Come in un’intervista (risposte di Domenico Cara)

di Domenico Cara

Domenico Cara 03

1.
Ogni “soddisfatto” firma il limite dentro il quale è circoscritta la sua possibilità di essere nel proprio mestiere di uomo e di scrittore. I soddisfatti sono detestabili perché posano sulla non – volontà l’immagine  personale del finire senza idee, e comunque la loro pigrizia di esistere. Chi è soddisfatto può essere vissuto soltanto per una necessità egoistica e adesso ha le fauci piene.

 

2.

Sono entusiasta quando qualcosa posso considerarla compiuta, poi scivolo nel dubbio della sua validità; mi confronto con altri stili, maniere, immagini, situazioni culturali importanti e con altre che   – pur non essendo importanti – sono in auge e hanno credito, così mi procuro delle oscillazioni d’infelicità e di certezza su quello che vado facendo, quando non sono del tutto disposto a credere più al lavoro degli altri che a quello personale. A volte colgo il peggio che fa clamore e mi chiedo se non sia il caso di aver un po’ stima di sé, dopo tanto adulto impegno e ricerca privata, come impresa isolata e fuori dal tempo.

 

3.

La risposta parziale è nella seconda domanda. “Realizzarsi vuol dire essere assecondati nel     successo, proprio perché ai più onesti viene sempre il dubbio che qualcosa non vada della propria operazione creativa e critica, se non  ottiene un denso plauso, anche se praticamente non è così, perché essendo fuori dai clan, dai vizi della società attuale e distante dalle sue strategie, non è facile una considerazione pubblica pari alla serietà del proprio dovere di non barare con la sincerità.

 

4.

Ho avuto sempre un enorme desiderio di rinnovarmi come artista (?), mentre come uomo mi sono interessato a me stesso di meno. Il discorso letterario per me è stato una serie di prove e di riprove per raggiungere certe private eccellenze; come uomo mi è bastata quasi sempre una certa vanità e l’ambizione segreta di conquistare la simpatia dei più predisposti al mio modo d’essere.

 

5.

L’uomo l’ho sacrificato nella misura maggiore forse alle mie stesse possibilità. Ma in verità non si può parlare di “sacrificio”, perché è stata una fondazione di scelte promossa sul cosiddetto “dono di natura”, come si diceva un tempo in provincia per scusare i più dotati e senza mezzi familiari di sostentamento, in una situazione di urgenze di esprimere il ciò che “ditta dentro”. Mi pare piuttosto che si svolga una simultanea vocazione di essere, in cui l’uomo e l’artista si battono per ottenere nella lotta con i fatti, il meglio del proprio coraggio.

 

6.

Non ho mai dato niente alla società, perché essa non ha chiesto nulla al mio “lavoro” culturale. Un poeta è quasi sempre un escluso, lavora, se mai, sulla visione del futuro, né credo che coloro che la contestano diano qualcosa della propria identità; piuttosto falsificano l’interiorità con qualche rigenerazione pubblica dell’io o, semplicemente, fanno rumore irregolare nella convinzione che la percorribilità del labirinto in cui sono immersi, possa prospettare un segno della sua opaca luce. Il tipo di “dono” ovviamente per me è un complesso svolgimento di naturalità creativa, non la serie delle abitudini mondane o di una morale di superficie.

 

7.

Un isolato può offrire soltanto la sua timidità, l’ironia di un sorriso nel quale esprime spesso ciò che in lui non si sa leggere.

 

8.

Soltanto la poesia è quello che conta (anche  se molti hanno un concetto inconsolabile e vieto di essa). La “morale” umana è sempre affine ad essa, quando non è possibile togliere allo spirito pragmatico incombente il segno della sua contemplazione.

 

9.

Il caos d’oggi obbliga a tutti i possibili compromessi, io ne ho accettato in misura del successo che ho ottenuto, e siccome ho scelto la mia solitudine e il disagio di vivere nella generale logica degli arrivismi, non credo di avere preso coscienza di tutto questo.

 

10.

Non considererei interessanti coloro che alla fine mi si sono ripresentati come travestiti e deboli pupazzi.

 

11.

Avevo imparato da ragazzo un significativo verso di Baudelaire, che era preghiera e auspicio in proprio: ”Fammi scrivere un solo verso di poesia, Signore””. Di versi ne ho scritto moltissimi ignoti a tutti, e adesso che qualcuno –almeno tra gli amici – potrebbe leggerli, i versi non servono più, perché c’è la “poesia concreta”, la “poesia visiva” e altre ideografie informali e formali di ricerca, che pretendono di coinvolgere gli spazi mentali del geroglifico, di Teocrito, e altre paradossali giustificazioni relative al linguaggio che niente comunica. Ecco, tutto è inutile; mi ritrovo con un’accartocciata e antiquata perseveranza, per diverse ragioni resa inutile da una specificità di comportamenti che dimostrano di spuntarla(sia pur come moda), e un progetto scaduto tra le mani, da più parti rifiutato!

 

12.

