L’epica quotidiana: umiltà e regalità della parola – prefazione a “Fuori i secondi” di Corrado Bagnoli

di Gabriela Fantato

fuori i secondi bagnoliNon capita spesso di leggere un  libro come Fuori i secondi: qualità della scrittura e originalità del punto di vista sono evidenti, tanto da fare di questo libro un caso unico nel panorama attuale della nostra poesia. Ma non solo. Ci sono alcune specificità linguistiche che vanno segnalate: innanzitutto il libro si presenta scritto in due lingue –la versione originale in italiano e una versione dialettale a fronte –  ma non si deve parlare di una vera e propria traduzione, piuttosto invece il libro ha una sorta di doppia voce – italiano e dialetto, appunto– in cui ci vengono restituiti legami, valori, affetti, sogni e paure a partire dalla figura del protagonista, e dell’intero mondo che viene creato intorno a lui.

Al centro sta Augusto, una giovane promessa del pugilato italiano degli anni cinquanta, che dopo avere incontrato Maria lascerà il ring per costruirsi una famiglia, diventando padre di tre figli, Enrico, Viola e Marco. Questa storia singola è però anche emblematica di un momento di transizione tra un’Italia che parlava in dialetto e la successiva che, invece, iniziava a far proprio l’italiano: un’epoca che è stata, contemporaneamente, passaggio antropologico, culturale e linguistico. Proprio tale mutamento è uno dei motivi per cui il libro ha una doppia voce non come artificio letterario, ma, dunque, per necessità. La versione originale di Fuori i secondi ci testimonia chiaramente dell’italiano usato dai figli, la generazione di cui fa parte l’autore stesso, ed è una lingua non letteraria ma ‘viva’ e in fieri, la cui grammatica e sintassi sono usate dai personaggi in stretta prossimità con la dialettalità. Troviamo anacoluti, idiomatismi, ripetizioni pronominali e avverbiali, quasi sempre con valenza fàtica, per rafforzare il tono comunicativo, come accade appunto nel parlato. Le sgrammaticature sono dunque immesse nella lingua scritta del libro senza  forzature, senza che il lettore avverta in ciò alcune artificiosità e senza che si crei mai un mero ‘gioco linguistico’: l’italiano ‘sgangherato’ e corposo di Corrado Bagnoli è naturalmente tale perché così veniva usato dai personaggi nella loro vita. E, come l’autore stesso afferma, la versione dialettale si è imposta come ‘necessaria’, in quanto quella era la lingua usata da Augusto e dalla gente nata prima della seconda guerra mondiale, persone che avevano un’istruzione elementare, con sogni e speranze genuini, semplici. Il dialetto era la lingua ‘vera’ di quella ‘generazione di transizione’ che ha vissuto il passaggio da un’Italia  legata alla vita contadina e ai suoi valori, a quella che sarebbe diventata in breve l’Italia del boom economico e della scuola di massa, con l’italiano entrato nelle case della gente e l’emancipazione delle donne,  come rinveniamo nel personaggio di Viola, la più ribelle dei tre figli. E’ però importante, e assume una profonda valenza umana e etica, che Bagnoli non scriva personalmente la versione dialettale, bensì la scriva Piero Marelli, poeta che, per formazione ed età, appartiene proprio a quella generazione linguisticamente di mezzo di cui si è detto. La doppia voce del libro è allora segno che l’incontro e l’amicizia tra i due poeti si sono, diciamo così, inverati sulla pagina, dando conto al lettore della trasformazione linguistica di due generazioni. E infatti, come il dialetto viveva allora nelle case ‘affianco’ ad un italiano parlato e scorretto, così leggiamo nel libro le pagine in testo a fronte: le due lingue, quindi, davvero si specchiano e si richiamano l’un l’altra nel libro. Del resto, la versione di Marelli è scritta nel dialetto della Brianza, la lingua in cui parlava e parla la famiglia di Bagnoli che risiede ancora in quella zona, e la pronuncia ‘ariosa’ diventa non solo una sorta di reinterpretazione della vicenda, ma il suono stesso della vita e degli affetti di quella gente che, sottolineando la particolarità del sentire e del parlare dei personaggi, crea ulteriore ricchezza in Fuori i secondi. Nel dialetto, inoltre, troviamo non solo le sfumature della gergalità e della consuetudine, ma anche altri aspetti linguisticamente interessanti: il passaggio generazionale, per