Un canto irto di pressioni – Su “Millimetri” di Milo De Angelis

Millimetri De AngelisDall’inizio del mese di luglio è disponibile in libreria, edito dalla casa editrice il Saggiatore nella collana le Silerchie in occasione dell’anniversario della prima pubblicazione (avvenuta nella collana bianca di Einaudi nel 1983), Millimetri di Milo De Angelis, uno dei testi più vertiginosi ed enigmatici della poesia contemporanea italiana.

Millimetri: un titolo che esprime il furore matematico di una parola fremente e speranzosa, che si vuole dimostrativa e stringata: la poesia come dono d’un altrove e di un prima immemorabili e irreversibili.: «In noi giungerà l’universo, / quel silenzio frontale dove eravamo / già stati».

Una fissità originaria dove attende la parola primigenia («la voce che si era proclamata / gemella e sfera e denti di gemelli / scocca nella sua montagna / con  la stessa vita / giurata subito, antelucana») che, sollevata al rango d’evento unico e assoluto, continuamente “accade”. Il «luogo arcaico» del silenzio prestato all’incitamento o alla diagnosi («impareremo / a mangiare questa cipolla, / a poco a poco, osservando il silenzio / di ciascun sapore») da cui il poeta, sprofondando nel tempo assoluto che custodisce l’essenza della vita («Un maestro / nuotò all’alba / delle cose, tra le sei meno venti / e la buona fortuna»), deduce la cifra tragica del destino.

Ventinove poesie “oscure e come incise nel granito” che sotto il velame di versi estremamente contemporanei affondano le proprie radici nella sapienza remota della Grecia antica, che si percepisce sin dalla chiusa della lirica d’esordio: «Chi genera il tempo / ha il volto arato e con pazienza ripete / che noi ubbidiamo»: è Cloto, la Moira che tesse lo stame della vita, oppure Lachesi, che lo svolge sul fuso (λάχος, la sorte). E più avanti s’incontra pure Atropo (Ἄτροπος, l’inevitabile), che recide il filo della vita decretando il momento della morte: «Ora c’è la disadorna / e si compiono gli anni, a manciate, / con ingegno di forbici».

La morte, limite ontologico d’ogni ente («La mela / è morta») si rapporta continuamente in identità con la rinascita («E un / cappio di carta / rinasce a più non posso / nella storia della terra, vasta, ripida, / cose e cose, vesti bianche e tarlate») sperimentata e invocata («nascetemi in stringere / infiniti, in piangere») dai poeti, «eroi senza faida» capitati «dentro una miriade di morire», tra figure spettrali di «morti [che] arrancano verso un campo».

«Giunge luglio per i morti / che sentono nell’assedio / di ogni fiore / una giustizia remota»: tutto è tremendo, tutto è sacro, una giustizia incombente condensata in un ridotto grumo di parole irte e scoscese. Tutto oscilla spaventosamente tra bianco o nero, nella zona carica di tensioni e attriti che precede ogni rapporto umano, quando «le mani, a mezzaluna, / ricevono un calendario / in sangue di cicogne» e la poesia, spinta dall’emergenza della dettatura, «si conficca lì, unghia, come / tu nella tua bianchezza». La «testa cade a piombo» e la più piccola azione («al timone di una goccia») rivela l’antica sapienza nascosta nelle cose, l’istante aurorale del silenzio in cui «quello / che si spezza è una / voce bollente / calendari e risaie murate».

La poesia è per De Angelis un atto d’obbedienza a un dettame («È sempre / questo cianuro / di vergine: un giavellotto / vuole l’uranio e quando chiude il / primo strillo / sul cuscino degli antenati / ha una sola vita, ha / polmoni di pazzo e un suono in punto») che ci sottomette al destino come i bambini che giocano a bandiera lo sono da un numero («Punteggio nel centro / del fazzoletto / esso chiama i consanguinei») e chiama a decisioni spietate: «a esecuzione compiuta, / alcuni parleranno / o forse tutti / quei bagnini ciechi parleranno, / estratti a sorte / da chi li maledisse / e poi concepiti e poi / basta, basta per / sempre, e poi poeti».

Una poesia assoluta, caratterizzata da inserti inusuali (la pavesiana «uva luglienga», l’uva bianca molto precoce, colta in luglio, e coltivata a pergolato davanti alle case di campagna), sintagmi enigmatici, opera di ricerca “neologica”, di ri-semantizzazione di composti morfologici: il «rito purosangue», cioè un rito che ha la sua essenza nel sangue; la «ruggine squarciagola», forse sineddoche per ‘lame arrugginite’ perché l’attributo del soggetto è da intendere nel senso di ‘che squarcia la gola’; il «giubilo mozzafiato», cioè una gioia che ‘taglia la gola’; oppure alcuni deverbali, parafrasabili ad sensum, come nel caso di «pioggia bucaniera», ossia una pioggia forte, fitta, che punge, che buca la pelle. E ancora, sintagmi totalmente opachi, come il «mulino di setaporta», la «fibbia di girasole», le «statue d’orzo», le «ossa di mollica», o la «severezza» (altro neologismo, che non può essere semplicemente la severità, ma che include, come in inglese, l’ampio spettro semantico di durezza ed esattezza).

Il lessico di Millimetri ha i toni di un rito iniziatico, da «festa delle Orse» (le ἄρκτου, le ‘orsette’ del santuario di Artemide Brauronia), è una «sete / del pensiero, stringa esatta / in ciascun occhiello» dove le parole sono il punto geometrico di convergenza di sangue e pensiero; dove il pensiero «trattiene il sangue / fino al / comandamento».

Sic volvere Parcas.

La parola poetica, solitaria, spogliata delle sue attenuanti, «un canto / irto di pressioni», è una sentenza crudele («Poi / getteremo la nostra preda / ai gatti: loro sapranno / come annientarla!») pronunciata con la distanza necessaria, quella dell’eremita.

Il poeta-anacoreta racconta il destino degli uomini, in una sorta di disperata saggezza, solitudine totale e irrimediabile, quando il dialogo con il mondo sembra impossibile e tuttavia non si può tacere: «E io parlo della terra / a una candela; / di te e di noi, di noi soli, creati».

(già pubblicata, in versione ridotta, sul “Corriere del Ticino” del 16 agosto 2013)

Fabio Jermini
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