Parola ai Poeti: Federico Federici

 

[Dopo quelle di Gio Ferri, Antonio Spagnuolo, Ida Travi e Giacomo Cerrai, ospitiamo oggi le risposte alla nostra intervista di Federico Federici. Buona lettura.]

 

Qual è lo “stato di salute” della poesia in Italia? E quello dei poeti?

Non riesco veramente a disgiungere il problema della poesia da quello dei poeti: come isolare la vita in un corpo vivente senza comprometterla?
Da lettore, trovo una grande varietà di voci, percorsi, alcuni molto netti. Basta uno sguardo in rete per accorgersene. Diversi sono anche i tentativi di costruire prospettive comuni, anche se non si tratta di veri e propri manifesti. Su tutto pesa, forse come una responsabilità eccessiva, la mancanza di riscontri immediati: bisognerebbe impegnarsi nella poesia piuttosto che nella continua definizione di se stessi come poeti, il resto va da sé. Invece la letteratura (l’arte) spesso diventa terra di conquista per mercanti e, se non dà frutti, è lasciata incolta nel disinteresse generale. In alcuni questo assume i tratti di una mortificazione affettiva, in altri innesca istinti di lotta e di battaglia. Allora la poesia diventa quasi una vera prassi sociale. Dipende dai caratteri.
Personalmente non trovo particolarmente attraenti quelle forme di scrittura nelle quali si avverte solo il tentativo di legittimare il proprio status, attraverso una definizione sempre più minuta della tradizione, negli stili e nei luoghi. Preferisco chi, pur consapevole di quella stessa tradizione, tenta nuove scoperte, attratto più dai confini del mondo che dal trovare subito in esso casa.

Quando hai pubblicato il tuo primo libro e come hai capito che era il momento giusto? Come hai scelto con chi pubblicare? Cosa ti aspettavi? Cosa ti ha entusiasmato e cosa ti ha deluso?

Il primo libro di una certa consistenza è Versi Clandestini di Antonio Diavoli. Lo stampai nel 2004 con lo Studio64 di Genova. Cito questo lavoro per non risalire ai pochissimi esemplari di Ardesia, quadernetto del 1996 che ne anticipò, con qualche eccezione, alcuni testi.
Capii che era giunto il momento perché non riuscivo più ad andare oltre, a scrivere qualcos’altro con la stessa forza. Fu un processo in realtà molto lungo, cominciato intorno al 1994, che mi impegnò per quasi dieci anni e si intrecciò coi primi anni di Fisica all’università e la ricerca di un equilibrio difficile tra parola e numero, verso e misura, invenzione e scoperta. Un banco di prova talvolta tremendo sul piano personale. Ciò che sembrava facile, mi appariva altrettanto inutile. Avevo esaurito la spinta luminosa dell’adolescenza e mi sentivo chiamato a una solitudine più vasta e complicata, che mi si rivolgeva contro dal contatto con la prima vera città della mia vita, Genova, e con gli studi in Fisica, nei quali era difficile misurare subito una vocazione.Non si trattava di snervare il filo del verso con un estenuante labor limae, di provocare continuamente il meccanismo della variante per abbracciare in un solo libro il perimetro del mondo, ma di rompere quello schema creativo ormai senza progressi, nel quale mi sentivo esausto, impoverito. Dovevo lasciarmi alle spalle un’intera esperienza poetica, faticosa e senza pace, dalla quale non ricevevo più né ritmo, né respiro e lo feci con la speranza di chi parte, coprendo bene le radici per metterle al sicuro.
In queste settimane, dopo anni, sono tornato a leggere quei testi, per me, e per altri che mi hanno chiesto di ascoltarli; ho riscoperto proprio lì molti temi di oggi, tornati però modificati, in una differenza che non è solo espressione di uno stile diverso in un momento di grazia, ma conferma di uno spostamento in avanti finalmente e insieme di un vivifico ritorno.
Quella pubblicazione fu anzitutto un gesto necessario verso me stesso, per riprendere a scrivere in altro modo e in libertà. Mi emozionò toccare qualcosa di fisicamente accessibile alle mani – avevo già iniziato da tempo a scrivere quasi solo al calcolatore. Mi piaceva l’ordine di quelle cose straordinariamente identiche, impilate in un angolo dello studio. Potevo finalmente stare in mezzo a loro come non avevo mai fatto, come si sta in mezzo alle persone. C’era in più il fascino matematico della serie, il gioco rigoroso del multiplo visivo.
Mi deluse invece il primo vero contatto con il mondo editoriale e la totale impossibilità di stabilire un dialogo qualsiasi sulla base di un libro.
Prima di approdare allo Studio64, avevo provato a contattare alcuni altri editori genovesi (e non), ma lo schema era sempre lo stesso: non si sentivano di esporsi su quel libro (specialmente in quanto libro di poesia), ma erano disposti a pubblicarmi comunque, purché pagassi. Per me era assurdo, così declinavo l’offerta e ricominciavo da capo. Nessuno mosse mai un’obiezione costruttiva, una critica che si riflettesse sui testi, piuttosto che sulla loro fortuna commerciale. Ma questo problema l’ho conosciuto anche in seguito ed è anche su questo punto che ho imparato a farmi un’idea di chi ho di fronte.

 

Se tu fossi un editore cosa manterresti e cosa cambieresti dell’editoria poetica italiana? Cosa si aspettano i poeti dagli editori?