esempio, è segnato chiaramente nelle voce di Viola che, fattasi donna, risponde al padre in italiano, come possiamo constatare nella versione dialettale. Ancora: la parola mànager è usata da Piero Marelli con l’accentazione del parlato e suona manàger; e ricordiamo che, proprio negli anni del secondo dopoguerra, gli italiani stavano cercando di far propri alcuni termini anglofoni, entrati in uso soprattutto nella vita lavorativa. D’altro canto Bagnoli, in italiano, usa la parola mecc – così come si pronuncia –  e non match, come sarebbe corretto scrivere. In Fuori i secondi sono immessi nel corpo stesso delle due lingue i ‘segni’ della vita, delle sue fratture, delle sue fatiche, del cambiamento anche nel modo storpiato in cui la gente tentava di far propri quei nuovi termini americani entrati nella loro vita con pronuncia ‘all’italiana’. Mi viene in mente il grande Pascoli che, per primo, scrisse in poesia parole di un inglese italianizzato, e cito tra i molti, un esempio tra i più divertenti: il poeta usa la parola bisinis al posto di business, a testimonianza della vita della lingua italiana di un’altra generazione, quella che, emigrata in America nel primo Novecento, era tornata a casa portando con sé solo il ricordo del suono di quelle parole lontane e mai davvero imparate.

La scelta di dare una doppia voce al libro – con tutto ciò che questo rivela e anche sottintende – indica in modo preciso che Bagnoli e Marelli hanno voluto affrontare il problema della lingua come testimonianza di vita e, facendo ciò, hanno preso una chiara posizione anche rispetto alla nostra tradizione letteraria. Nel corso del Novecento prendere le distanze da certa “lingua pura” in poesia, in nome di una scrittura ‘viva’, anche scomposta e prossima al parlato, ha voluto dire fare propria una poetica di realismo: penso a un altro autore che amo, a Giovanni Testori, per stare in area lombarda, che proprio intrecciando italiano e dialetto in una commistione di vitalità irrefrenabile e artificiosità barocca ha creato una sua lingua, corposa e visionaria insieme, in cui irrompono forza del corpo e religiosità drammatica. In Fuori i secondi la lingua non è mai così ‘eccessiva’, ma composta e contenuta, eppure l’opera di Bagnoli e Marelli appartiene a questa zona della letteratura dove la tensione tra pagina e realtà si fa centrale.

Nel libro la vita non è mai spiegata, ma accade: il narratore non dà messaggi di sorta al lettore, né giudizi o pareri soggettivi sugli eventi, ma non ci sono neppure descrizioni da un punto di vista esterno ai fatti. Seppure si cambi – magari all’interno della stessa strofa – il punto di vista, passando da narratore onnisciente a narratore interno, coincidente col punto di vista del protagonista, viene messo sempre in scena il farsi stesso della vicenda, tanto che persino i dubbi, le paure, la rabbia e i sogni dei personaggi non si rivelano in momenti di introspezione, né attraverso analisi psicologiche del narratore, bensì emergono dall’interno della vita, in concomitanza stretta con l’accadere dei fatti. Proprio per questo il lettore si sente immerso in ciò che avviene sulla pagina ed è partecipe della storia nel vero senso della parola. Leggiamo, a titolo di esempio, l’inizio del libro in cui vediamo sia il veloce cambiamento dei punti di vista, sia l’emergere dell’interiorità di Augusto che si fa dialogo autoriflessivo: “Ancora qualche secondo e sarebbe stato solo/ solo contro l’altro che era solo contro di lui./ Non era la prima volta, ma ogni volta è come/ se fosse la prima. Soltanto, ogni volta, sai/ un po’ meglio cosa ti puoi aspettare da te.// Ti volti indietro e sai quello che hai fatto/ e quello che hai davanti non ti può spaventare./ Tutt’al più potrebbe essere più forte, pensava/ lui: la vita gli aveva  già pestato duro il muso;/ nessuno, invece, gli aveva fatto scricchiolare/ le ossa dentro al ring”. Troviamo tanti altri momenti come questo all’interno del libro, e in tutti mi preme sottolineare come questa mobilità del punto di vista esprima una scelta precisa: si sposta lo sguardo di chi narra per aderire meglio al ‘corpo del mondo’ che è la vita vissuta. Ed ecco perché, pagina dopo pagina, ho avuto la sensazione di essere ‘chiamata’ a far parte della vita del protagonista e dei personaggi che si incontrano al suo fianco.