Evidentemente ho pagato sempre e tutto, (non il successo che non conosco) direi una certa integrazione, il privilegio amaro di disporre per buona parte del mio tempo, il segno negativo che può essere per molti il fare dell’arte e della letteratura in un’età di lotte pubbliche e di conflitti generali.

 

13.

Forse ho pagato troppo, ma non è facile stabilire in che misura, anche perché l’ambizione e le lusinghe rendono ambigue le possibilità di un bilancio.

 

14.

I rimpianti ce l’ha chi non sa quello che desidera per sé, da se stesso e dalla vita; poiché non temo di avere sbagliato, malgrado perentorie delusioni, la disponibilità di continuare è una prova, almeno che non si voglia contare il piacere del tempo perduto, in cui – apparentemente – un artista sembra  non si realizzi efficacemente.

 

15.

Un momento particolarmente felice è stato quando mia madre, avendo letto la mia prima poesia, impacciata dinanzi a ciò che avevo inventato per la mia espressione, mi offrì l’uovo che aveva tra le mani, in cucina, con il quale ha in ogni caso tentato di nutrire l’ambizione personale.

 

16.

Come ogni animale amo la mia famiglia, il paesaggio di essa e quello che essa ama, anche perché ciò (capisco) fa parte dell’ambiente delle mie fantasie, del sapore d’esistere, dell’armonia della Natura, che come altri principali affetti si va disperdendo.

 

17.

Amo intensamente gli altri per qualificare la mia umanità, senza reticenze e direi con ingenuità, ma quanto sono difficili i rapporti con il prossimo, a quanto di me stesso devo rinunciare per riannodare il mio estro alla molto piatta presunzione!

 

18.

Non faccio niente per essere capito, visto che coloro che vogliono intendere sono pochissimi, e molti preferiscono altri interessi assai diversi dai miei, nessuno di noi fa qualcosa per interessarsi l’uno all’altro; in altri termini la loro indifferenza e il loro senso di divagazione non coincidono quasi mai con il mio privato impegno. La stessa scuola ci riesce in parte da troppo tempo.

 

19.

Negli egoismi credo più d’ogni altra cosa; l’amore spesso perde il suo mordente e l’elevazione, proprio per codesto tipo di irrinunciabilità istintiva, e con esso la Natura, la vita collettiva, Dio causa prima e possente.

 

20.

Ho considerato “amore” più volte la mia caparbietà di riuscire; “amore” il sesso fremente che ispira e dà senso all’esistere; “amore” l’affettuosa dedizione che mi si offre nella fatica quotidiana; “amore” Dio che ti solleva dalla profonda radice della solitudine, fino allo spazio di un’interiorità che letterariamente non potrebbe essere precisabile. E’ l’educazione fondamentale a ogni iniziativa di grado zero fino (e dopo) l’acquisizione degli esiti.

 

21.

Vedo il mondo deforme e pre – apocalittico. La libertà si riduce alla violenza e alla saccenteria più disinvolta; troppe rabbie vorticano nel panorama offuscato dalle ingiustizie multiple; la fame è prepotente e i prepotenti riducono gl’indifesi alla fame. Dio è nella dialettica più scabra, capito e non capito; ognuno si stringe ai fili di un io presuntuoso, fisicamente gigantesco, con vizi di retorica e di meschinità, un vistoso criterio dell’essere & dell’avere. La sua atmosfera è irrespirabile in più punti dell’egoismo; non c’è amore e senso del perdono, le concessioni pratiche tra le parti si firmano come un armistizio; le menti sono quantitative, il disgusto dell’igiene è pari all’analisi critica che si fa di essa per farla emergere dalla lutulenza diffusa. Se non ci fossero certi giorni deliranti di luce e di festa artificiale, peraltro programmata per far dimenticare le magagne, la società sarebbe definitivamente presidiata da un insondabile “male oscuro” che continua il suo barocco percorso verso la fine totale.

 

22.

Fare qualcosa, dire qualcosa, è l’immagine naturale e non eccentrica di chiunque crede di aver fatto di meno di quanto aveva prospettato. E’ ciò che mi lega al tenace vincolo con la vita e l’arte, l’esercizio dentro cui gl’impulsi dell’intelligenza continuano la loro ginnastica. E’ impossibile dire basta alla volontà insoddisfatta. Non credo che si possa dire il “nuovo”: troppo “nuovo” hanno preventivato le avanguardie pur restando sempre al di qua delle loro possibilità effettive. Il fare e basta, aumentando la qualità, le associazioni dell’immaginazione, la ricognizione della curiosità e dell’amore alla vita, superando ogni tipo di passività: nello stile, nella materia, nella stessa pubblicità personale, anche se si tratta di varianti a quello che finora s’è saputo dire, e questo grazie al fondamentale entusiasmo dal quale ho ottenuto una e più cose.

 

23.

Il mio più vivo desiderio è di trovarmi sempre in un continente diverso per conoscere la bellezza superstite, i miti e i riti delle civiltà sopravviventi, la libertà delle divagazione cordiale, spensierata, ghiotta, per sapere di più e aspettare che tutto questo si trasformi in passione e capacità di lavoro individuale.

 

24.

