Parola ai Poeti: Marco Simonelli

 

Qual è lo “stato di salute” della poesia in Italia? E quello dei poeti?

La poesia in Italia sta bene, da un punto di vista organico e fisiologico ma mancano infrastrutture adeguate alla qualità e alla quantità e a soffrirne sono i “portatori sani di poesia”.

Quando hai pubblicato il tuo primo libro e come hai capito che era il momento giusto? Come hai scelto con chi pubblicare? Cosa ti aspettavi? Cosa ti ha entusiasmato e cosa ti ha deluso?

Temo che il mio sia un caso piuttosto anomalo: in realtà la mia primissima pubblicazione in versi non fu decisa da me. Avevo diciassette anni e un ammasso di versi adolescenziali e mielosi scarabocchiati sul diario segreto e poi ricopiati in un file di testo su un computer 386 di seconda mano. Fu mio padre a prendere i contatti con un piccolo editore e a finanziare la stampa di un libro. Non aveva nessuna pretesa artistica, voleva essere solamente un regalo, un album, un oggetto da distribuire ad amici e parenti, qualcosa da conservare e rileggere dopo dieci o vent’anni con lo stesso spirito con cui si riguardano le vecchie fotografie. Di certo non mi consideravo un poeta e pensavo sarebbe rimasto un episodio isolato. Poi accadde qualcosa di totalmente imprevisto: grazie a quel libello ingenuo, mediocre e sdolcinato incontrai altri ragazzi che scrivevano versi. Improvvisamente mi ritrovai catapultato in un ambiente sociale vivace e culturalmente stimolante che mi incoraggiava ad affrontare nuove letture, a mettermi alla prova, a progredire. Capii che quello scrivere poteva avere un certo valore non solo per me ma anche per una sorta di comunità di cui non avevo mai sospettato l’esistenza. Rinnego totalmente quel primo libretto ma non l’ingenuità fanciullesca che mi portò a scriverlo: mi fu indispensabile per prendere coscienza di me come individuo fra altri individui. A diciassette anni non si può avere una poetica o una consapevolezza artistica: quelle vengono molto dopo. Tuttavia si ha un entusiasmo famelico che purtroppo, spesso, è destinato a scemare.

Se tu fossi un editore cosa manterresti e cosa cambieresti dell’editoria poetica italiana? Cosa si aspettano i poeti dagli editori?

Se io fossi un editore probabilmente fallirei nel giro di qualche settimana: faccio fatica ad immaginare i criteri con cui gli editori selezionano cosa e chi pubblicare, ho molte difficoltà a concepire l’idea stessa di “mercato” del libro di poesia. Provando a superare questo mio limite personale: se fossi un editore probabilmente mi chiederei “È meglio investire su un nome (cioè un autore che ha alle spalle una carriera di tutto rispetto) oppure su un titolo (cioè un libro anche scritto da un esordiente in cui tuttavia sono evidenti dei tratti innovativi, entusiasmanti)?” In veste di lettore-acquirente di libri di poesia mi piacerebbe una collana di testi nel formato “millelire”: quadernetti tascabili a basso prezzo, spartani, testi brevi e compiuti nel giro di 20-30 paginette. Mi piacerebbe che fossero gli autori stessi a mettersi alla prova e a rapportarsi con le possibilità e le difficoltà del piccolo formato.
Io credo che i poeti si aspettino dagli editori un rapporto. Umano e professionale basterebbe.

La poesia di domani troverà sempre maggiore respiro nel web o starà in fondo all’ultimo scaffale delle grandi librerie dei centri commerciali? Qual è il maggior vantaggio di internet? E il peggior rischio?

Nelle grandi librerie dei centri commerciali il reparto poesia non c’è. Se ne incontrano alcuni in poche librerie, su scaffali sempre più vicini alla porta della toilette: sono angoli tristi, polverosi, con pochi titoli disponibili, prevalentemente classici. Il grande vantaggio di internet è l’immediatezza della reperibilità: con pochi click io posso trovare il sito di una piccola casa editrice del Minnesota, pagare con Paypal e ricevere il volume tanto desiderato direttamente a casa. Internet a mio avviso è uno strumento indispensabile, ma pur sempre uno strumento. Non vorrei diventasse il fine e l’unica risorsa. Dibattiti, promozione, laboratorio, archivio… Sono solo alcune possibilità. Inoltre: la rete è talmente vasta che paradossalmente ci ritroviamo ad esplorare sempre le stesse risorse.