La concretezza della vita che pulsa in Fuori i secondi, mi consente di avvicinare quest’opera, la sua scrittura, alla scrittura di un film: lo spettatore-lettore vede e sente ciò che accade sulla pagina. La scrittura si fa sguardo, dunque, e anche tatto e olfatto e fa entrare dentro il mondo che accade sulla pagina. Così, per far comprendere come l’autore ci avvicini ai personaggi e agli eventi di cui scrive, è quasi naturale parlare in termini cinematografici: la scena è data spesso al lettore in riprese pianosequenza, i personaggi e gli ambienti sono visti con un’inquadratura ‘bassa’, da vicino e al livello orizzontale dell’accadere: “(…) Anche Augusto non aveva/ nulla da dire quando sua madre stese lo straccio/ sul tavolo di legno e mise giù tre scodelle e guardava// sua madre mangiare, Paola ed Antonia mangiare,/ le tende tirate a nascondere i letti, la stufa accesa/ con la segatura ch’era riuscito a trovare/ dentro la bottega di Pietro. Lui sapeva che era giusto/ così, che sua madre, anche quando lo puniva, / era sua madre. E la fame delle sorelle era la fame” (p. 19). La scena viene inquadrata – come leggiamo – con prossimità a ciò di cui si narra, senza stacchi tra persona, cose e ambiente ed è come se sulla pagina il punto di vista partisse dal sentire il corpo come ‘apertura originaria’, per cui il corpo è ‘foglio a due facce’– come scrisse il fenomenologo Merlau-Ponty – con cui si è al mondo e si agisce, si soffre, si ama. Infatti nella scena vediamo ciò che accade, ma insieme a ciò si dà l’interiorità dei personaggi, quasi che la vita interiore dei personaggi nasca dal contatto, dall’urto o dall’abbraccio con gli altri e con il reale. A volte il focus della scena è più stretto e l’occhio del narratore si sofferma su primi piani di corpi umani, un gesto che prepara il pugno mentre il sudore cola, o su un particolare concreto, tanto che un oggetto comune della vita, un piatto, la porta di casa, l’accappatoio della boxe, ma anche un animale o una pietra, ci appaiono davanti agli occhi con precisione: “Augusto avanza saltellando sulla punta dei piedi,/ dentro il suo accappatoio azzurro, con il nome scritto/ dietro, con il cappuccio che gli copre quasi tutta la faccia, / la faccia piena di vaselina, la faccia lucida che il Pino/ha riempito di vaselina” (p. 5) oppure :“Augusto gira la chiave/ nella saracinesca che con un colpo solo tira su/ fino a farla scomparire dentro il cassone” (p. 161). Poi ci sono inquadrature in campo-lungo, come se un grandangolo afferrasse tutta la scena, un po’ distorcendola per avvicinarla a chi guarda, e si vede così l’intero paesaggio: un’atmosfera complessiva, in cui i personaggi vivono, si muovono, soffrono, si perdono, muoiono e si amano. Atmosfera che è data anche dalla presenza dei rumori: a volte è il battere dei piedi sulla pedana, il borbottio della pentola o lo stridere delle rotaie, a volte un rumore basso che dice la voce del destino, ma spesso anche gli odori ci avvolgono “(…) Si allontana, dentro altre nebbie,/ dentro l’odore del legno della macchina del Pino,/ lontano da un padre che però è sempre il loro padre” (p. 43). Attraverso diverse modalità, quindi, il libro dà al lettore la tangibilità del reale e insieme le esitazioni, i sentimenti e i pensieri ad alta voce dei personaggi, in un intreccio che non restituisce tanto l’esperienza diretta – tentativo impossibile e ingenuo in scrittura – ma la messa in scena del rapporto tra io e mondo, all’insegna di un realismo semplice e complesso insieme, mai banale.

