Beppe Salvia: Componeva il verso come sperpero di luce

di Arnaldo Colasanti

morte di Beppe Salvia web

Stasera io devo scrivere di vita e di morte; della vita e della morte di un grandissimo poeta. E ciò è duro, come duro è pensare che non ci sarà più un cuore e ancora, come noi tutti volevamo, poesia da quella sua lunga notte di sogni.

Beppe Salvia componeva il verso, come uno sperpero di luce. La sua parola eccedeva, spesso illuminandosi senza più rifugio. Ma dietro agli abbandoni e al perseguitar della vita («seguitar me m’abbandono, canto / e di mai veri ricordi l’impazzire / del mondo e le sue rime serrate, io / sono quasi cieco attorno a me la notte, / vivo già morto e affanno a cose cieche») non restava mai un vano sconforto: c’era sempre una sensibilità inesausta e attenta; ovvero ogni parola si dava nella certezza altissima e profondamente poetica che il giorno della vita, il senso del nostro tempo è davvero compiuto e che insomma l’esistere, in tutta la sua assurda e inutile necessità («l’arguta pietra / primeva, che non muove o si desta»), è tutto in noi; è così, semplicemente accolto fino all’ultima «infinita follia».

Beppe Salvia è stato per noi, e certo per me, il contorno di un sogno; ancora una volta il senso di una poesia che è e può essere certezza e conoscenza. Così quella sua lingua intrecciata da suoni, fatta di sibili e torsioni continue, come consonanti sonorissime che non intorpidiscono ma dilatano e quasi candidamente aggiungono nuove nuvole e nuovi tempi alla voce della poesia, non era dunque la cerimonia di un velo funebre sul nulla.

Cioè, a ben leggere questi fruscii pretti e stolidi («di lume bianco ora m’assembra lieta / e povera e lieve luce questa mia / terra dei morti») o espansi («inverno dello scrivere nemico / voglio fare deserto e andarmene / dove sacrificato il dire, l’eco»), capivi che la sua poesia si dava in schegge, perché ogni parola non era che la chiusa feritoia o quella «finestretta con scuri e senza / vetri menzogneri» da cui s’espande e si confonde la pienezza del mondo, di un pensiero avido che, comunque, esiste; che può dunque trattenersi nell’ora e nel sentimento della poesia.

Non posso altro. È morto un uomo. A me piace ricordarti così; in questa verità azzurra, poetica che da lontano, infinitamente, ci illumina: «che una cieca pencolante illumina, / la luna dal lucernaio azzurra / il letto bianco».

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2 Comments

  • Caro Leopoldo condivido pienamente quanto dici. Ci sono tanti poeti che lavorano al buio. Ne conosco di bravissimi oltre Beppe, ma il problema è che il berlusconismo in senso lato che imperversa anche in poesia, guarda molto più alle apparenze che alla sostanza. Quelle che tu chiami primedonne, le persone che amano il palcoscenico e si gonfiano compiaciute come pavoni quando tirano fuori qualche verso decente hanno altro da pensare che a lavorare e lavorare lavorare come faceva Beppe. Basta girare un po’ su fb per rendersene conto. Grazie per la tua sempre attenta e acuta sensibilità. Rosa

  • Mai che le primedonne della poesia di questi anni si siano scomodate per gratificare il talento di Beppe . Forse è la voce della loro cattiva coscienza . Che pena . . .

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