Il “gioco” di Domenico Cara: l’aforisma nel labirinto

di Renato Civello

enigma strategia caraCon una puntigliosa prefazione a filo di Stefano Lanuzza e in elegante veste editoriale l’ultima fatica di Domenico Cara (lo scrittore calabrese che vive a Milano dal 1952, svolgendovi una intensa attività culturale e creativa) appare degna, per i suoi contenuti, del massimo rispetto. E’ opera mordente, estremamente ramificata ed unitaria ad un tempo, congegnata su una fitta orditura di connessioni teoretiche ma nello stesso tempo volontariamente abrasiva della speculazione in nome di una saggezza ancestrale disponibile per una borghese e comunque più domestica epopea.

Nelle 1345  “proposizioni” che costituiscono il volume (166 in “Metodo dell’istante”, 167 in “Disarmonie prestabilite”, 112 in “Granaglie dell’età dionisiaca, e così via) si delinea, attraverso un corposo labirinto di situazioni e di concetti – nel quale la parola sta all’idea come lo specchio sta alla figura, con una naturalezza di  volta in volta impietosa o accattivante – il prosatore d’ingegno e stilisticamente scaltrito che offre un dosaggio graffiante della sua attitudine alla logica dell’anticonformismo. Il pregio di questi “aforismi” intricati nel tessuto multiforme del vivere è, come accennato, quello di non sottostare all’usura dialettica: un filosofare analitico senza sofismi, uno scavo non pretestuoso fra mille asimmetrie delle pseudocertezze.

Cara sembra lasciarsi andare, a prima vista, ad un flusso non certo logorroico ma comunque da officina della parola categoriale, coordinata alla proliferazione del pensiero; e restare così lontano dal “fine ultimo” dando ragione a Dante (“ché sempre l’uomo in cui pensier rampolla – sovra pensier da sé dilunga il segno – poiché la foga l’un dell’altro insolla”).

Ma fatto è che stavolta le intersezioni, le ellissi, i recuperi discorsivi, quel processo inesausto di accrescimento della meditazione attuato per lampeggiamenti e saldature brucianti o dietro il motteggio ed un pizzico di satanismo, compongono una razionalità dalla calibrata sostanza. Un’architettura complessa ed insieme assai limpida, scampata al rischio del “rococò” minuto e dovizioso.

Vede bene Stefano Lanuzza quando afferma, presentando il libro, che, se l’aforisma “può spesso essere un pezzo di saggistica mancato” esso, d’altra parte, va “ ben oltre la speculazione saggistica, vanificandola o rendendola superflua in un’abbacinante irruzione della verità”. Ed ecco il punto: Domenico Cara non finisce di interrogare e di interrogarsi per scoprire, nella fittissima ragnatela dei segni e degli accadimenti, un rapporto non più fatiscente dell’uomo con tutti i supporti, grandi e piccoli, della sua storia.

Il gioco serissimo dello scrittore si svolge a mezz’aria fra il crudele e il grottesco, fra l’intuizione solenne e la disinvoltura ridanciana del quotidiano. In questa breve nota, che non pretende di essere una esplorazione esaustiva, basterà esemplificare a volo: “I sopravviventi certo percorrono un buio tutt’altro che trascendentale in un incubo residuo, divaricato!”: “Le immondizie di cui è composta l’oracolare acculturazione di alcuni mimetici e secchi grilli”; “Ma il dolore di Caino    è consanguineo al nostro destino?”: “Le carinerìe con le quali comincia l’aspirazione ad un premio letterario”.

E’ chiaro che un travaglio di scrittura come questo, imperniato sulla metafora e sullo sconfinamento anarchico, non possa essere fondato che su una disincantata e tuttavia amara visione del mondo: dietro l’ironizzante funambolismo si avverte, in agguato, “la brutta notte”. Ed è in tale prospettiva che si comprende l’estremo disagio dello scrittore, il conflitto inesorabile fra ideale e reale, fra nobiltà e volgarità, fra conoscenza e ignoranza.

Né può sfuggire il costante soffocato anelito del poeta, che le mille meschinità del provvisorio lasciano incatenato alla fanghiglia anonima mentre lo aspetterebbero i liberi cieli della fantasia e del sentimento. Sarebbe dunque errato pensare ad un mosaico congetturante costruito a freddo, con il rigore convenzionale di un “opus tessellatum” o la casualità di un “opus incertum”: tutto ciò che leggiamo e che ci viene fornito come “enigma” o come” strategia” è distillato dal filtro di una dolorosa consapevolezza morale e da una malcelata solitudine dell’io, non troppo lontana poi, a dispetto dell’azione, recitata nel teatro del civile, da quella kierkegardiana.

Accompagna Domenico Cara, dietro le quinte della mascherata gnoseologica, il rovello assiduo della poesia apparentemente bandita.

Prova che il narratore, il saggista di letteratura e d’arte, il “fabbro” di una milizia culturale che sconosce l’acquamorta delle accademie e delle soluzioni compromissorie, è anzitutto un poeta.

(da:” Il Secolo d’Italia”, Roma, 23 /11/ 1986)

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