Grandi opere, il carotaggio è multiplo: “Metro C” (Manni, 2013) di Alessandro De Santis

Metro-C.-Stazione-Grotte-Celoni-4

A sette anni dall’esordio con Il cielo interrato (Joker, 2006), la seconda raccolta poetica di Alessandro De Santis si presenta come un libro molto compatto e al tempo stesso molto fragile. Non ‘debole’, beninteso; semplicemente, l’esplorazione della fragilità – che è urbana, prima di tutto, ma anche affettiva, esistenziale, politica – rende il dettato poetico estremamente accogliente verso di essa, impedendone una – sempre facile – sovradeterminazione retorica.

In virtù di questo paradosso strutturale, la raccolta finisce per configurarsi come una Via Crucis laica, che attraversa le varie fermate di quella Metro C che dà il titolo al libro (pubblicato per Manni nel 2013). Anzi, in virtù della divisione, molto netta, in tre sezioni – “Carotaggi”, “Fermate” e “Destinazione” – Metro C sembra inizialmente proporre un viaggio lineare, un’evoluzione che porta, in modo pacifico e serafico, alla crocifissione e alla resurrezione. Lo sviluppo metafisico è però sconosciuto – almeno nella versione inebetita o, di nuovo, retorica, che è propria di altri autori – alla poesia di De Santis, il quale si sofferma sulle piccole cose – senza patire, su questo punto, il confronto con la tradizione lirica, già gravata di mille imitazioni – e sulla prosaicità della vita quotidiana, non proponendo mai, neanche per negazione, un’oltranza che sia in qualche modo decisiva.

Siamo calati in una galleria della metro, d’altronde: ne fornisce conferma il testo finale, “Giuochi istmici” (dal significativo sottotitolo: “Ore 12,22. C’è pure la lirica. Le scarpe scendono”), che si concentra su una gnome particolare, cara anche a chi scrive (“Si scava verso un fondo / che fondo non è mai”), raddoppiata poco più avanti da un simbolismo materialmente funebre, eppure trattato con leggerezza e ironia (“ossa e occhiaie vengon fuori / e la gente scalpita”).

Anche certi enjambements esplicitamente arditi (“ha chiesto al mondo a / che round eravamo”) ci mettono di fronte al dubbio che, in luogo del gioco di morte e rinascita, la metro che abbiamo preso possa cadere, a un certo punto, in un burrone, e perdersi… in un cantiere rimasto aperto, per esempio – per rimanere in linea con l’ironia che emerge, in sottotraccia, in tutta la raccolta.

Ci si deve soffermare allora non sul telos – impossibile, laddove la linea C della Metro di Roma, cui si fa riferimento nel titolo, è ancora da realizzarsi – bensì sull’incedere, sulle varie fermate. Qui, la lingua di De Santis avanza – lasciando perdere i cascami della linea lombarda, o il ritorno alle borgate romane, nel solco dei vari Pasolini e Siti –  verso la ricerca della propria tradizione, costruendola, passo passo, in modo complesso. Non è facile registrare quale carotaggio sia stato precisamente scelto dall’autore, in presenza di un carotaggio multiplo, plurale, che è esercizio di rabdomanzia, piuttosto che pragmatica invenzione a tavolino del proprio stile.

Con giusta prudenza, nella sua lucida e appassionata “Nota” di apertura, Aurelio Picca non si sofferma sulle influenze registrabili nella voce dell’autore, preferendo una brillante e lucida cavalcata metaforica. Di seguito, sono già le quattro epigrafi iniziali scelte dall’autore a fornire problemi di coesistenza a chi ne volesse trarre un’indicazione di poetica univoca e coerente. Attraversando il Novecento e fornendo le aperture necessarie a superarlo, Clemente Rebora, Fabio Pusterla, Mario Benedetti e Flavio Santi sono nonni, padri e fratelli maggiori per De Santis… e al tempo stesso non lo sono.