Accettato il fatto che i “veri” lettori di poesia oggi scarseggiano (ci fu mai un Eden al di fuori del mito?), mi stupisce notare come la stessa sorte non tocchi ai “veri” poeti. Forse il lettore di poesia non è una specie in estinzione come dicono, ma ha seguito un’evoluzione darwiniana sino allo stadio di poeta.
Con questa premessa, fossi un editore cercherei di assecondare un’idea non troppo restrittiva di poesia, di non giudicare gli autori esclusivamente secondo aspettative personali (cosa già di per sé difficile). Eviterei le collane a pagamento. Delle tante in giro, poche hanno un curatore: a nessuno conviene spendere la propria credibilità senza poter esercitare, se non un diritto di veto, almeno quello al pudore. Quale effetto benefico può avere sulla poesia tutta – non dico sulla fortuna del singolo – questo continuo accumulo di brandelli e scorie in una discarica comune? Così come non credo che riempirsi a forza lo stomaco aiuti l’appetito, accogliere “quasi tutto” in poesia, con poche distinzioni, non la rende migliore, né più comprensibile.
La cosa è grottesca anche al solo scopo di trovare soldi da investire nella “vera poesia”. Affinché il doppio gioco regga, non si possono scoprir le carte e tutto resta mescolato, indistinguibile ai più. Perché non tentare un’altra via? Collane di manualistica, eserciziari ad uso delle università, guide turistiche, ecc. sono cose ben più dignitose e, se non educano il gusto, almeno non lo guastano e hanno una loro utilità. O forse il riscontro non è immediato e il margine di guadagno inferiore?
Se da un lato capisco le ragioni di quelli che, in buona fede, chiedono all’autore di esporsi anche economicamente, dall’altro vedo già da tempo in rete gli strumenti perché ciascuno faccia da sé e pubblichi un libro. Se l’opera c’è e vale, può avere la stessa fortuna anche così.
Probabilmente questo circolo vizioso non si è ancora spezzato perché molti si aspettano proprio nell’editoria tradizionale una legittimazione, che altrove sentono mancare.
Molte volte mi sono dilungato in corrispondenze senza fine su questo tema, restando invischiato in estenuanti battaglie di posizione, ma l’idea di mettere soldi per pubblicare, specialmente in un mercato saturo, mi pare una contraddizione bella e buona. Forse meglio ragionare d’altro, impegnare l’autore in letture, decidere insieme altri luoghi e forme di incontro. Se il libro sta scomparendo, che almeno sopravviva la lettura – riadatto liberamente una questione sollevata da Jack Shafer su “Slate”.
Non mi piace mai parlare in questi termini, perché il passo successivo è quello di chiedersi a chi spetti il compito di tracciare un confine tra il poco, il troppo e il giusto, col rischio di spostare genericamente il problema su un’idea non meno astratta di critica o di pubblico. In realtà, nei meccanismi di mercato come nelle leggi di Natura, non occorre una volontà perché qualcosa accada: innescato un fenomeno, questo evolve necessariamente. E la situazione odierna è appunto questo effetto.

 

La poesia di domani troverà sempre maggiore respiro nel web o starà in fondo all’ultimo scaffale delle grandi librerie dei centri commerciali? Qual è il maggior vantaggio di internet? E il peggior rischio?

Tempo fa, in una libreria di Mondovì, ho trovato un intero scaffale di poesia all’ingresso, in bella vista. Una precisa scelta del libraio evidentemente, che non ha dovuto per questo relegare nessun bestseller in un angolo del locale. Questo per dire che si può trovare spazio a tutto.
Prima di poterla collocare bene, però, bisogna sapere che la poesia esiste e che può interessare a qualcuno. L’idea stessa che chi entra in libreria debba avere già un’idea di cosa acquistare mi pare sbagliata. Ci sono scoperte che si possono fare per caso tra gli scaffali, se chi entra si trova coinvolto in un percorso, un luogo da visitare, non un deposito di merci.
Penso che non ci sia vera contrapposizione tra spazio fisico e spazio virtuale, ma un problema nella modalità di accesso a entrambi. Chi ha un rapporto sterile con la lettura, asseconda idee comunque preconfezionate, e a quelle si attiene. Difficilmente assumerà un comportamento diverso per via telematica, limitandosi ai titoli più in evidenza. Non ha curiosità, né è abituato a stimolarla.
C’è piuttosto un attrito profondo tra medio-piccola distribuzione e grande distribuzione. In molti casi l’interesse dei piccoli editori si è spostato per questo sul web (penso ai numerosi servizi di print on demand, ma non solo), prevalentemente per ragioni di costi.
Il futuro potrebbe giocarsi su un’altra idea di libreria, per certi versi antica: non più terminale ultimo della distribuzione, ma luogo di incontro, di elaborazione culturale. Mi piacerebbe pensare a un libraio come a un intellettuale coinvolto, non un semplice cassiere. Utopia? Intanto il problema è posto chiaramente dai fatti e forse internet sta solo accelerando i tempi. Fra l’altro, credo che nessuna previsione sia realmente attendibile senza prima valutare la fortuna del libro elettronico.
Spesso, un po’ in tutti i campi, si percepiscono contrasti solo perché non si è pronti ad accogliere il futuro, sorpresi dalla sua rapidità d’esecuzione. Si tende allora a guardare alle cose con ottimismo (pensando di crescere), oppure pessimismo (pensando di invecchiare). E dire che alla fine si “muore” in ogni caso, per fare spazio ad altri, ad altro ed è una prospettiva tutto sommato accettabile.

 

Pensi che attorno alla poesia – e all’arte in genere – si possa costruire una comunità critica, una rete sempre più competente e attenta, in grado di giudicare di volta in volta il valore di un prodotto culturale? Quale dovrebbe essere il ruolo della critica e dei critici rispetto alla poesia ed alla comunità alla quale essa si rivolge?

Sarebbe bello riuscire anzitutto a intendersi sull’idea di comunità, idea sottesa in modo vago e restrittivo nelle varie dinamiche dei social network, nella logica dei link e di altre piccole (dis)attenzioni, che vorrebbero pur legare in una trama condivisa i materiali, ma riescono appena ad accostarli in un magma eterogeneo.
Ogni atto di fondazione richiede un terreno pronto ad accogliere il carico di ciò che si vuole edificare. Una vera comunità, in tal senso, richiede un problema centrale, condiviso, un nucleo intorno al quale lavorare e un metodo. E tale nucleo non può, nel caso della poesia o dell’arte in genere, ridursi alla diffusione del prodotto, alla discussione delle dinamiche di promozione culturale o editoriale, ad addomesticare le sensibilità secondo il tornaconto del mercato (penso a varie scuole di scrittura, impegnate nella diffusione di codici di scrittura e nient’altro). Sarebbe come per uno scienziato limitare la propria ricerca ai soli ambiti di risalto tecnologico, più redditizi, abbandonando il sogno di abbracciare, anche solo per un attimo e in un dettaglio significante, la meravigliosa totalità dell’universo. Così l’urgenza, la testardaggine di un poeta dovrebbero adoperarsi anzitutto nella parola. È lì che, nelle circostanze più fortunate, può affiorare in chiunque il senso di quella domanda comune, vera e profonda, che il silenzio altrimenti mortifica.
Diversamente si dichiari che l’arte deve muovere capitali e l’arte che non è in grado di farlo sia finalmente sconfitta.
Sarebbe già una cosa se i poeti si leggessero veramente tra loro, senza che lo scambio diventi un atto dovuto, un investimento sul futuro. Perché ciò avvenga bisogna prendere sul serio la poesia, meno se stessi come interpreti. È come per il volo degli uccelli: ciascuno ha questa misteriosa dote in sé, la esprime come può, come sa, ed è nel volo che coglie e racconta il proprio senso, ma nessuno di essi è il volo.
Il critico non deve ridursi a correttore di bozze, né a manager/promoter di un prodotto, ma studiare l’arte come fenomeno, come qualcosa che accade inevitabilmente, e riguarda molti e si approfondisce solo in alcuni.