Un altro elemento di particolarità del libro risiede nella sua versificazione. La poesia qui ha ‘respiro lungo’, grande ritmo e una precisa sonorità. Non si leggono versi esclusivamente lirici, ma neppure una poesia che va verso la prosa, come spesso accade nei libri degli ultimi decenni. La versificazione ha un ritmo che dà corpo all’accadere delle vicende – incalzante in certi tratti e, dove occorre, più lento – e la modulazione di toni e timbri lessicali segue il muoversi della vita. Così troviamo accenti lirici ma anche riflessività, una declinazione concreto-visiva che si apre però anche a dialoghi interiori, in cui si mostra l’intimità dei personaggi. Insomma: vera poesia. Ma non solo. In queste pagine c’è una trama tesa, fitta, che si sviluppa in episodi sino ad un climax della narrazione; le vicende si concatenano tra loro e c’è un’esatta collocazione dei fatti e delle persone. Tutto, inoltre, si svolge nel tempo della vita e non in una dimensione vaga, atemporale o astorica; c’è, come si è già detto, un punto di vista del narratore che crea le vicende dall’interno; ci sono personaggi ben individuati, così particolari nella loro vicenda storica precisa da divenire figure universalmente riconoscibili. Con Fuori i secondi siamo immersi in un vero e proprio romanzo in versi e viene spontaneo chiedersi se ci sono, e quali sono, i referenti degli autori sia nella nostra tradizione poetica sia in altre. Per parte mia credo  che  questo libro non abbia nulla a che vedere né con la scrittura autobiografica, elegiaca e un po’ chiusa in se stessa su una linea difensiva degli affetti e della memoria, di Attilio Bertolucci; né con il lucido e freddo resoconto, un po’ estraniato, del pur indimenticabile Pagliarani e della sua  “ragazza Carla”. Mi pare insomma che questo romanzo in versi sia un caso particolarissimo nel panorama della poesia italiana dei nostri anni, e non solo. Riporto qui alcune  date  poiché servono per capire come anche  non ci sia alcuna volontà di rincorrere  una recente ‘moda poematica’ che viene dall’estero e che ha comunque aperto varchi altamente positivi nel clima asfittico della situazione poetica italiana. Anche le date, insomma, confermano l’originalità di questo romanzo in versi: il libro è stato scritto molto prima dell’uscita del poema di Derek Walcott, quell’Omeros che ha tanto successo e riscontri di critica; molto prima  della pubblicazione di quell’altro capolavoro epico che è il Freddy Nettuno di Les Murray. La prima stesura in  italiano di Fuori i secondi, infatti, è del 1996; esiste poi una versione  successiva del 2004, con interventi sulla versificazione,  e la versione attuale che ha avuto aggiustamenti all’inizio del 2005 proprio nella fase di scrittura della versione dialettale. E pur tuttavia a questo clima epico lo si può avvicinare, non in senso classico, naturalmente. Il libro ha in sé un fulcro vivo e pulsante di eroismo minore, direi: non c’è un eroe in guerra e non c’è un popolo che lotta al suo fianco; non c’è nemmeno un amore per cui si compiano imprese estreme, però c’è una lotta eroica in atto. Nella giovinezza il protagonista impara a vivere proprio sul ring, negli spogliatoi e sulla pedana. Augusto vive poi la sua sfida proprio con la vita, giorno per giorno, imparando ogni volta qualcosa. Egli è forte e debole insieme: sa di valere, ma sa anche di poter perdere. Lo accetta, non molla mai, va avanti e si mette in gioco. Augusto, insomma, ricorda  quegli eroi popolari che, in Italia,  sono quasi sempre stati legati allo sport: si pensi, ad esempio, all’epopea di Bartali e Coppi! Mi pare si possa dire, dunque, che il romanzo di Bagnoli incarna un’epica del quotidiano da cui si irradia anche un’eticità non astratta,  un modo di sentire la vita, una visione concreta del mondo che ha in sé la percezione di un’intima sacralità della vita stessa. Nel realismo di questo romanzo in versi, infatti, non si contrappongono concretezza e spiritualità, ma la dimensione naturale e tangibile del mondo è manifestazione di altro. Lo avvertiamo: il particolare materico e corposo è messo spesso in primo piano come epifania della vita stessa, vita intesa non come ‘energia vitale’ o ‘slancio vitale’ di bergsoniana memoria, ma come mistero che si incarna nel reale.

