Dandy In The Underworld – Fame di immaginario nella scrittura di Marco Simonelli

di Riccardo Donati

simonelli sesto sebastian 2004Per chi voglia soffermarsi a riflettere sul dato figurale dell’attuale realtà catodica italiana, la bulimica bocca che a getto continuo vomita i materiali dell’immaginario contemporaneo, è possibile ipotizzare la confluenza di due ben altrimenti degne tradizioni iconografiche: quella umile dei pitocchi cinque-seicenteschi, la cui ebetudine e fissità è giunta a noi riscattata in dignità scenica pel tramite della teatrabilità settecentesca (Watteau), e quella alta, niobea e potentemente idolatrica, di matrice bizantina e klimtiana. Conseguenza di questo mix esplosivo è una sacralità bamboccesca, la cui diffusione virale informa di sé gli scenarî della nostra epoca, sia sotto forma di icona-pop – Marlon Brando, Jimmy Dean – che in quella di icona trash e nazional-popolare – Taricone, poniamo, o Costantino: come dire il neo-parnassianesimo del tele-degustatore dall’aureola  fresca di revisione. Di questa (amena) fenomenologia la letteratura può legittimamente fare a meno, oppure tentare approccî di vario ordine: satirico, moralistico o, come più spesso accade nel guazzabuglio postmoderno, di raffinato ammiccamento. In quest’ultimo caso, non senza un’evidente dose di snobismo, la singola ierofania-vipup-to-date o vintage, non rappresenta che un segno distintivo di riconoscimento. L’autore allude a o esplicitamente richiama un bagaglio di notizie che presuppone condiviso con il lettore, in un gioco di reciproca legittimazione intellettuale destinato a esaurire in fretta la propria ragione propulsiva.

Marco Simonelli, autore giovane ma forte di un’ormai pluriennale esperienza di scrittura, nelle sue prove più recenti sembra essere affascinato dalla possibilità di far interloquire la propria sensibilità poetica con gli sconfinati orizzonti dell’immaginario contemporaneo, secondo un percorso assolutamente personale che, eludendo tutti i rischî sopra elencati giunge, azzardiamo, vicino ai territorî del melò. In questo senso: che Simonelli, scavando tra le pieghe – e le piaghe – dei sacri bambocci, ne coglie il dramma, e anzi meglio il martirio, che è tuttavia anche la loro ragione d’esistere: di figure che non possono sussistere altrove che nella messinscena della propria passio. Così nel San Sebastiano protagonista dell’immorality play – la definizione è d’autore – Sesto Sebastian (Como, Lietocolle, 2004), la mitografia cristiana incontra il desiderio dei credenti di una piena carnalità del santo, la cui fortuna figurativa, ma anche devozionale, dipende positivamente da un’ostentata dimensione erotica (il «male coitale») sublimata dalla posa dell’estremo sacrificio.  «Non più uomo ma feticcio» «messo sopra il piedistallo», Sebastian insomma si fa tanto più adorabile quanto più sostenta la fame di immaginario degli adepti, offrendosi interamente, corpo (poi reliquia) e sangue (il «bagno di plasma»), al gioco del desiderio (la «voglia indòmita indomata»), pur mantenendo inalterata e inalterabile la propria «petulante» ieraticità.

Da questo punto di vista è evidente come Simonelli abbia potuto lavorare sulla figura del santo, o meglio sulla tradizione iconografica che ne ha alimentato nei secoli la fortuna, per semplice proliferazione di nuclei immaginifici pre-esistenti, senza forzature di sorta. Operando in questa direzione l’autore si sottrae ai limiti di quella stretta ottica gender – semmai recuperandone il côté psicanalitico – che è ad esempio il limite più evidente del Sebastiane di Jarman-Humfress (uk, 1976). Giovane e languida vittima di uno schiacciante potere patriarcale, Sebastiano infatti si offre in qualche modo spontaneamente all’interferenza con l’immaginario che infetta la nostra epoca: la sua effigie e la sua gestualità inclinano insomma costitutivamente verso certi esiti della contemporaneità, senza che vi sia alcun bisogno di un’operazione a due tempi, repechâge + trattamento satirico, moralistico o intellettualistico. Il santo per eccellenza della sensualità rappresenta già, di per sé, un dandy erebico/efebico, apostolo “di periferia” straziato dalla crudità dell’esistenza, “ragazzo di vita” docile alle voglie degli adulti ma prigioniero di appetizioni infantili – ed è notevole, sia detto per inciso, il lavoro del poeta sui registri di una lingua sospesa tra reiterate omofonie bambinesche («ciccia focaccia») e ardite petrosità mistiche («E si fa scure e mura / e dura arsura»).