 

Il canone è un limite di cui bisognerebbe fare a meno o uno strumento indispensabile? Pensi che nell’attraversamento della tradizione debba prevalere il rispetto delle regole o il loro provocatorio scardinamento?

Il canone spesso piace a chi non ha ambizioni canoniche. Troppi scrittori s’impegnano nel faticoso esercizio di tramandarsi alla memoria collettiva dimenticando che, quando vi saranno inclusi, avranno probabilmente smesso di scrivere da un pezzo. Ci sono dettagli continuamente persi nella memoria dell’universo (penso ai fili d’erba del giardino, alla loro disposizione l’estate scorsa), ma non ne è perso il senso, il meccanismo che li genera. La poesia è forse uno di questi meccanismi e i poeti, i testi, ne sono forse il dettaglio più visibile. Esagero, per dire che la poesia è anche l’arte dell’addio, del congedo di sé dal testo, e questo potrebbe addolcire ogni “ambizione” canonica. Ciascuno trovi in sé una piacevolezza o una cieca disperazione e se ne faccia comunque ragione.
La storia dell’uomo si occupa spesso di dettagli, ma non è per questo più consolatoria. Una scelta degli elementi minimi, che via via strutturano una tradizione, in sé somiglia molto a un campionamento delle specie nella loro evoluzione. Per certi versi mi tornano ora in mente lezioni all’università, nelle quali venivano indicati alcuni “fatti di natura”, dai quali seguiva una serie anche complessa di fenomeni, di singolarità (in poesia le chiameremmo “individualità”), che non di rado erano il risvolto più duttile della cosa, la “naturale esplicazione” dell’invisibile. Ecco, darsi dei fondamenti non esaurisce comunque la realtà.
Qui si parla di decine di migliaia di testi e doverne salvare un corpo ristretto impone sacrifici. Basta sfogliare una qualsiasi lista di testi canonici, perché ne vengano in mente altrettanti, che ci paiono ugualmente degni di tale canonicità. A chi affidare la scelta allora? Il carattere in sé spontaneo della memoria collettiva temo salvi poco e male. Analizzare, scegliere, catalogare richiede un metodo preciso. Univocità. D’istinto associo il canone alla tavola periodica: un modo di disporre le cose che non è solo un elenco.
In un mondo sempre più strutturato dalle dinamiche della rete, che piaccia o meno, l’idea di canone come mappa definitiva risulta forse impraticabile, almeno nei termini in cui fu posta in origine, a partire dall’ambito in cui reclutare i testi da consegnare alla storia. In passato la pubblicazione cartacea, di un libro o su rivista, aveva il valore di un piccolo editto. Ma è ancora così? O lo sarà? Il critico (o la figura polimorfa che lo sostituirà) dovrà anzitutto evolvere il proprio linguaggio per cogliere la ragione profonda di molti testi nati in rete. Il serbatoio dei segni si è arricchito, ci sono meccanismi nuovi e l’ispirazione tenderà sempre più ad assimilarli nel profondo, creando oggetti di parole e segni via via più complessi, anche ove appaiono più nitidi. Non si potrebbe altrimenti cogliere la tenerezza, l’ironia di un testo come 65. (marzo 2001) in Cose di Sanguineti, tanto per entrare nel concreto.
Né (il critico) potrà più limitarsi a ricevere gli esemplari da esaminare, studiare e censire come uno zoologo in visita al parco naturale di tutte le specie viventi, in cui qualcun altro ha organizzato una prima scelta. Con la progressiva caduta di un confine netto tra edito-inedito (l’ebook di cui parlavamo prima, ad esempio), dovrà per forza riscoprire una vocazione alla ricerca, districare i nodi della rete, come uno che torni a esplorare la terra, non solo le teche dei musei. Ciò non significa, naturalmente, che quanto comparirà/compare online abbia di per sé valore acquisito, così come – lo sappiamo bene anche ora – non tutto ciò che giunge su carta è degno d’attenzione.
Le librerie virtuali di “aNobii” sono l’esemplificazione di tanti piccoli (anti-)canoni personali, dell’appropriazione da parte del lettore di quei princìpi che, sino a qualche decennio fa, sembravano appannaggio del critico di professione o del giornalista. Non si tratta più soltanto di raccogliere libri, ma di prendersi pubblicamente la responsabilità di recensirli, di motivare la propria scelta.
Canone dunque come base per una democrazia culturale, per un’educazione possibile? Canone come esercizio della memoria necessaria di ciò che è stato scritto, o di ciò che si è letto? Traccia e, insieme, spinta di un moto evolutivo? La memoria ha in sé una spontanea vocazione artistica, nella misura in cui seleziona e rielabora i materiali. È in essa che gli scrittori hanno spesso cercato la ricetta contro la morte, perché nel punto in cui la vita tocca la memoria, lì sembra persistere. E in un mondo in cui proprio la memoria tende a essere sostituita dal deposito dei materiali in rete, i meccanismi di scelta e di ricerca degli stessi materiali possono diventare vere e proprie mappe di coscienza, quasi atti cognitivi, come chi, in un guizzo, intuisse qualcosa da qualcosa che ha letto.

 

In un paese come il nostro che ruolo dovrebbe avere un Ministro della Cultura? Quali sono, a tuo avviso, i modi che andrebbero adottati per promuovere la buona Letteratura e, in particolare, la buona poesia?

Rischio di ripetermi, ma credo che chiunque voglia fare qualcosa per la poesia (qualcosa che non sia impegnare la propria vita a scriverla, disposto a ottenere nulla in cambio), dovrebbe impegnarsi a testimoniarla, a fare in modo che si sappia in giro che essa esiste, che i poeti ci sono, viventi o contemporanei che siano, e godono di ottima salute. Ciò solleverebbe anche il morale e li renderebbe forse più amichevoli tra loro e simpatici a chi li legge.
Siamo in un contesto che dà risalto alla rappresentazione sull’ascolto, perché ciò che è reso spettacolare sembra più reale, può essere accolto senza interpretazione, quindi senza libertà. La poesia è invece consegnata libera al lettore, ed è questo, certo, uno dei tanti elementi della sua inattualità. Non importa di che tratti, la poesia tocca i nervi, scuote, fa sentire vivo il linguaggio e la possibilità di cambiarlo e con esso manovrare il pensiero. Purtroppo la paura di non essere accettati spinge molti a rifare il verso ai modelli che vorrebbero cambiare. Si può essere conformisti anche nella critica al potere.
Un gesto rivoluzionario, da qualsiasi parte venisse, sarebbe rendere la poesia disponibile in ambienti dove non ci si aspetta di trovarla. Come nelle scuole, nei telegiornali, nelle metropolitane, magari trasmessa su quegli orridi display appesi dappertutto, ecc. Invece la parola arriva sovraccarica di informazioni inutili, ribadite ovunque, perché ci si appropri di un comportamento condiviso per abitudine, come del proprio volto in uno specchio. È la costruzione di un’identità mirata: come combattere a quel punto la certezza di essere per indole se stessi e non per rappresentazione? Chi non accetta il gioco è escluso. È uomo senza giusta qualità, non può appartenere a una generazione. Fa male a volte vedere replicate nell’ambiente letterario le dinamiche dei media. Non vorrei perciò istituzionalizzare troppo la poesia. Ispirare alle persone la profondità del silenzio in un solo verso – bisognerebbe impegnarsi in questo.