Ma voglio ancora approfondire questo passaggio, quella particolare visione del mondo che  permea tutte le pagine di Fuori i secondi. Da subito si avverte che è in atto una lotta che prende la forma del corpo segnato e provato dalla boxe o che si mostra nello scontro sul ring e nelle aspettative e paure che lo circondano. E’ lì che Augusto impara che ci sono regole da rispettare, che c’è un avversario e che, se è più forte, vincerà, perché così è giusto. Sul ring egli impara il confine di sé, la sua debolezza ma anche la sua forza. Il tempo dell’apprendistato interiore di Augusto è scandito dalla frase che dice lo speaker fuori dal ring e che, con cadenza precisa, viene ripetuta nel romanzo quasi a sintetizzare un’etica di vita: “fuori i secondi, e la vita è dentro le tue mani;/ che tu possa piangere o ridere, sta dentro le tue mani”(p. 113). Ma non solo, se la boxe insegna una dura disciplina, ancor più dura sarà la vita: la vera lotta è vissuta da Augusto, come da tutti i personaggi, giorno per giorno e conta la forza interiore acquisita, anche la rabbia e il rancore per i torti subiti e per le sconfitte. Anche questo, paiono dirci i personaggi,  tiene in piedi o fa rialzare. Augusto col tempo capisce che vivere è lottare senza sapere le regole, che ci si deve rialzare, resistere e rialzarsi per continuare sino a che è possibile e “che ogni volta/ che perdi qualcosa, qualcos’altro si fa trovare” (p. 183).  Ecco, dunque, un altro elemento importante nel libro. Intrecciata con la lotta, al di sopra di essa, c’è una sorta di giustizia equilibrativa che sovrintende all’accadere: “la vita ti prende/ e ti dà e adesso a lui gli tocca di prendere, e pensa soltanto a quello”(p. 113), dice il protagonista e ognuno, nel libro, sa che avrà ciò che gli spetta e che, se non ha avuto, avrà secondo giustizia e meriti. Questo fa sì che tutti i personaggi vivano e agiscano senza disperazione e senza colpi di testa, come ‘affidati’ a una sorta di progetto superiore, come se ci fosse qualcosa di più forte e più grande di cui ciascuno è parte. Augusto, ormai in età matura e dopo aver scelto il negozio e la famiglia, pensa infatti che  “in fondo è andata così perché doveva andare così/ non può mica dare la colpa ai suoi figli se  al titolo non c’è arrivato” (p. 171 ) e, alcune pagine dopo, leggiamo: “tutto è come doveva  e adesso lo può restituire/ ai suoi figli che non sono più quelli dei giochi.” (p. 197) Anche Maria – la moglie di Augusto e madre dei suoi figli –  “impara la giustizia di Augusto:/ la vita gli deve qualcosa. E non sembra una pretesa,/ ma un’attesa che risponde a chissà quale promessa/ che Augusto, e anche lei, si sentono dentro.”(p. 155) I personaggi sanno anche attendere perché c’è una promessa che si avverte in tralice a ciò che accade e pare creare un disegno rigoroso. Forse è il destino stesso che tesse le fila e si annuncia, come si diceva, in un rumore ‘basso’ che avvolge la scena. Forse  è un volere superiore e divino, anche se questo non è mai detto esplicitamente nel libro. E’ certo però che il disegno complessivo è ignoto a tutti, come la vita stessa, d’altra parte, che è un mistero che sopravanza i singoli. E’ dentro questa visione del mondo che si colloca la specificità del protagonista che, pur mutando, non cambia nella sua essenza profonda e, infatti, se da giovane egli “crede nelle