Pessoa e Salvia, poeti del cuore plurale

di Gabriella Sica

autoritratto salviaCi si può sentire a volte in esilio, randagi del pensiero e del cuore. Eppure, seduta su una panchina a villa Borghese, mi sento al centro della mia patria, al sole caldo dei Santi, in un giorno speciale anche numericamente, 1/11/2011, nella piazza degli scalpitanti Cavalli Marini, dove mi sono seduta per caso camminando.

Converso piacevolmente al telefonino con António Fournier che mi ha contattato per invitarmi a scrivere su Fernando Pessoa. Cosa pensano i poeti italiani di Pessoa? E subito, a sentire il nome melodioso del poeta portoghese (quasi eco per destino della parola poesia), converge nella mia mente il pensiero di Beppe Salvia, un poeta romano che nutriva la stessa passione di Pessoa per la scomparsa e l’assenza, tante volte messa in pratica, nella vita quotidiana e nella vita pubblica. Spariti, dileguati senza avviso. Entrambi mettevano in atto un vero spostamento della presenza, la dislocazione del proprio io altrove, attraverso l’uso sfrenato dell’eteronomia.

All’improvviso, come per incanto, mi appare la figura in nero, già con il cappotto, di Fernando Pessoa, con lo sguardo scuro dietro gli occhialetti senza montatura, che quella data deve aver notato, lui che si interessa di esoterismo e astrologia. Al contrario di me, ama l’autunno, quando tutto sta morendo, ama certamente queste “ore-crisantemo”, ma ama anche, come me, tutto quello che gli porta una notizia. I colori e i rumori, il mattino che si alza sfavillante dalla città devono coinvolgerlo anche ora che è a Roma e non a Lisbona, anche se lui si descrive “forestiero di ciò che vedo e sento”. Ma forse, come spesso gli accade, allude invece al contrario di quanto afferma, come in un raffinato arabesco. Si avvicina calpestando le foglie accartocciate, reduce dal Caffè della Casina delle Rose, dove io sto invece andando: abbiamo entrambi la passione dei bar dove leggere o scrivere, pensare o guardare. Strano che sia mattina perché Pessoa ama piuttosto farsi vedere al tramonto, nei bar di Lisbona, al Caffè Brasileira per esempio. Accanto c’è l’amico Beppe Salvia, con il suo sorriso candido e scherzoso e il suo “dispettoso naso”, che molto ha letto e amato Pessoa e da cui deve aver ricavato quel suo gusto per l’io plurale, l’io molteplice tante volte manifestato.

E ora, ridendo, me lo presenta.

Sono amici straordinariamente affini, questo è certo, entrambi con una gran voglia di travestirsi, di preparare con arte la fuga dalla vita mettendo altre vesti, inseguiti dallo stesso “orrore del domicilio” baudelairiano. Due poeti europei vissuti a distanza di meno di un secolo, in terre lontane, entrambi per lo più postumi, sempre dietro a un libro che puntualmente non si realizza, entrambi padroni straordinari del vocabolario, con poesie e prose cangianti e quanto mai vibranti, affini nell’irrequietezza e nell’inerzia febbrile, di cui la loro poesia altro non è che la spietata anatomia. Strano che due poeti, con un sentimento tanto intenso e vertiginoso dello spaesamento e dell’esilio, che si sono così tanto adoperati nell’esercizio del ritiro, così ben addestrati nell’arte dello smettere di partecipare alla vita durante la vita, me li trovi lì, proprio davanti a me, come un’apparizione, allegri e confidenziali, che sfoderano il loro miglior talento nel conversare con una persona, e accendere il loro ricco spirito di relazione e concatenazione, di cui hanno dato tante prove creando con la mente nuovi poeti che prima non esistevano.

Infatti non siamo solo in tre. All’imprevisto convegno degli erranti e degli instabili, intorno alla panchina su cui siedo, confluiscono anche i poeti inventati dai due con altri nomi, i “conoscenti inesistenti”, Altri con un corpo e pensieri, con biografie e abiti prestati, Altri come ombre. Non fuggiaschi alla ricerca di un nascondiglio, non esploratori e neppure solitari passanti tra la folla, ma “figure amiche”, come le chiama Salvia. Risorse straordinarie per Pessoa, “abbandonato a se stesso, nella desolazione di sentirsi vivere”. Sono persone diverse da Pessoa, che vuol dire proprio maschera dal latino persona. Persona travestita e ricca di tanti io, che formano quella moltitudine che lo libera e al contempo lo assedia. “Ebbi sempre, da bambino, la necessità di aumentare il mondo con personalità fittizie”. Ne sono stati calcolati più di venti di eteronimi, alcuni giovanili e fugaci, altri più stabili, nomi attraverso cui Pessoa può viaggiare distante dal proprio io e scrivere: “Componete fuori di me la mia vita interiore!”. Così come sono persone diverse da Salvia, fuori della sua persona, quelle che si avvicinano alla mia panchina, persone con il cui nome lui si firma, immaginarie figure di fanciulle o bambini.