 

Quali sono i fattori che più influiscono – positivamente e negativamente – sull’educazione poetica di una nazione? Dove credi che vi sia più bisogno di agire per una maggiore e migliore diffusione della cultura poetica? Chi dovrebbe farlo e come?

Credo che molto si giochi sul significato che vogliamo dare al testimoniare la poesia. Chi si presenta in nome di un ideale, mentre ha solo la pretesa di raccogliere su sé l’attenzione, risulta subito poco credibile e condanna tutta la poesia a un patetico movimento di resistenza privata, altrimenti destinato all’oblio. Mi spaventa che molti inizino a scrivere per cambiare il mondo (senza partire da se stessi) e continuino negli anni solo per non essere più dimenticati: è un difetto di prospettiva che dovrebbe dare il capogiro e invece porta a sterili dibattiti in materia canonica, come si diceva prima.
La poesia non va per forza “insegnata” – uso volutamente questa parola nell’accezione più comune. Del resto, a un essere umano non si insegna l’amore, ma può essere educato ad esso, cioè accompagnato nella sua scoperta, che però è un fatto almeno inizialmente personale. Lo scopre perché c’è, perché lo sente dal proprio corpo, perché qualcosa o qualcuno lo suscita, perché accade intorno a sé e lo riguarda, qualcosa che magari si completa in un’altra persona, in un luogo, in una creatura vivente. Per questo preferisco pensare al valore di una testimonianza che, tanto più è autentica, tanto più costituisce una tentazione forte ad essere ripresa e fatta propria. Anticamente si imparavano molte cose del mondo proprio dal racconto. Bisogna fare in modo che l’incontro con la poesia non sia faticoso, improbabile, ma quotidiano, naturale.
Dell’America potrei raccontare che me ne hanno parlato in certi termini molti amici di cui mi fido (ecco l’importanza di un “canone”), quindi esiste. Oppure dire che ci sono stato anch’io qualche volta ed era come me l’avevano raccontata o un po’ diversa, comunque esiste. Allo stesso modo per la poesia: tante volte ne ho seguito le tracce attraverso i libri, le pagine delle riviste, i passaggi segreti dell’ipertesto, qualche volta ho annotato anch’io qualche indizio: dunque esiste. Ma, a differenza dell’America, sfugge. Vuole che ci innamoriamo di lei, e misura questo amore con la distanza che siamo disposti a percorrere per scoprire dove è stata, dove più non è. È il suo modo di corrispondere l’amore: lasciarci un po’ di quella nostalgia.
Testimoniare la propria esperienza di lettori è fondamentale, perché il primo incontro con la poesia si è forse consumato proprio lì: nella lettura. Qualcuno ci avrà messo in mano un libro, o la fortuna ci ha guidati e noi lo abbiamo aperto e letto. Suscitare la curiosità: ecco un altro punto.
Ora, chi per esempio andasse in una scuola a parlare di poesia dovrebbe tenere ben presente tutto questo e cercare di comunicare anzitutto quel “carisma”, quel “fuoco” misterioso che le parole covano silenziosamente e che ci attrae continuamente a sceglierle, pronunciarle o scriverle. C’è qualcosa di iniziatico in tutto questo, ma non va comunicato dai gradini di una gerarchia: dall’alto in basso. Se un ragazzo, dopo quell’incontro, si procurasse anche un solo libro di poesia, uno qualsiasi e provasse a continuare da sé quella scoperta, allora qualcosa sarebbe davvero accaduto in quell’incontro: ci si sarebbe scambiati l’invisibile, il dono più bello.
I veri lettori di poesia sono quelli che, fuori dalle scuole, dalle università, terminata la giornata di studio o di lavoro, continuano a leggere poesia, se la portano dentro. Insisto spesso su questo punto: nessuno dovrebbe presentarsi ornato di stimmate posticce o gradi da ufficiale. Non ci sono soldati da arruolare o infedeli da convertire, ma esseri umani che magari non hanno visto mai l’America, fuorché disegnata sulle cartine e non sanno l’odore che ha il vento sulle sue strade, l’accento delle persone. Vogliono sentirselo raccontare e, chissà, provare a mettersi in viaggio per vedere se è così lontana o diversa come si dice.
Per capire quali sono le cose da fare bisogna prima intendersi su quale sia lo scopo ultimo: se rilanciare le vendite dei libri o la lettura della poesia. Nel primo caso si tratta di un’operazione di marketing: ci si rivolga allora agli esperti del settore e i poeti non mi pare siano fulmini di guerra in tal senso. Nell’altro di un’operazione culturale e ciascuno faccia allora il proprio, secondo le possibilità, costruendo ex-novo altre strutture (riviste, redazioni, reading ecc.), oppure disponendosi a contrattare con quelle già esistenti, preparandosi però allo scontro con una realtà che, per come è concepita, non cede spazi senza tornaconto.

 

Il poeta è un cittadino o un apolide? Quali responsabilità ha verso il suo pubblico? Quali comportamenti potrebbero essere importanti?