Dio è senz’altro alla base di ogni possibilità umana di agire, di riunire le forze e le tensioni private. In quanto ai meriti miei mi sembra una presunzione dire che ne abbia, e che essi abbiano fatto tutto per concretare la mia vocazione… Ti aiuta molto una lettera cordiale, qualcuno che crede in quello che fai, un giorno di sole, l’ascolto di chiunque di un tuo caso d’amarezza, e così via. Il resto è toccato a me: provengo da un paese di collina calabrese e jonico, dove gi stessi amici della più attendibile stima, mi chiamavano “poeta” per affettuosa ilarità e l’allusione all’idea del perditempo, e comunque suonava dentro di me come una staffilata pazientemente sopportata. A Milano mi sono dovuto chiudere in me stesso, perché il pragmatismo derivato dal continuo “lavurà” e la stessa esigenza del “danè” non hanno saputo cosa farsene dell’estro e della mia rabbiosa umiltà, se non offrirmi il compatimento come a un sentimentale d’altri tempi.

 

25.

Ho timore di dire che attraverso quello che scrivo c’entri l’arte (d’altra parte sono gli altri ad accorgersene prima o poi). Ho pensato delle cose e le ho rivelate a me stesso, continuando a leggere, guardare in dimensioni personali, sfruttando la mia immaginazione e il mio senso del mondo. “Creare” mi sembra una parola romantica e senz’altro divina. Ho portato verso di me la presenza delle contingenze e della fantasia per inventarmi una realtà virtuale, una nozione possibile di scrittura e di fervore emotivo. L’aspetto critico potrebbe approfondire e analizzare questo concetto in proprio.

 

26.

La fedeltà a me stesso mi ha vietato ogni possibile strategia in altri ambienti della realtà, in cui forse avrei potuto trovare posto. E dopotutto è il genere di comodità che ho sempre sognato per pigrizia e paura dell’ignoto.

 

27.

Pertanto non ho mai rinunciato ad alcunché. Probabilmente non avrò avvertito codesto tipo di pena. Chi punta a qualcosa con serietà (e ha idee chiare in proposito) ha la strada più libera ed esperienze meno ambigue.

 

28.

Dubito di sapere quanto la mia famiglia d’un tempo possa aver influito nel mio lavoro: tecnica e temi oggettivi, angoscia e passione ideologica, ingenuità e spirito di lotta, circostanze e imprevedibilità da superare, ecc. Senza dubbio il suo tiepido guscio (e il suo freddo) nuoceva alle mie aspirazioni, e ho reagito in dimensione all’intuizione di sofferenza che il “focolare domestico” prospettava, e insieme il suo spazio fisico di povertà in ogni senso. Quella fondata da me ha inaugurato un più stabile fervore.

 

29.

Credo nella bontà e puntualmente mi accorgo che più volta nasconde dolorose spine e aculei. Non è difficile per me assecondare gli atti di bontà con altrettanta amicizia, purtroppo spesso si è ripagati con gesti / contro, ma alla fine ciò che ho donato mi arricchisce e mi consola, e scopro di essere così nella posizione di chi ha ottenuto di più.

 

30.

Temo di non poter contare su veri amici (potrei essere anche convinto di questo) perché ho subito più volte le loro malizie e gli opportunismi più costanti. In essi ho creduto più d’ogni altra cosa, e credo ancora efficacemente e puntualmente devo pentirmene. Quando esistono ascolti nella tua adattabilità c’è la gioia della sopravvivenza, invidia permettendo. Ma può darsi che questa non debba essere una regola pessimistica.

 

31.

Non mi sono mai chiesto “chi sono? da dove vengo? dove vado? E’ un problema da filosofi e i teorici dell’essere continuano a discuterlo provocando fastidio. La risposta infine c’è dentro quello che ho detto finora e ciò che scrivo: non vi è migliore dialettizzazione del proprio pensiero in proposito.

 

32.

La vita è quello che conta in assoluto. Se fosse sopportabile opterei per la longevità.

 

33.

Penso alla morte ossessivamente: quando leggo le cronache e le ascolto, quando medito sulla nullità dell’essere, quando considero il possibile tempo d’ognuno, l’innumerevole precarietà a cui sono affidati la conservazione dei nostri corpi, la circolazione psicopatica nella società dei nostri anni, il vissuto su schemi di fluidità, lo spettacolo ambiguo e vorticoso che ci ospita come marionette vivificate da gesti persistenti e predisposti. E’ l’assurdo a cui è legata la vita ineluttabilmente, a favore delle nuove generazioni che sopravviveranno al tempo storico e poetico della parola e del silenzio, Credo nell’eternità, ma questo non mi toglie la paura, il timore del peggio in agguato (che non è neanche una novità, notando quanto accade in casi più strani). Questo non è attutito dalla speranza che qualcosa resti di quello che ho scritto (ma che gente sarà quella che dovrà sostituirci se preparata da tecnocrati, cosmologi, computerman ecc.?) “Come male è irreparabile…” mi pare fosse l’ultima convinzione di Auguste Comte, e chiuse gli occhi per sempre!

 

Domenico Cara
Milano, 14 novembre 1973

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