani (e non solo) potrebbero abolire gli a capo senza creare nocumento alcuno alle loro scritture. Mancando infatti in esse rima e metro e con pause espressive non sempre corrispondenti agli a capo, la versificazione sembra essere solo l’obbedienza a una convenzione.

(Pubblicato sulla rivista letteraria «Il Segnale», n. 80.)

Lelio Scanavini
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4 Comments

  • Non ho titolo per dotte dissertazioni, ma sin dalle mie prime letture, ebbi la sensazione che la forma, nelle poesie del passato, fosse importante al pari del contenuto della frase. Pensai alla nobiltà cui era destinata, non necessariamente coltissima, sfogliare il libro sempre illustrato, attardarsi sulle figure e l’armonia della metrica, delle rime, fin della grafia, come si fa coi caratteri orientali, mentre ascoltava il poeta declamare.

  • Il tema è decisamente interessante. Mi permetto però di difendere la pratica della versificazione perché credo che una vera contaminazione dei generi (ed io pratico anche i territori linguistici ibridi) sia possibile solo nella fecondità generata dalle differenze. Se tali differenze vengono a mancare… niente avremo più di veramente ibrido. Per quanto riguarda poi il fatto che di molti testi poetici letti dagli autori, non si colgano gli a capo e le sospensioni, questo è unicamente imputabile al fatto che purtroppo anche tanti bravi autori non sono lettori…e quindi non riescono ad esprimere una lettura adeguata. Il verso prosastico o narrativo, inoltre, non è prosa…ha un andamento fonetico diverso nella tessitura e nella modulazione dei passi, ma è altra cosa rispetto alla prosa. Infatti, tanta parte della produzione letteraria in questi termini, a partire dal concetto di poema in prosa (molto discutibile perché se è poema non dovrebbe essere in prosa…se è prosa non dovrebbe essere poema) realizza un modo di abitare la pagina attraverso brevi brani (con una configurazione che risponde a degli equilibri visivi più che fonetici) in realtà costitutivi di una prosa creativa o poetica, non di effettiva poesia. Già Montale metteva giustamente in discussione queste differenze che potrebbero indurre a catalogare i sostenitori della versificazione come “arretrate figure di un passato remoto”…ma, ripeto, io credo che solo se la poesia saprà ancora caratterizzarsi attraverso una qualche forma (e diversi esiti) di versificazione, potrà non solo mantenere la ritmicità dell’impianto e della sua efficacia, ma anche davvero allora tentare sviluppi in aree di confine, coinvolgendo aspetti della prosa, così come la prosa potrà costruire architetture linguistiche capaci di immettere nella pagina incursioni di poesia. Una partitura letteraria più ampia e ricca, quindi, immune da infruttuose omologazioni che, in realtà, limitano e non potenziano l’espressione.

  • Anch’io credo che tanta poesia d’oggi si potrebbe tranquillamente stendere in forma di prosa . Ma non ditelo ai poeti nei cui testi si configura questa modalità , perché si offendono .

    leopoldo attolico –

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