I poeti si aspettano molto dalla società (e ne restano delusi), mentre poco o nulla si aspetta la società dai poeti. Forse bisognerebbe diminuire le aspettative, non sprecando tempo in contrattazioni e compromessi.
Si può certo essere apolidi per vocazione, ma alla fine o si fa una scelta netta come Thoreau, oppure si entra giocoforza in contatto con i meccanismi del sistema e con quelli si devono fare i conti, o si può persino giocare, provando a metterli in crisi dall’interno, come infiltrati. Basta fare attenzione e non essere distratti da lusinghe e ricompense, a prezzo della libertà.
La parola “pubblico” invece non mi piace, è come “popolo” in certe democrazie: un’idea troppo astratta perché possa ispirare sentimenti reciproci. Preferisco pensare a un interlocutore (o tanti interlocutori) e all’idea di tentarli alla parola, al suo potere. Io stesso devo anzitutto essere tentato dai testi che scrivo, capire cosa vuole da me la parola per diventare significante.
Estrarre con la forza della parola ciò che resterebbe altrimenti sepolto, perché non ha voce, riconsegnare l’ascolto del profondo, la sua vastità al di là delle pieghe ideologiche del tempo, delle circostanze immediate, della loro precarietà mortificata: tutte queste sono azioni nelle quali misurare la poesia, ognuno secondo la propria intonazione.
Mostrarsi consapevoli di ciò, adoperarsi perché tutta la poesia converga nel comune sforzo, sia presente attraverso la lettura, le traduzioni, la cura e l’esposizione dei lavori altrui, sono segnali altrettanto importanti e possono concorrere a formare quell’idea di comunità cui si faceva riferimento prima.

 

Credi più nel valore dell’ispirazione o nella disciplina? Come aspetti che si accenda una scintilla e come la tieni accesa?

La poesia è pur una grazia, cui non è sottratta però una certa faticosa, costante sollecitazione, una disperazione di mancarla. A volte l’impressione è quella di attraversare un magnifico campo, un “aldilà”, senza nulla poter cogliere di quei fiori, delle erbe, ritornando da questa parte con gli occhi di sempre sulle cose, a mani vuote, senza il piccolo trofeo di un petalo, senza un indizio, colmi però di impazienza e nostalgia. La poesia è l’arte del congedo, del lasciarsi attraversare dalle parole, pronunciandole senza trattenerle.
L’ispirazione, come unico momento folgorante, in cui tutto appare chiaro sin dal primo verso e sembra di procedere saldamente su un binario, di scrivere come sotto imperativa dettatura, è cosa troppo rara per affidarvi l’unico contatto con la parola. Chi ci parla allora? Come riconoscerlo?
L’opera ci insegna che l’alleanza tra cose e parole, la misteriosa ferita che si è scavata tra le une e le altre, richiede molto silenzio per essere ascoltata e significata. Per scrivere poesia bisogna imparare ad abitarne la solitudine e il silenzio, abitare gli interstizi del testo, i suoi millimetri bianchi, non farsi distrarre dai rumori di fondo. Ciò appare tanto più contraddittorio quanto più si assegna alla parola un suo unico valore sonoro, racchiuso nel suo dettato, nella sua pronuncia. Ma c’è una voce segretamente intesa da tutti i poeti, che è solo mentale e che scandisce quel rapporto, raduna le parole e fila il verso. Il poeta ha orecchio per sentirla sempre, anche in mezzo a mille altre voci e la segue, perdutamente.

 

Scrivi per comunicare un’emozione o un’idea? La poesia ha un messaggio, qualcosa da chiedere o qualcosa da dire?

Parafrasando un vecchio motto, nella mia scrittura continuo a ricercare il cerchio dentro la mela e la mela dentro il cerchio, sino a che mi pare di aver raggiunto un equilibrio in cui non ci sia troppo dell’una, né dell’altro. Questo per la forma.
Molta poesia esprime una domanda, anche nei suoi momenti più assertivi. Questo perché non è un luogo di definizione completa, nel quale il discorso muore, recintato da certezze acquisite. Non è una verità senza sbocchi a ispirare la parola. Ogni testo è un piccolo lago: si può camminare a lungo sul suo perimetro, sino a incontrare un fiume, un ruscello, che apre verso un altro lago o un mare. È in questo continuo movimento, talvolta persino carsico, il suo sussistere. Mai ferma, mai veramente muta, anche quando non è scritta o letta, la poesia.

 

Cosa pensano della poesia le persone che ami?

Amore e poesia non si sono mai veramente accompagnati nella mia vita. Dico questo con molta tenerezza nei confronti di tutti, della mia famiglia e delle persone venute dopo.
Sin da piccolo ho manifestato una naturale inclinazione alla solitudine, come condizione non esclusiva, certo, ma essenziale, predominante. Forse la parola è qualcosa di troppo antico per essere spezzata in un legame personale e, nel mio modo di essere, l’impeto a cercarla, scavarla, custodirla è apparso persino imperativo e ha impedito ad altri di innamorarsene standomi vicino. Per questo la poesia andrebbe consegnata senza accompagnarla troppo. A questo punto non posso certo dire che sia stata un saldo vincolo sul piano dei rapporti personali.
Credo che la mia condizione sia sembrata piuttosto una singolarità, un’estrosità faticosa da accostare alla vita, perché la parola rende spesso inavvicinabili. Non sempre si può raccontare l’esperienza di quel momento seduti a cena, quando gli altri hanno studiato, lavorato, o sono stati in giro nel mondo. Voglio dire che è più facile leggere un testo che comunicare le ragioni della sua ricerca. Quell’attenzione per il silenzio e la sua cura sembravano una divagazione, un ozio che non avrebbe portato nulla di buono: né fama, né denaro. E che lotta ad armi impari spiegare che ci sono cose che si fanno non per vanità o denaro! La poesia è una di queste: si fa, come si dovrebbe fare il bene, per istinto, senza invocare un riconoscimento nell’aldiquà o nell’aldilà.

 

Sei costretto a dividere il tempo che più volentieri dedicheresti alla poesia con un lavoro che con la poesia ha davvero poco a che fare? Trovi una contraddizione in chi ha la fortuna di scrivere per mestiere? Come vivi la tua condizione?