Ho bisogno di tutta la mia attenzione, al sentire i numerosi nomi, per ricordarne fattezze e attitudini. E così si presentano, in questo vertiginoso transito di fantasmi. Prima gli amici di Pessoa, o meglio le sue più note controfigure in terra: “ognuno di noi è più d’uno, è molti”. Alberto Caeiro, “guardiano di greggi” sprofondato nel verde, è un uomo della natura, candido e infantile, che vuole togliere la polvere dagli occhi dell’europeo confuso: “L’essenziale è riuscire a vedere / riuscire a vedere senza stare a pensare, / riuscire a vedere quando si vede”. Álvaro de Campos, avanguardista di inizio secolo, un po’ marinettiano e un po’ dandy, con tutti i “sensi in ebollizione”, uomo di mare e vero pirata alla ricerca d’identità, è tutto il contrario di Pessoa. Ricardo Reis, il più classico, che scrive Odi come Orazio, in un improbabile equilibrio, scrive: “duriamo come vetri, / trasparenti alle luci”. E naturalmente Bernardo Soares, autore del bellissimo e rappresentativo Libro dell’inquietudine. Così Pessoa soddisfa “l’ansia insaziabile e molteplice dell’essere sempre la stessa persona e un’altra”.

Si presentano poi gli amici di Beppe Salvia. Subito la più nota, Elisa Sansovino, una ragazzetta sedicenne bella e aspra, controfigura dell’amore che c’è e non c’è, e che appare su una “motoretta” con altre amiche, in una foto finale del libretto di poesie che lei ha scritto, Estate (Roma, “Quaderni di Prato pagano”, Il Melograno – Abete Edizioni, 1985). La ragazza Elisa scrive poesie di afflizione: deve ormai lasciare la villa dove ha passato le vacanze estive per tornare a scuola.

Niente di cui stupirsi se si scopre che l’anagramma di quel nome di ragazza è: “io sento salvia”. E poi Queenex, come si firmava il Beppe disegnatore e/o scrittore di fumetti, che nel ’79 scrive: “to the maquillage / l’immodesta arte di troppe vite vivere”. E i suoi bambini-controfigure Flavio Giuliani e Ferruccio Dellea, inseriti in un’Antologia della nuovissima poesia italiana pubblicata nel 1985 sul n. 3 di “Prato pagano”. Un’idea scherzosa di Beppe a cui, insieme ad altri, anche io mi sono accodata, con le poesiole di una bambina di nome Candida.

I suoi eteronomi, come per Pessoa, non erano semplici “nom de plume”, ma l’evidente traduzione in poesia di figure che frammentano e ampliano l’io, tanto più in un’epoca apparentemente tranquilla ma di fatto già desolata e povera.

Gli eteronomi sono veri, vera l’identità plurale, vera la necessità di parlare a più nomi, di pensare e scrivere non con l’io ma con il noi. Perché Salvia è un poeta che, leggendolo all’improvviso, ancora mi coglie di sorpresa tanto sono memorabili certi suoi versi, come pochi altri del mio tempo. Ed è un poeta che, come pochi a fine Novecento, ha raccolto lo spaesamento e lo smarrimento di una generazione già ribelle al totalitarismo del mercato, con quell’ansia di infinito così in contrasto con tempi tanto limitanti: “…Sembra d’aver / qui nella casa un’altra casa, d’ombra, / e nella vita un’altra vita, eterna”.