Merita, infatti, altrettanta menzione la tradizione del “romanzo in versi” (che, negli ultimi tempi, ha in Luca Ariano uno dei suoi più chiari esponenti, in presenza, però, di una ricorsività strutturale di nomi-personaggi che in Metro C, che si sviluppa a episodi, non c’è) e il fauvismo di Simone Cattaneo, del quale, a differenza di tanti critici, apologeti e promoter post mortem, De Santis è, in alcuni tratti, vero sodale.

Graniti
Ore 9,20. Un lupo mannaro o forse Kappler

Tutto il giorno aveva camminato sul ciglio della strada
contava i passi e li classificava
e poi passava agli organi, alle carni
la lingua lastricata e le sue selci
intrise del sudore del non dire
Aveva infilato le mani chiuse a pugno nelle tasche
ed era risalito sin dentro alla campagna
Fatto inventario dei pali dei filari
piantati come croci, sporcato la punta
delle scarpe nello stabbio
Ore ed ore si era soffermato,
intere ere geologiche e crisi di governo
prima di vedere quella farfalla posarsi
sulla rete metallica del suicida
Senza dote di stelle lo raggiunse brusca la notte
gli aprì la bocca come a prender fiato.
Vide l’esatto diametro del cuore umano
e pensò che fosse proprio una bella
giornata per ricominciare, per un attacco aereo
negli occhi ancora il rapinoso schianto di quando
quel ponte se n’era sparito ghiotto.

*

Grotta Celoni.
Ore 23,55. La pioggia scoraggia. Vuoti

Il rumeno è biondo e ha
le ossa grosse, lo si sa
questo però è magro, smunto,
il viso pigiato sulle cosce
La postura è quella di una tagliola
i jeans puliti, azzurro chiaro
con punti di varechina sugli stinchi
le sue mani scarnite sembrano una carta
fisica colore di pianura,
solcata da vene nette come fiumi
La sua assenza stringe il cuore:
è qui e altrove,
senza requie
In strada, che vada in strada,
sangue d’un cane.

*

Farnesina
Ore 23,59. Poco prima del Big Bang. Senza fondo 

Stretto nel suo gilet, Mirco
si volta verso il muro di persone
la mano destra piantata
dritta nella tasca, scenica
il viso chiaro, sbarbato,
da vero neomelodico, capelli
a frangia e profumo neutro
da un pezzo già si è fatto tardi
ma anche se un po’ brilli gli amici
aspettano, ché non ha più diritto a dileguarsi
e dopo il ritornello c’è la strofa.