Spesso mi fa sorridere chi, per fortuna di nascita o altre circostanze, non ha la preoccupazione maggiore di raccogliere un po’ di denaro per vivere e in virtù di ciò ha il coraggio di dichiararsi anarchico, apolide, ecc. quando è solo attraverso il denaro (ossia il quantificatore per antonomasia) che si affranca da tutto in tranquillità.
Uno studio dove lavorare, le vernici, le resine, le tele, le cornici, costano; e costano anche uno strumento musicale, una cinepresa, un computer, una connessione ad internet attraverso la quale alimentare una rete di contatti, spedire manoscritti alle riviste, correggere le bozze, proporre traduzioni e recensioni; ed è spesso caro il prezzo di una stanza dove dormire quando si va lontano a leggere, costano i libri di poesia, le riviste, i cd musicali, i cataloghi d’arte, i biglietti delle gallerie, dei concerti, dei teatri. L’arte, tutta, come entra in contatto col sistema costa denaro, non più solo fatica. Molti non vi possono accedere per questo.
Chi ha denaro e tempo spesso non coglie questa contraddizione che al momento di instaurare rapporti di “scambio”, ovvero entrare nel mercato. Invece è qualcosa di diverso: non si tratta di fare l’artista “di professione” (l’arte, a mio modo di vedere, sfugge a questa definizione), ma di un modo più o meno dignitoso di stare in società, coltivando in essa le ragioni del profondo. Gli uni e gli altri ci guardiamo bene da una scelta drastica (fosse un sogno o l’utopia), chi per coraggio, chi per convenienza.
Mi capita spesso di condividere esperienze analoghe alla mia: ingegneri, chimici, moltissimi sono insegnanti. E già, in questo momento, avere un lavoro qualsiasi è una fortuna e lo dicono gli occhi di chi non ce l’ha. La poesia si porta dentro, come un organo del proprio corpo, cercando di non frantumarla, di non avvelenarla. Anzi, talvolta ci si salva riconducendo in essa ragioni di giustizia, parlandone con altri.
Nel mio caso, le materie che insegno sembrano avere poco a che fare con la questione poetica, ma è così solo in apparenza, specialmente per quanto riguarda la fisica. Quando posso, mostro volentieri un filmato in cui Feynman parla a un poeta, per convincerlo che la bellezza non svanisce di fronte alla complessità delle cose, così come le cose più semplici sono anche le più misteriose, come la ruota di un treno che corre sui binari. C’è molto lavoro in un verso, in un ramo, in un muro a secco.
Cerco di non vivere la mia condizione come una delle tante “virtù” borghesi che mi sarebbero potute cadere addosso. Tutto qui.

 

Cosa speri per il tuo futuro? E per quello della poesia? Cosa manca e cosa serve alla poesia ed ai poeti oggi?

Augurandomi un miglioramento minimo, mi basterebbe riuscire a gestire con maggior libertà la vita, avere più tempo per studiare, per esempio. Al meglio non vorrei invece porre limite.
A un livello più profondo, spero di non smettere mai di scrivere. Sopravvivere alla parola sarebbe il dolore più grande: vederla e non riconoscerla più, non saperla più ascoltare né pronunciare. A tutti i poeti auguro di non rompere mai questa alleanza, che è ciò di cui la poesia, per quanto forte e misteriosa, non può fare a meno.
Il resto succeda, se è destino. Mi lascio questa speranza.

 

 


 

Federico Federici (Savona, 1974), laureato in Fisica.
Dal 2000 al 2004 svolge attività di ricerca presso la sezione INFM del Dipartimento di Fisica dell’Università di Genova, nell’ambito della Fisica dei biosistemi, occupandosi principalmente di microscopia confocale e microscopia con eccitazione a due fotoni.
Ha pubblicato (a proprio nome, o a nome Antonio Diavoli) raccolte di poesia, prosa e traduzioni, articoli di critica e traduzioni su rivista («Atelier», «Cantarena», «Conversation poetry», «Private», «Kritya», «Maintenant, journal of contemporary dada writing and art», «Lo Specchio» de La Stampa, «Ulisse», «Il Foglio Clandestino» et al.), pubblicazioni di carattere scientifico.
Ha tradotto dal russo Elena Fanajlova e Nika Turbina, dal tedesco Paul Celan, Hans Arp, Katarina Frostenson, Merja Virolainen, Daiva ?epauskait?, dall’italiano in inglese Cesare Pavese, Giampiero Neri, Gian Paolo Guerini, Paolo Fichera, dall’inglese Sophie Hannah, Alice Oswald, Renáta Vargová, Rati Saxena.
Ha preso parte a incontri e letture in Italia, India, Germania e Polonia, a mostre di pittura in Italia e Germania, a manifestazioni legate alla videopoesia e al cortometraggio in Italia, Germania e Venezuela.
Nel 2009 vince il “Premio Lorenzo Montano” nella sezione “Opera edita” con la prima raccolta di versi a proprio nome, L’opera racchiusa (Lampi di stampa, 2009).
Nel 2010 esce in Inghilterra Requiem auf einer Stele (The Conversation Paperpress), poemetto in tre lingue (inglese, tedesco, russo).

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21 Comments

  • “un gesto rivoluzionario, da qualsiasi parte venisse, sarebbe rendere la poesia disponibile in ambienti dove non ci si aspetta di trovarla. Come nelle scuole, nei telegiornali, nelle metropolitane, magari trasmessa su quegli orridi display appesi dappertutto, ecc. Invece la parola arriva sovraccarica di informazioni inutili”
    “fa male a volte vedere replicate nell’ambiente letterario le dinamiche dei media. Non vorrei perciò istituzionalizzare troppo la poesia. Ispirare alle persone la profondità del silenzio in un solo verso – bisognerebbe impegnarsi in questo”

    .ho molto apprezzato i passaggi su indicati…ed ho sempre sostenuto nel mio piccolo, tali slanci
    .grazie delle riflessioni .tonino vaan

  • Certamente i limiti che ponete in evidenza sono effettivi. E’ difficile trovare un simile equilibrio, direi anzi che si può soltanto passare da un equilibrio precario ad un altro, intervallandoli con saturazioni, ripudi, silenzi e rinascite che certamente farebbero impazzire un eventuale ricostruttore dei percorsi attraverso le traccie parziali disseminate sul web. Insisterei però sull’alterità, piuttosto che sulla supplenza, offerta dalla rete. Attraverso questi percorsi, che alternano frammenti di enorme disparità qualitativa e dislocazione temporale, credo che le “categorie” mentali gradualmente si allentino e riconfigurino. Io stesso, per esempio, mi sono ritrovato, senza una precisa intenzione, a ricercare nei dibattiti della poesia quelle questioni che nell’arte ho visto (con enorme stupore) non venire mai “davvero” affrontate. E il mio atteggiamento non poteva non venire condizionato anche a quanto andavo scoprendo (e questo era possibile SOLO attraverso la rete) sopra ambiti, ancora più fondamentali se vogliamo, che nell’informazione “amministrata” vengono convenientemente compartimentati e separati dalla loro ovvia base antropologica. Non voglio certo affermare che questo debba dar luogo, per ogni percorso individuale, a dei “prodotti spendibili”, sul mercato del capitale finanziario o di quello simbolico, ma credo che negare a priori che una modalità di apprendimento e scambio così rivoluzionaria possa approdare a degli esiti del tutto nuovi (una volta, s’intende, che si abbia imparato un po’anche a gestire e smaltire la propria spazzatura) mi sembra una sottovalutazione delle possibilità emancipatorie insite nell’uomo. Intanto le modalità di comunicazione asincrona (io scrivo oggi, uno mi legge fra una settimana e mi risponde fra un mese) permettono di riaversi un po’ dalla terribile frammentazione che incombe sulle vite di quasi tutti noi, e poi.. beh poi basta che non bisogna cercare di dire troppe cose in un colpo solo, e inoltre quando un articolo abbandona la prima pagina di un blog, suona un po’la campanella 🙂 Un caro saluto.