Pensi che attorno alla poesia – e all’arte in genere – si possa costruire una comunità critica, una rete sempre più competente e attenta, in grado di giudicare di volta in volta il valore di un prodotto culturale? Quale dovrebbe essere il ruolo della critica e dei critici rispetto alla poesia ed alla comunità alla quale essa si rivolge?

Penso che una comunità critica ci sia già. Il problema è che ce ne vorrebbero di più, a mio parere, di comunità. Una comunità dovrebbe comporsi di individui con differenti competenze e punti di vista. Un coro d’ascolto che si confronta. La critica può dare un aiuto formidabile ad un autore: può fargli intuire potenzialità e direzioni future.  

Il canone è un limite di cui bisognerebbe fare a meno o uno strumento indispensabile? Pensi che nell’attraversamento della tradizione debba prevalere il rispetto delle regole o il loro provocatorio scardinamento?

Premesso che un canone non basta, un atteggiamento manicheo è dannoso. Non riesco a rendermi conto di cosa sia rimasto del canone scolastico dopo le riforme Moratti e Gelmini. Ma mi sembra più che logico che, se uno vuol dare il proprio contributo ad un’arte espressiva deve in qualche modo sviluppare una coscienza di ciò che è avvenuto prima di lui, soprattutto da un punto di vista di contestualizzazione storica. Siamo abituati a pensare a un canone (singolare) come a qualcosa di fisso e immutabile quando in realtà è naturale averne più d’uno e aggiornarlo continuamente. Data una regola, poi, è fisiologico sia rispettarla che scardinarla, sono semplicemente dei passaggi finalizzati alla ricerca e alla sperimentazione dei propri mezzi. Una fase, insomma. Comunque, come sarebbe possibile scardinare una regola se prima non ne si è padroni?

In un paese come il nostro che ruolo dovrebbe avere un Ministro della Cultura? Quali sono, a tuo avviso, i modi che andrebbero adottati per promuovere la buona Letteratura e, in particolare, la buona poesia?

Credo che in questo preciso momento storico sperare in un contributo istituzionale equivalga a una percezione distorta e troppo ottimistica della realtà politica e culturale italiana. Chi si occupa di promozione culturale è, in genere, animato da un’autentica passione per questa attività e vorrebbe regalare alla propria comunità degli eventi ben costruiti. Tuttavia assistiamo ad un decremento di interesse e partecipazione da parte di questa comunità agli eventi che si organizzano. Serate di letture in biblioteca, presentazioni in locali pubblici, festival: spesso ci si ritrova di fronte a pochissime persone, anche se decisamente coinvolte e interessate. Dunque? Io credo che una possibile via per resistere a quella che è in realtà una penuria d’interesse generale sia agire da privati cittadini, autofinanziandosi, ripristinando e autogestendo quello che un tempo era il salotto. Un salotto autogestito, ecco. Non c’è bisogno che sia il salotto di casa. Pensiamo a questo: dei privati cittadini chiamano un poeta da fuori città, qualcuno di cui hanno amato il lavoro, che vorrebbero incontrare e sentir leggere. Occorre un luogo dove ospitarlo e il rimborso del viaggio. Per l’ospitalità si spera non manchi il divano di qualcuno mentre per il rimborso i partecipanti alla serata vengono invitati a dare un contributo, un obolo, un’offerta libera. Ovvio, il poeta non dovrebbe pretendere un cachet (se non del tutto simbolico): gli basti una cena, la compagnia di qualcuno che stima il suo lavoro, un week-end in una città diversa, la consapevolezza che la sua poesia lascerà un segno importante, anche se in pochi. Credo che questa forma di “salotto autogestito” possa sopperire alla mancanza di interesse da parte delle istituzioni, sia acuire l’interesse di un pubblico autenticamente interessato. Si tratta, lo ripeto, di una forma di resistenza culturale possibile e si spera provvisoria.