Lorenzo Mari
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2 Comments

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  • Caro Alessandro,
    come promesso sono andato a leggere su Poesia 2.0 lo scritto di Lorenzo
    Mari riguardo al tuo ultimo lavoro. Purtroppo non ho a disposizione
    altro che le poesie pubblicate e quel che ne pensa Lorenzo. Non sono in
    grado perciò di verificare ad esempio a quale “cavalcata metaforica”
    allude Mari in relazione alla nota di Picca, anche se la tua raccolta ha
    tutta l’aria di essere, in effetti, un viaggio, o meglio una discesa,
    forse una discesa in un underground che è molto più di quello figurale a
    cui alludi fin dal titolo. Forse addirittura una mise en abyme, una
    storia nella storia, che come sappiamo descrive un doppio livello, uno
    certo personale, l’altro sociale o politico, e in ultima analisi
    “critico” nei confronti della realtà.
    Con queste premesse non mi resta che rimanere al testo, “sul” testo. Nel
    primo brano ho apprezzato molto, per mia inclinazione teorica e prassi
    poetica, il ricorso a forme verbali storicizzanti (l’imperfetto, il
    trapassato prossimo, il passato remoto ecc.) che a mio avviso
    stabiliscono da una parte un assestamento della realtà, una sua
    “fissazione” (producendo così un dato “certo” su cui lavorare,
    riflettere, fare tesi), dall’altra innescano una narrazione che, come
    sappiamo, è una forma mimetica della realtà stessa. Ma in effetti anche
    il presente, nella tua poesia, sembra avere una funzione storicizzante,
    anzi cronachistica, e da questo punto di vista gli altri due testi non
    si discostano dal primo.
    Il resto dell’attenzione alla forma è rivolto, in quel che scrivi, a una
    versificazione che recupera stilemi propri sia di molta poesia del
    secondo Novecento e della prima avanguardia sia – anche qui – di certa
    narrativa recente, anche extraitaliana. Cosa che è abbastanza facile da
    dimostrare semplicemente smontando la versificazione e ricostruendola in
    maniera lineare (anche gli arditi enjambement che cita Lorenzo portano a
    questo). Del resto Mari allude appropriatamente alla tradizione del
    romanzo in versi.
    Ma si parlava, prima, di realtà, di politica, di critica. Ma quali? Nei
    tre testi che leggo mi sembra che la realtà sia già “accaduta” (e si
    parlava infatti di storicizzazione), e formata da una serie di piccoli
    fenomeni di per sé slegati (e Lorenzo dice bene quando parla di “piccole
    cose” e del tuo soffermarti “sulla prosaicità della vita quotidiana,
    non proponendo mai, neanche per negazione, un’oltranza che sia in
    qualche modo decisiva”). Parrebbe quindi, la tua, una presa d’atto
    poetica del circostante, ricondotta ad una serie di tableaux. E come
    tutte le prese d’atto avrebbe il limite di non prendere posizione, se
    non blandamente. Il secondo testo è in questo senso indicativo: è
    un’osservazione oggettiva, temperata da una bella metafora geografica,
    ma di cui si dice che “stringe il cuore”. C’è in chiusura quasi una
    forte imprecazione, che drammatizza la scena, ma di certo “stringere il
    cuore” è una blanda metafora (concettuale), un modo di dire. Che
    comunque rappresenta una presenza emozionale dell’autore, mentre nel
    terzo testo anch’essa è assente del tutto. Stando così le cose (da quel
    che posso vedere) mancherebbe un po’ di “cattiveria” nel dettato, un po’
    di “crudeltà” nella critica civile (entrambi i termini vanno presi con
    beneficio di inventario, ma hanno antecedenti illustri), di cui però c’è
    traccia, nella sua materialità, nella prima poesia. Insomma mi sto
    chiedendo se l’osservazione fenomenologica (ce n’è tanta nella poesia
    giovane attuale, specie quella “urbana”) non schiacci un po’ il pensiero
    critico, il che non vuol mica dire mettersi a fare sociologia, ma
    semmai innescare quel processo che porta il poeta a dire poeticamente
    (scusa il bisticcio) la sua, a dire al lettore (e meglio) quello che
    forse sa già, teme, patisce. Noto incidentalmente che in due dei tre
    testi troviamo “le mani chiuse a pugno nelle tasche” e “la mano destra
    piantata dritta nella tasca”. Una cosa che trovo molto indicativa di
    questi personaggi, e forse del riverberarsi su di essi dell’autore, ma
    qui stiamo parlando di poesia, non di linguaggio del corpo.
    Non dubito però (ma, ripeto, non sono in grado qui di controllarlo) che
    poi esista nel corpus della raccolta un effetto accumulo, una
    “ossessione” di queste visioni urbane, sotterranee, che riescono a fare
    massa critica, a fare “poema”, a colpire il lettore. Che insomma
    compongono quella “via crucis laica” di cui parla Lorenzo e di cui non
    discuto né l’onestà (in senso sabiano) dell’ispirazione, né il valore
    della scrittura.
    Questo è quello che mi sento di dirti, fuori dai denti. Sono
    consapevole, come ho detto prima, dei limiti di partenza di queste
    osservazioni. In ogni caso devi prenderle come opinioni, per loro natura
    confutabili.
    Saluti cari
    Giacomo

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