«Nato ai bordi di periferia», per dirla con Ramazzotti, il «sadomaso Sebastiano», «uomoggetto» «pronto con i pantaloni in pelle / e il deodorante per le ascelle», appartiene a quella schiera di coatti da gran tempo assorti al canone di icone omosex: basti pensare a certi personaggi di Tennessee Williams o, per il cinema, al Rock Hudson sirkiano. Ma il santo è anche, così fisso e inebetito, rincitrullito lap dancer che si contorce intorno al palo-lampione e alle frecce del supplizio, un personaggio dei nostri tempi, un figuro da reality show che donandosi al pubblico ne riceve a un tempo violenza e incondiziato amore. La sua morte non è che un abbandono della scena, dove quel che conta è un congedo calcolato e spettacolare («sempre vostro / Sebastiano»), cui segue l’esortazione finale della (pseudo)-Madonna: «e cieca vada adorandolo la folla – / di quella polla di plasma vada fiera». Nell’estatica agonia della sua passione, dove l’attimo esiziale costituisce l’acme del godimento – suo ma sopratutto dei fedeli: entrambi, il poeta non ne fa mistero, di tipo masturbatorio -, si ritrova infatti la catatonia a lieve o ardua pendenza dei fantocci che escono dal tube, il compimento della loro passio, lo strazio dell’immaginario che non perpetrano ma di cui sono collettori, diffusori e infine martiri.

simonelli palinsesti 2007Ed è qui, mi sembra, la più evidente conferma che la cifra caratterizzante delle ultime liriche di Simonelli sia la costruzione di testi-melò che abbiano per protagonisti figure capaci di destare una passionalità talmente intensa e debordante da condurli, fatalmente, ad esiti esiziali. Il martirio è l’ultimo atto d’amore che i personaggi al centro della silloge Palinsesti (cfr. il n. 0 di “Re: viste” alle pp. 89-91) testimoniano al proprio pubblico: vip che appena dieci anni fa nutrivano i tele-sogni del pubblico e ora si aggirano, come spettri, in quel limbo che è, per chi fa televisione, il mondo fuori-palinsesto. Ed è evidente come l’attenzione del poeta per questi personaggi non risieda nella volontà di suscitare una qualche comune empatia da teledipendenti col lettore, ma piuttosto nel rilevare come i divi tv siano sì fantocci, spesso vittime di un destino infausto, ma fantocci venerabili perché il primo piano dei loro visi sublimi e stupidi rappresenta, che piaccia o no, l’icona della modernità, l’astro che regola le maree della grande onda desiderante dei telespettatori. E per questo il loro tracollo, la loro uscita di scena, non è affatto un evento insignificante: è un estremo sacrificio, piuttosto, che i tele-discepoli sono pronti a santificare indipendentemente dalle cause che lo hanno provocato.

Nell’Apologia di Wanna Marchi, ad esempio, l’assoluzione della telepredicatrice da parte di un tele-fedele (l’io poetico) è pienamente giustificata dalla passio che la beata Wanna ha accettato di subire pur di appagare un forte bisogno collettivo, ovvero l’assillo edonistico e post-fondiano di ottenere un corpo snello e desiderabile senza doversi piegare al tormento del fitness. I tele-accoliti che hanno bulimicamente ingerito ore di televendite di prodotti dimagranti non possono che guardare con devozione all’icona di questa santa ciarlatana, «donzellotta» villereccia eppure capace di raffinate prediche barocche (le fustigazioni e le mortificazioni all’indirizzo del «genuino lardo di Romagna», cui ingiunge con tono imperativo: «butterai giù la trippa!»), che si è immolata per loro, e che da questo sacrificio ha tratto la dignità di un personaggio drammatico, o meglio tragico. L’«infinito carisma» con cui Wanna ha per anni saputo arringare la folla pascendone indefinitamente le generose illusioni, la «speranza» del sex appeal, supera ogni riserva morale: ogni suo fallo, per parafrasare la clausola di Sesto Sebastian, è infatti «d’amor miniera», e questa abnegazione non può essere ripagata che con un un culto genuino e incondizionato: «Tu ti dibatti dal fondo della tua galera, ohimè! / Ma a Voghera, ti giuro, tutte pregano per te». Analogamente gli scenarî artefatti del prime-time di Canale 5, lo studio/«gabbietta», «giardini e cuoricini tutt’intorno»[1] entro cui sgambettava l’«eterea beatrice» Marta Flavi – sacrificata e prontamente rimpiazzata dal potente marito – continuano a rappresentare l’edicola votiva per quel «popolo di casi umani» che, bulimico d’amore, attende in silenzio la sazietà del proprio desiderio. Il Simonelli di Palinsesti ha, ci pare, questa straordinaria capacità: di ricordarci con un beffardo, crudele sentimentalismo, come la pena strappalacrime di queste vite in disuso, in disarmo, che alimentano le tele-(e)be(a)titudini della nostra quotidianità, sia ormai il solo vero dramma che riesca ancora ad accendere la fantasia, e la pietas, di una nazione di «slegati», «trasmessi e non comunicati» in perenne zapping sul tele-sacello, alla ricerca di un tozzo di immaginario con cui sfamarsi.

[1] Si noti in parallelo il «rosso cuoricino» di Sebastian, a dare la misura di questa effusività patetico-sentimentale su cui Simonelli costruisce la propria spietata analisi della sentimentalità contemporanea, catodicamente determinata, che può farsi persino ritornello di sapore sanremese: «T’amavo t’amavo t’amavo davvero».

articolo pubblicato su  www.re-vista.org

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