Marina Corona – una nota di Stefano Guglielmin

(già su Blanc de ta nuque)
Questi inediti di Marina Corona, come per Ida Travi, nascono dalla bocca che li pronunzia, non dalla penna che li incide, e sono canti del prendersi cura e dell’invocazione: noi, dice, «medichiamo» e «mendichiamo» il ciclo crudele eppur necessario del dolore, tatuato nella natura, che tuttavia rimane madre e soprattutto alfabeto del destino di ciascuno, essendo tutti consegnati all’oblio, alla cancellazione del nome. Disseppellire i nomi; questo infatti è il compito dei mortali, ci insegna Corona, laddove la natura cancella tracce, per darne altre, in un proliferare che è ripetizione/dispersione.
Da Leopardi si esce così: benedicendo l’eterno anello del divenire, che incenerisce le cose dopo il dono di averle rese singolari. «Il sole slega», libera gli esseri dalla notte, li dissemina nell’esistere, lascia per esempio al ramo la responsabilità di dare agli uccelli ristoro, al tronco leggerezza, sostegno alle foglie. L’uomo civilizzato invece, afferma implicitamente la poetessa, è la creatura più fragile proprio perché nato dalla Storia, che è gelo e sradicamento dal tempo circolare; per questo, solo l’amore può rifondare il legame con il tutto: «Chiedo allo zenit di tenere saldo / più saldo l’amore». L’asse che lega il cielo e la terra, albero cosmico che trattiene l’oscuro e la luce, rimette l’umano dentro il cerchio del sacro, giacché, da solo, questi vive costantemente la precarietà, la casa piena di vento. L’amore traduce nella pratica quanto l’esserci ha inscritto ontologicamente sin dapprincipio (ma che la modernità ha rimosso): l’io è relazione, un di qua e di là della presenza, oscillazione che tracima e vive la pienezza soltanto essendo altro. Ma l’orrida bellezza del canto rinbaudiano qui non c’entra: Corona non cerca né di essere assolutamente moderna, né la parola estrema, assoluta, la soglia dalla quale parlare in nome di ognuno, possibile dopo il ragionato sregolamento dei sensi; più mestamente, lascia al mondo la sua fioritura, il suo inverno, e se ne prende cura liberandolo al proliferare delle differenze, negando semmai alla modernità alcun compito salvifico, alcuna aurea messianica: «dai da mangiare semi / alle stelle, alle foglie, alle fontane / tu che rispetti l’alba / la pietra inebriata che la contiene / lascia che ti divida tu e tu / e l’ombra non gridi».

**

Tu chiami la neve: neve, figlia
del dolore, dici:
“è caduta neve pallida fino
a sfinire e priva di radici”
noi medichiamo la neve
con la povertà nelle dita col fiato
che conosce sé si ferma a sé
non domanda
noi medichiamo la neve
cantando un canto corale:
“neve che cadi a fianco, compagna
che seppellisci i nomi
ricorda a noi le mani
che schermarono il viso
ricorda il cuore fermo sugli spalti
e che lo abitiamo mentre tu
la caduca bianca persona del cielo
ci segni labbra a labbra”.

**

Accanto al fuoco diciamo al fuoco:
“brucia con quieta fiamma”
nei cortili deserti
cerchiamo pietre minute
di un altrove che sbatte
contro di noi e ci chiede conto:
“la collina che hai custodita
si chiama morte piccola
lì si spegne la luce
gli uccelli chinano il capo storditi”
“dove ci porterà l’estate?” Dicevi
piegandomi il volto all’indietro
“dove la madre ardente che secca
la lingua?” E’ notte presso di te
chiedo allo zenit di tenere saldo
più saldo l’amore.

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Tu vai nel grande vento
lasci la casa vuota
dove le imposte sbattono
e la luce vacilla
io mi nutro di piccole bacche
ma non voglio diventare selvatica
il vento che ci legherà sarà
amarissimo.

………………………Ora abitiamo case incendiate
………………………dove più forte più
………………………violento è il silenzio.