Pessoa e Salvia sono figli di una fine di civiltà, figli di una sconfitta, come antichi greci che, reduci dal crollo della polis-Atene, provano a ricucire un’insopportabile arte del vivere, a trasformare quello scacco politico in vittoria, in quella che è la loro “gaia poesia”. Trasferirsi armi e bagagli in altre vesti testimonia un generoso slancio verso l’altrove, e l’ascolto di queste voci non è mai semplice rumore, è anzi frutto di un esercizio esatto, che è quello di chiarire sempre di più il senso delle parole allo scopo di provare a dire qualche cosa di vero. Si era infiacchita la politica, per Pessoa e per Salvia, e da quel momento sentono sempre di più la libertà di poter chiedere asilo con un altro passaporto, di sentirsi Nessuno, come Ulisse davanti al mostro. Sentono in modo lancinante l’abisso che separa gli uomini, il disagio di vivere con gli Altri nella più totale indifferenza: “gli altri non sono per noi altro che paesaggio”. È “l’indifferenza che permette che si uccidano persone senza capire che si uccide”. E aggiunge Pessoa, sempre con la sua scrittura intarsiata di meravigliosi aforismi: “Ad alcuni, però, questa distanza fra loro stessi e un altro essere non si rivela mai; per altri è talvolta illuminata, di orrore o di pena, da un lampo senza limiti”. Così, per lampi, intravedono anche la catastrofe che li aspetta e a cui non vogliono assistere, per uno la catastrofe bellica e per l’altro economica e morale. Già all’inizio degli anni Ottanta, Salvia scriveva di Elisa o di se stesso, emblemi di una generazione smarrita e debole: “sommessamente singhiozzavi un tuo / tormento per quella vana ricerca / d’un lavoro, ascolto ancora / quelle lacrime e ancora adesso / vorrei darti conforto”. E altrove: “A scrivere ho imparato dagli amici / ma senza di loro…”. Pietro Citati nell’87, sul “Corriere della Sera”, ha scritto: “l’Occidente scorge in Pessoa il proprio poeta: il poeta che meglio di ogni altro incarna lo spirito di questa fine di secolo”. Ecco, a fine secolo, Salvia, scomparso a Roma già da due anni, aveva raccolto lo spirito solitario e drammatico di Pessoa, la sua straziata nostalgia di futuro, aveva già fatto più che il suo dovere: dire quanto c’era da dire: “Questo v’insegno: v’è arte e sappiatela usare”.

Da perdenti, romanticamente, si trasformano in classici che non conoscono tanto l’isolamento esistenziale ma piuttosto una metodica presa di distanza da quella morte a cui da tempo hanno posto pensieri e studi. Così con le loro concertate assenze con cui scambiano il proprio io, le loro peregrinazioni attraverso numerose vite, quasi reincarnazioni nella vita terrena come anticipo di quella ultraterrena, intessono un pensiero, un modo etico e quasi religioso di sottrarsi al peso a volte insostenibile dell’esistenza. “Non ha più limite la mia pazienza”, scrive sfinito dai tempi Salvia. Eppure quell’essere un Altro con la sua pelle permette loro di prendere forza per un nuovo slancio. E di raccogliere l’invito ad agire con tutte le indicazioni necessarie che l’Altro sempre trasmette.

Avevano capito molto presto e velocemente, entrambi allenati dal dolore, entrambi precocemente orfani del padre e fin troppo consapevoli della fugacità terribile di quel fiume che è la vita, sulla cui riva sono seduti come stoici. Pessoa diceva di avere “un cuore freddissimo” e Salvia, le cui poesie sono raccolte sotto il titolo Cuore, che lui aveva scelto, scrive: “Non v’era nulla nel mio cuore è vero, / ma quest’aspra materia s’avea le sue / parole…”. Così entrambi mentre sembrano fermarsi sull’orlo del precipizio o fuggire e dileguarsi lungo tangenti d’ombra, sanno convergere verso un centro che è il cuore, la forza pura del possibile, la grazia nel caos.

Cortesemente Pessoa, mirabile genius loci, mi porge in dono una guida di Lisbona da lui scritta, dove elenca minuziosamente piazze, vie e biblioteche e in cui ha mimetizzato i movimenti della sua vita, quasi che li abbia voluti fissare nello spazio, più che nel tempo, per paura che possano franare nella furia devastante che si sta impossessando dell’Europa. Forse aveva voluto rimediare alla scomparsa del suo spazio, quello dell’infanzia nella città, da cui a otto anni era dovuto partire con la madre per il Sudafrica, forse vuole tracciare sulla mappa di Lisbona una città archetipica e primordiale. Mi dispiace non poter ricambiare con una mia guida di Roma, quella a cui ho sempre pensato senza riuscire mai a scriverla, per fissare nello spazio le tracce dei miei movimenti tra i muri e i parchi della città, per esempio questi incontri immaginari con due poeti, o per stabilire le coordinate di una civiltà ancora integra.

Fernando e Beppe sono troppo inquieti per riuscire a fermarsi a lungo.

Hanno sempre bisogno di liberarsi da vincoli e ceppi, per riuscire ad astrarsi e pensare. L’erranza naturale nella loro stessa identità li spinge presto a muoversi, con il loro ombroso e straziato spirito da gran giocolieri o acrobati, che permette loro di resistere sul filo sottile e creativo che separa l’arte del vivere e del morire, l’arte dell’essere e del nulla. A loro basta lasciare un segno, un’indicazione, una cifra, per sempre. E io, alzandomi dalla panchina, dopo questi straordinari lampi di empatia, posso concludere con le parole di Pessoa: “Sono oggi il punto di riunione di una piccola umanità solo mia”. Invece di umanità, per errore, ho scritto “comunità”. Ma ecco, va bene anche così: sono oggi il punto di riunione di una piccola comunità. Ne fanno parte le poesie che hanno corpi che gravitano intorno a noi, con la loro esistenza carnale fragile e indipendente e immortale.

Roma, 1-11 novembre 2011

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