 

Quali sono i fattori che più influiscono – positivamente e negativamente – sull’educazione poetica di una nazione? Dove credi che vi sia più bisogno di agire per una maggiore e migliore diffusione della cultura poetica? Chi dovrebbe farlo e come?

Mi permetto ulteriori interrogativi, forse polemici: ma esiste una “educazione poetica”? Credo esista l’educazione (la buona educazione intesa come rispetto di sé e dell’altro, finalizzata alla pacifica convivenza) e credo esista l’interesse (la passione, se vogliamo metterla in termini romantici) per la poesia. Non credo si possa imporre l’interesse per la poesia e l’arte in genere. L’educazione al rispetto oggi in Italia è palesemente carente a livello istituzionale e di conseguenza sociale. Purtroppo qui m’accorgo di scadere in una sterile demagogia populista e forse potrei essere più utile parlando di quella che io considero la mia prima “educazione poetica”: in terza elementare la maestra ci incoraggiò a creare rime, filastrocche, nonsense. Era divertente, per noi bambini. A fine anno raccolse tutte le nostre “rime” in un ciclostilato, facemmo delle fotocopie, le spillammo e creammo una sorta di antologia creativa e collettiva della classe. C’era il senso di appartenenza alla comunità, la cura di un lavoro che partiva dall’espressione individuale ma era, alla fine, merito e responsabilità di gruppo.

 

Il poeta è un cittadino o un apolide? Quali responsabilità ha verso il suo pubblico? Quali comportamenti potrebbero essere importanti?

Dal mio punto di vista il poeta è un cittadino. Svolge un’attività non retribuita, spesso non compresa se non addirittura dileggiata. Il poeta dovrebbe avere un atteggiamento professionale verso il pubblico (pubblico promiscuo: siano lettori, fruitori, ascoltatori, sia fedeli che occasionali).  Ritengo sia importante per uno scrittore conoscere a fondo le proprie dinamiche di scrittura, analizzare non solo le realtà di cui scrive ma anche le ripercussioni che la scrittura può avere sulla sua vita. Una sorta di igiene mentale preventiva. Purtroppo si verificano fenomeni di cupo arrivismo anche all’interno di una pratica culturale, sociale e creativa non remunerata.

Credi più nel valore dell’ispirazione o nella disciplina? Come aspetti che si accenda una scintilla e come la tieni accesa?

Considero l’ispirazione come la sintesi improvvisa di idee già in parte elaborate. È necessario avere disciplina quando si lavora su un progetto: si studiano via via i vari problemi del tipo di lavoro, consapevoli che si tratta di una ricerca sempre aperta. È un lavoro di pazienza, secondo me.

 

Scrivi per comunicare un’emozione o un’idea? La poesia ha un messaggio, qualcosa da chiedere o qualcosa da dire?

Dipende: non credo che il verso sia adatto alla comunicazione (lo slogan è molto più efficace, ma trattasi di comunicazione di massa a fini commerciali). Sicuramente si scrive per trasmettere. Trasmettere un’emozione o un’idea non fa molta differenza finché non c’è qualcuno che risponde. Personalmente noto che la mia scrittura si coagula sempre più spesso intorno a delle opzioni narrative. Più generalmente, direi che tiene al confronto (con il fantomatico pubblico, con sé stessa, con il tempo, con altre espressioni artistiche anche di diversa natura). La poesia chiede ascolto. Più che dire qualcosa, dovrebbe dare qualcosa.

 

Cosa pensano della poesia le persone che ami?

Questa è una domanda crudele.
Tuttavia ho creduto che la cosa migliore fosse chiederlo direttamente al mio compagno. Ha risposto: “Se sono tue [le poesie, nda] magari leggo l’inizio e se non mi piace non arrivo alla fine. Ma se sono dedicate a me le leggo sempre fino in fondo”.
Lui non concepisce la poesia come entità o valore, solo come fogli scritti. Ma è uno dei motivi per cui lo amo.

 

Sei costretto a dividere il tempo che più volentieri dedicheresti alla poesia con un lavoro che con la poesia ha davvero poco a che fare? Trovi una contraddizione in chi ha la fortuna di scrivere per mestiere? Come vivi la tua condizione?