**

Notte d’occidente lama sottile
che dividi in due, solitario
più solitario dell’alba, il mio paese
…………………………..gli uccelli dicono:
…………………………..“rimango per quest’albero
…………………………..questo ramo che la brina nutre
…………………………..che il sole slega, rimango
…………………………..per il canto delle radici
…………………………..rimango e canto”
…………………………..rapidissimi guardano il cielo
io lascio gli uccelli sul ramo
e che la luce segni il margine
fuori siamo io e te
amore dell’alba
che vibri nelle foglie
le pretendi fino all’appassire,
nella casa una fiamma
ci dice due: una culla e tu,
minuscola voce, acqua raggiunta
dall’acqua, bendata e fasciata, acqua
che regge la luce.

…………………………gli uccelli dicono:
…………………………“per tutti la casa è
…………………………domestica la terra selvaggia
…………………………il cielo se ti straripa straripa
…………………………a te tra le mani, tieni il tuo amore
…………………………come gomitolo dipanalo
…………………………ora per ora parola per parola
…………………………frammento per frammento nella gola
…………………………non devi camminare
…………………………ma sopportare gli astri
…………………………la girandola infuocata
…………………………dai il nome il nome
…………………………reggili nelle mani
…………………………dai da mangiare semi
…………………………alle stelle, alle foglie, alle fontane
…………………………tu che rispetti l’alba
…………………………la pietra inebriata che la contiene
…………………………lascia che ti divida tu e tu
…………………………e l’ombra non gridi”

La luna la mercuriale la nave
delle navi la vergine dal volto
di cerva oltre i vetri
spalancati trascorrendo con tocco
regale, mentre nudi abbracciati
stavamo alla radice
dei sogni li lasciavamo
germogliare a misurare
l’inermità dei corpi
il grado di resa l’assenza
che nel respiro trabocca,
ci legò in nodo scindibile
e non scindibile e di verde
ti diede i riflessi che sono i toni
della verga che conduce e me
di blu mi fece come il cielo
rotondo e familiare
all’alba ci destammo
senza sapere dei colori andammo
fuori sfiorando le dita al saluto
ciascuno per una strada nell’aria
del mattino che non cancella.

**

Ho un canto annodato
un fiorimento stretto
in un angolo del petto per te
se tu lo slacci
se nastro dopo nastro
lo lasci volare
mentre gli alberi guardano altrove
e su di noi cerchiamo note, tracce
arabeschi e fuochi delicati
confidando nelle labbra.

**

Levami dalle tempie
la benda la tenaglia
che toglie la luna dal cielo
come una spenta camelia
e fammi tua acqua tua sabbia
per adagiarti e con la grazia
delle dita che sanno
chinati a consumarmi.

**

Occidente, sentinella d’avamposto,
acqua che ti nutre
bevuta e non bevuta
“dì all’Angelo il tuo vero nome”
raccolgo teneri frutti
li recido sotto stella pietosa
l’armigera, in questo fragore
quando mi sarò nutrita
te ne darò di quest’uva
maturata qui
lieve sole condensato
……………………………e tu che mi cogli
……………………………mi cogli dalla mia mano.

**

Tu stai dall’altra parte del fiume
e la terra ci nutre
con molliche brunite
noi cantiamo canti sbagliati
note distorte che il vento infilza.

**

Verrà un tempo più lieve
saranno meno ingrati
più garbati gli uccelli
più multicolori non grideranno
come quando dalla pineta
gli sparavano addosso i cacciatori,
da soli accenderanno
nella nebbia dei fuochi
con pochi legni raccolti qua e là
sulla terra che sgela
saranno i primi bagliori
i forti colori del giorno.

**

Mi porterai con te faremo un nido
vicino alle aquile tu dirai
“non è che una bilancia la luna
porta fortuna a chi ha occhi bifronti
capelli dal colore addolorato”
io dirò “quand’era una cicogna
perché non hai lasciato
che il candido piumaggio barbagliasse
sopra di te al tuo passo?”
Tu dirai “lasciamo la morte dormire
lei e la roccia sono la stessa cosa
anche la pioggia ha mani che sanno
l’alfabeto che ti insegno, l’ho imparato
dalla luna, puoi tramutarlo in acqua
se vuoi, sei regina tu dell’acqua
io ho roccia invece nelle gengive”
così si baciano i prometei.

Stefano Guglielmin
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