  • Anni fa pensavo che un blog potesse diventare un laboratorio di scrittura vero e proprio, potesse “affiancare” il libro (in alcuni casi sostituirlo, in altri anticiparlo). Una sorta di surrogato virtuale di quello che sono sempre stati gli studi di certi pittori: un po’ fucine d’arte, un po’ luoghi d’incontro e d’esposizione. L’esperienza mi ha fatto desistere da questo progetto all’inizio di quest’anno: ho così rimosso i “lavori in corso”, fatto salvo per alcune corrispondenze sulla poesia, sull’arte, che continuano ad accumularsi nella forma varia e occasionale del diario.
    Purtroppo è difficile trovare l’equilibrio per conciliare i tempi della lettura con quelli dell’esposizione mediatica. Non è solo questione di permanenza di un post in bacheca, ma dell’attenzione che è possibile dedicare alla sua lettura, in mezzo alla pressione di tutte le novità in rete, annidate intorno, degli stimoli continui da un link all’altro. C’è il rischio che messaggi più articolati, come le raccolte di poesie, i saggi, i romanzi, perdano consistenza in una lettura frammentaria e disattenta. Per questa ragione guardo con speranza all’ebook, perché può, in qualche misura, imporre una maggior disciplina nella lettura, configurandosi come un corpo unico, un soggetto/oggetto che ha vita anche offline.

  • Elio, quello che dici è indubbiamente corretto. Il mio discorso si riferiva principlamente alla grande preoccupazione della quantità: sono tutti scrittori, sono tutti poeti (e fotografi, e pittori etc.).
    Ora, oltre all’alfabetizzazione che ci ha messo sicuramente del suo sdoganando certa sacralità dell’atto artistico, io credo che la questione della quantità è vera nella misura in cui la si vede non dal lato della produzione ma da quello della fruizione e, soprattutto, della critica. Perché, infatti, è abbastanza chiaro a tutti che molto di ciò che si produce fa schifo? perché ci sono innumerevoli emergenti che restano tali e si fermano al primo libro di esordio? perché nell’editoria ha vinto la logica del mercato? Semplicemente credo che la funzione della critica con la gran quantità di prodotti letterari l’ha assunta la legge del mercato, più adatta ai tempi dello stesso rispetto alla critica.
    Ora, sicuramente i nuovi media faranno emergere nuove tipologie autoriali (forse) e nuove capacità critiche capaci di individuarle e analizzarle. Per questo, però, bisognerà aspettare molto tempo e quando comincerà ad accadere magari non saremo nemmeno in grado di rendercene conto, immersi come siamo nella realtà che cerchiamo anche di decodificare.
    Resta comunque il fatto che l’iper-produzione e l’iper-diffusione stanno rendendo le cose piuttosto complicate; a ciò si aggiunge anche un cambio epocale nella scrittura, a livello dei contenuti come e soprattutto della forma.
    È importante vedere internet come una grossa possibilità di diffondere cultura, ma bisogna stare attenti nel momento in cui si vuole utilizzare questo stesso strumento nella produzione della cultura: certe cose (penso ai saggi, agli approfondimenti critici, ai romanzi, alle raccolte di poesia) hanno poco a che vedere con la struttura del mezzo internet, che non ne rispetta né le forme né i tempi. Bisogna trovare un equilibrio.

    Luig B.

  • Io non credo che tutto sarebbe stato scritto ugualmente. Dimentichiamo che l’uomo è un animale mimetico ed incomincia a fare certe cose soltanto quando apprende, da altri, che certe cose si possono fare. Ora la possibilità, offerta da Internet, di affiancarsi -per così dire- silenziosamente ad un autore ed assistere quasi al momento stesso in cui esso opera (cosa che accade facilmente frequentando dei blog personali) mi sembra assolutamente senza precedenti dal punto di vista dell’influenza che può essere esercitata. Rispetto alla vecchia trasmissione via libro, credo cambi pressoché tutto: ci sarà molta meno “sacralità” a buon mercato, perché ci si rende immediatamente conto dell’“umanità” di ogni autore, dei suoi dubbi, delle sue frustrazioni, delle sue ingenuità, che poi è quasi sempre lui stesso -spinto dalle sottili dinamiche del mezzo- a spiattellare quasi impudicamente. Credo sia impossibile “calcolare” cosa tutto questo possa infine determinare nell’ecologia della semiosfera, però mi sembra plausibile ipotizzare che moltissimi ne vengano incoraggiati a tentare qualcosa “in proprio” e che questo complessivamente finisca per alzare di molto l’asticella della “sacralizzazione”, perché fin che a scrivere sono solo delle ristrette élite allora può anche bastare una solida tradizione familiare a “costituire” un autore, ma se irrompono veramente delle masse allora dei nuovi tipi di talento dovranno per forza emergere, per ristabilire le differenze colmate. Tutto questo mi sembrerebbe, almeno in linea di principio, assai positivo, anche se non finirà mai la litania di maledizioni e disprezzi causati dalla perdita di una comoda rendita di posizione. Se invece questi talenti non emergono, e l’estenuante sforzo di “smarcarsi” sfociasse in mera bizzarria, allora vorrà dire che il campo aveva sostanzialmente esaurito le proprie possibilità -ricordiamoci che un tempo calcoli che oggi si imparano alle scuole elementari erano appannaggio di riverite élite. In considerazione di quest’inflazione, penso anche che la maggior parte dei morti e dimenticati lo rimarrà per sempre, e soltanto pochissimi verranno riesumati per essere agitati per qualche tempo, quale emblemi di schieramento, negli scontri fra viventi.