Svolgo un’attività di traduzione, ovviamente precaria, ovviamente occasionale. Noto però che quando traduco un romanzo o un saggio tendo a scrivere di più in versi. Parallelamente traduco anche poesia straniera ma è raro che ciò possa costituire un guadagno economico. Ci si guadagna molto in termini di bagaglio artistico, però. Di consapevolezza.
Personalmente non definirei chi scrive per mestiere “fortunato”. Fortunato, a mio avviso, è chi può dedicarsi alla scrittura senza la necessità di doversi mantenere. Certo, ci sono casi di poeti che riescono a guadagnarsi da vivere con attività collaterali (sfruttando fama, talento e passione), ma sono davvero casi rari.
Io principalmente mi considero una casalinga, nel senso che la mia preoccupazione principale è prendermi cura dell’ambiente domestico. Trovo che sia un lavoro che ha molto a che fare con la poesia. Anche un testo è spazio abitativo di cui aver cura.

 

Cosa speri per il tuo futuro? E per quello della poesia? Cosa manca e cosa serve alla poesia ed ai poeti oggi?

Per quanto riguarda me e la mia scrittura spero unicamente che un futuro ci sia. La poesia non è un bene primario tuttavia è stata capace di sopravvivere a estinzioni di intere civiltà. A cambiamenti climatici. A due guerre mondiali. All’armamento nucleare.
Alla poesia oggi non manca nulla, anche se un incremento dei lettori non guasterebbe: mi chiedo cosa succederebbe se all’improvviso ci fosse un vero e proprio mercato di poesia in Italia, con tirature da best-seller. Riuscirebbero a non avere un esaurimento nervoso? Io temo che un poeta rock-star prima o poi finirebbe in rehab.


Marco Simonelli è nato nel 1979 a Firenze, dove vive. Lavora come traduttore. Nel 1998 ha pubblicato il racconto in versi Memorie di un casamento ferroviere del ’66 (Florence Art, Firenze). Del 1999 sono invece Giorni Verdi (Lietocolle, Como) e Notturno per grondaia e fili della luce (Gazebo, Firenze). Dal 2000 al 2003 ha fatto parte del gruppo di poesia performativa “Stanzevolute”. Sue poesie, interventi, traduzioni e recensioni compaiono sulle riviste “L’Area di Broca”, “L’Apostrofo”, “Atelier”, “Testo a Fronte”, “Re:”, “Poeti e Poesia”, “Tabard”, “Trivio”, “Reti di Dedalus”, “Nazione Indiana” e “Absolute Poetry”. Del 2004 è il poemetto Sesto Sebastian – Trittico per scampata peste (Lietocolle, Como), riscrittura in chiave omosessuale del martirio di San Sebastiano: dal testo è stata tratta una performance presentata a Firenze, Roma, Pistoia, Montiglio e Palermo. Nel 2007 è uscito Palinsesti – Canzoniere Catodico (Zona, Arezzo) e nel 2009 Will – 24 sonetti (D’If, Napoli).

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  • Il cittadino Simonelli fa il suo dovere e nel farlo lo fa anche per noi. Diciamo che lo aiuta chi gli e’ al fianco (e qui mi scuso una volta per tutte per gli apostrofi invece degli accenti, ma scrivo da una tastiera inglese) a quanto parrebbe dal dettaglio rivelatorio in risposta alla domanda crudele. Qui pero’ e’ un peccato che a uno verrebbe voglia di leggere le poesie ma non se ne trovano in calce. Il che forse e’ un bene cosi’ andro’ a ordinare i libri (se mi arrivano, ma questa e’ ancora un’altra storia, dato che non sono nel Minnesota! eppure stranamente anche qui il Simonelli ci vede giusto). Dire poche cose e rilevanti e’ sempre un segno promettente. La cura della casa e la cura del testo: vero verissimo. La casa e il testo sono fatte per gli ospiti! Per riparare, per ristorare. Ecco cosa scrivo qui oggi per sfuggire al dovere e ispirarmi un po’ e indulgere in questa cosa poetica che e’ la pigrizia, la procrastinazione (senza nulla insinuare Simonelli eh). Cari saluti e a rileggerLa.

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