sue mani/ e guarda il mondo dritto negli occhi “(p. 91), da adulto capirà, anche attraverso i suoi figli e il nuovo mondo che avanza e muta in loro e con loro, che la vita non dipende da lui, che non può dominarla con le sue mani, anche se sono forti, perché la lotta da affrontare è sottile, complessa e diversa, nuova ogni volta. Augusto quindi sa restare fedele alla vita, a ciò che ha imparato e sente che, nonostante le fatiche e le perdite, qualcosa lo tiene legato a ciò che sente suo e che ha costruito. Forse perché sa, appunto, che tutto si sistema in un equilibrio complessivo: persino le tensioni con Viola, la più ribelle dei figli, passeranno e si tornerà uniti, dentro il grande movimento della vita. Tanto che leggiamo: “proprio come fanno gli scampi nel brodo,/ nel pentolone rotondo, proprio come la vita cuoce lentamente/ tra le mani di Augusto e anche adesso che sembra scivolare via, / proprio mentre ti sembra di averla persa una volta per tutte./ Come si fa ad impararlo una volta per tutte? Ogni volta/ è diverso e Augusto lo sa.” (p. 199) . Per vivere bisogna  imparare l’umiltà di accettare, ogni volta, la propria debolezza. Solo così si costruisce quella forza che è adesione alla vita stessa: è questa la testimonianza di vita di Augusto e della sua famiglia.

Ho parlato a lungo di Augusto, ma anche le donne in Fuori i secondi sono figure di rilievo. Sono loro – ancor più degli uomini – che comunicando non a parole ma coi gesti, col volto e in modo silenzioso, incarnano una sorta di sapienza naturale, legata al corpo, alla terra, una tenacia che non viene meno. Sono le donne che , prendendosi cura di tutto e tutti, stanno in contatto con la vita e sono riparo e anche sfogo per gli uomini, per la loro fragilità. Le donne sono al centro della vita degli uomini, così è per la generazione che precede Augusto, coi personaggi di Anna e Agnese, ma anche per le donne che il narratore ci fa vedere in fila, al cancello della fabbrica, forti e silenziose nel lavoro; ma così è per Virginia che ha una grande forza d’amore anche se Augusto la mette da parte rapidamente dopo avere incontrato la donna che sposerà.  E’ Agnese, sua  madre, che darà a Maria, esitante alla corte dell’impetuoso giovane Augusto, un consiglio fondamentale per la sua vita, lo stesso che incarnerà il suo futuro marito: “Non impedirti niente, non da sola per chissà quali fantasie/ che non mi sono mai passate per l’anticamera del cervello./ Se uno vive, sbaglia” (p. 105). Ma è poi Maria la figura femminile di spicco. Lei e Augusto sono i due protagonisti inseparabili dell’opera che il destino ha disegnato; anche se all’inizio non si capiscono, i due, infatti, sono parte di un unico disegno, come leggiamo nelle parole di Augusto : “Maria lo guarda come si guarda una persona strana/ dondola la testa piano e muove i suoi capelli neri e stringe/ le sue labbra in una smorfia che Augusto non capisce./Ma non importa, perché le cose vere/ non si capiscono mai così, ti entrano dentro/  e dopo un po’ le riconosci  e dici: era già qui”(p. 81). Attorno al loro incontro e al loro amore ci sono le pagine più liriche di Fuori i secondi ed è in loro che si vede più chiara la coesistenza di una storia particolare che ha in sé qualcosa di tenacemente umano, in quanto la loro vita incarna quei valori profondi e universali di cui ho detto sinora.

Ci sono però due domande, collegate tra loro, nella cui risposta sta forse la radice stessa del libro e da cui traggono motivazione tutti i suoi  elementi espressivo-formali: si può ancora raccontare? E la poesia può farlo? Bagnoli e Marelli ci dicono di sì e lo dimostrano in Fuori i secondi con un’intensità tale da obbligarci a riflettere. Credo che tutti noi abbiamo avuto esperienza del fatto che raccontando si diventa quello che siamo, perché è nel raccontare che si prendono le distanze dal proprio io, così com’è, e lo si vede nel suo divenire. Solo se rivisto nelle figure di una narrazione il nostro passato ci apre la possibilità di riscrivere e ricreare il presente entro una prospettiva ampia, con uno sguardo dilatato e non intimistico o narcisista. Così la storia di Augusto non è né il ricordo del passato privato dell’autore, né tanto meno un anelito elegiaco al ‘ciò che fu’, in cui sarebbe centrale la nostalgia, un volgere lo sguardo all’indietro, dimenticando il presente e il futuro. Questo romanzo in  versi è, invece, una particolare recherche, lirica e realistica insieme, in cui la voce del narratore ci guida dentro la memoria facendosi attenzione e cura a ogni particolare in cui è inscritto l’universale. Augusto, in fondo, è un uomo semplice, ma capiamo cha ha un’intima sapienza che lo rende ‘esemplare’ per noi e, come abbiamo visto, questa sapienza consiste nella sua fedeltà alla vita. “ Forse è per questo che Augusto e Maria si guardano ancora così” (p. 213), scrive il narratore nel finale. Così uniti e complici aggiungo io, in quanto capaci di non perdersi e andare avanti, nonostante tutto ciò che li ha travolti e ancora li travolgerà. In Fuori i secondi libero arbitrio e destino, dunque, tessono insieme la traccia della vita e le danno senso: vivere è accogliere ciò che viene e fare che il destino si compia, saper attendere che accada e, contemporaneamente, saper agire tenacemente per andarvi incontro. Persino nel nuovo che avanza, nel protagonista che diventando adulto si fa più debole, nei suoi figli che si fanno adulti, ci sono i segni di qualcosa che, pur cambiando, resta uguale  a sé e resiste. A questo Augusto è fedele: non a valori economici, né a ideologie e neppure alle singole persone in quanto tali, ed è questo è il segreto che egli porta inscritto nel suo stesso corpo, nelle sue braccia aperte e grandi, tanto da farlo sembrare “il Cristo del cimitero che Ciccio/ aveva fatto cadere”: braccia capaci di abbracciare i figli, Enrico, Viola e Marco e insieme capaci di accogliere la vita, “tutta quella che viene, ogni volta che viene”, leggiamo nel finale.

Augusto incarna, anzi incorpora, in ogni suo gesto, in ogni paura, esitazione e sogno ciò che è radice di ciascuno noi: la speranza che la vita abbia un senso, il che diventa capacità di lotta e di attesa. E’ questo che fa di Augusto un personaggio semplice e complesso insieme, umile e regale. La vita stessa dei personaggi ci ha testimoniato che vivere è accogliere ogni evento come qualcosa che è nostro e, insieme, è più grande di noi. La vita infatti appartiene a ciascuno e, allo stesso tempo, noi apparteniamo ad essa e siamo parte del tutto. E’ questo che crea un ‘ponte’ tra passato e presente, tra la vita singola di cui leggiamo e la nostra stessa vita. Fuori i secondi è quindi un romanzo di formazione in versi, in quanto la memoria qui si fa carne, amore, vita vissuta e ci “apre alla speranza”, direbbe Walter Benjamin, la sola condizione che dia senso al tempo, diventando fondamento di futuro. Forse per questo, sin dai primi versi, mi sono immersa nella lettura e ho seguito ciò che accadeva sentendomene parte, sentendo che ‘mi riguardava’. E davvero Fuori i secondi ci riguarda e chiama all’ascolto.

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