  • Luigi propone una prospettiva nuova e interessante alla discussione: l’influenza del web sulla produzione poetica. Condivido la sua analisi e la considerazione di fondo: quasi tutto, in realtà, sarebbe stato scritto ugualmente, ma sarebbe rimasto, di massima, nel cassetto. Ben posta, dopo questa premessa, anche la questione della sovraproduzione e della critica (aggiungo che proprio oggi, che risulta preziosa per orientarsi nel ‘marasma’, essa è più disorientata del lettore, quando non compromessa da vincoli accademici o amicali). Non condivido a pieno invece il fatto che si scriva poesia per raccontarsi. E’ ben vero che l’alfabetizzazione e il disvalore dell’apparire hanno indotto molti a scrivere versi per raccontarsi-proporsi-apparire, ma credo che la vera poesia, quella che ti accompagnerà per tutta la vita come autore o come lettore, nasca come terapia, come tentativo di elaborazione di un dolore profondo (e non sempre individuato, non subito almeno) per poi, pian piano, diventare lingua per tentare la traduzione del mondo, ed infine (ma questa è affermazione meno dimostrabile delle due precedenti) sfociare nelle varie forme della preghiera: invettiva, lamentazione, invocazione, canto….
    Mi fermo perché mi accorgo di debordare 🙂
    Antonio

  • Oltre a ringraziare Antonio per il link suggerito (interessantissimo dibattito: consiglio a tutti di passare da lì a dare un’occhiata, almeno), mi pare che la domanda di Federico sia opportuna: Si può, a questo punto, porre forse anche un’altra domanda: la presenza su web stimola la poesia, oppure la poesia che si trova oggi in rete sarebbe stata scritta comunque ma rimarrebbe, per lo più, un episodio privato?

    Io credo che tutto sarebbe stato scritto comunque, conservando una dimensione privata, sia per i tempi/mezzi che per costumi.

    Ho sempre pensato questo, ma mi sono reso conto che potrebbe essere quasi una certezza leggendo per esempio lo Zibaldone: Leopardi nomina, recensisce e in un certo senso “canonizza” nomi che si sono persi lungo il corso del tempo ed altri che credo non abbiamo mai raggiunto visibilità. Ma anche soffermandosi a pensare un attimo: ma davvero possiamo pensare che ai tempi di leopardi, o Dante, o petrarca ci fossero solo loro a scrivere poesie? (Senza considerare una forte dimensione orale della letteratura oggi quasi completamente andata persa).
    Quindi il problema oggi non è la troppa produzione (fatto in un certo senso oggettivo vista l’alfabetizzazione della popolazione), quanto piuttosto la mole di informazione visibile a tutti che confonde e non aiuta nel marasma generale (e qui il dibattito sulla critica cade a pennello).
    Viviamo in un mondo dove il vouyeurismo è all’ordine del giorno e pratica socialmente incoraggiata: il pallino della mediaticità che ha aperto una nuova dimensione identitaria senza la quale ci si sente un po’ “monchi”. A questo si aggiunge la frammentazione della identità, della propria storia, della memoria che ha trovato, grazie all’alfabetizzazione, un metodo per cercare di mettere ordine: la scrittura. Si scrive per non perdersi, per non perdere il filo di se stessi, per raccontarsi. Oggi, se non si è raccontato non si è vissuto. E i modi di raccontare oggi li conosciamo.
    Tutto questo, se fosse vero, non sarebbe né giusto né sbagliato. Semplicemente: sarebbe. Così la questione non è quanto si scrive ma come si scrive e dove sono i pochi capaci e fortunati che dovrebbero aiutare “i più” ad organizzarsi le idee.
    Luigi B.

  • Riposto qui il link “corretto” di Antonio (c’è un piccolo errore che non permette di aprirlo)

    http://www.lietocolle.info/it/la_nuova_poesia_modernista_italiana_1980_2010.html

    Appena riesco a formalizzare un pensiero con senso più o meno compiuto rispondo.

    Luigi B.

  • Molto interessante questa prospettiva dei “frozen accidents”: probabilmente molti casi di riscoperta di autori, ignorati o non tenuti nella giusta considerazione al loro tempo, può essere inquadrata da questo punto di vista suggestivo, “quasi” evoluzionistico. E’ una metafora carica di implicazioni e ulteriori approfondimenti, così come questa continua oscillazione del tema poetico tra un valore/meccanismo in sé universale e la sua risonanza storica, locale. Mi viene ora in mente Bloom che colloca al centro del canone Shakespeare, proprio per il carattere “universale” dei suoi personaggi, che rappresentano l’uomo, non solo minutamente quello di un’epoca.
    L’idea epifanica che Borges associa alla lettura ripetuta mostra come il livello di complessità (profondo, non apparente) nasconda sempre ulteriori illuminazioni. Anche il corso della scienza ha offerto questo tipo di “ispirazioni”, nello schema ripetuto di un esperimento che, improvvisamente, ha mostrato una singolarità non casuale. Seguendola si è giunti a una nuova scoperta. Talvolta, in poesia, è addirittura la singolarità casuale (un difetto di pronuncia, una distrazione, una “parola per l’altra”) a irrompere con la sua meravigliosa capacità di significare e a imporre al testo una piega.
    Sarà sempre più difficile, come avete scritto, gestire i tanti materiali che affiorano dal web, “verticalizzare”. Per chiunque c’è –imprescindibile- una componente di innamoramento: ci si occupa di una cosa e non di un’altra per un misterioso richiamo che quella cosa esercita “scegliendoci”. Riuscire a segnare il percorso, mettere dei punti sulla mappa, creare dei percorsi sarà comunque necessario, così come è necessario (auto)moderare qualsiasi discorso perché diventi dialogo e non monologo astratto, strillato.
    La vita di tutti quei sottoalberi potati è parsa, in un certo momento, necessaria al bosco, altrimenti ridotto a un lungo viale di isolate singolarità. Inevitabilmente poi, dovendo salvare solo qualcosa, si sono perse (o riposte a parte, altrove) altre qualità (molteplicità) che lo hanno circondato.
    Si può, a questo punto, porre forse anche un’altra domanda: la presenza su web stimola la poesia, oppure la poesia che si trova oggi in rete sarebbe stata scritta comunque ma rimarrebbe, per lo più, un episodio privato?
    Personalmente penso che, se da un lato ci sia per molti uno stimolo legato alla visibilità immediata, lo stesso meccanismo agisca alla lunga come deterrente, scoprendo che per i più non c’è progresso. Allora, chi cerca veramente la parola continuerà a farlo, lo avrebbe fatto comunque, di fronte ad altre difficoltà; chi, viceversa, sfoga un proprio narcisismo, probabilmente si sposterà su altre forme più accattivanti e immediate.
    Leggerò più tardi il contributo di Antonio Fiori al link che indica. Mi piace la provocazione che suggerisce.
    F.

  • “una provocazione: se ognuno, critico e poeta, si impegnasse a salvare, a futura memoria, solo una poesia per ogni contemporaneo – dimenticando, distruggendo coraggiosamente il resto – avremmo di che sperare, ne verrebbe fuori una nuova, meno compromessa, comunità letteraria – e la riscoperta della poesia.”

    Questo scrivevo qualche giorno fa, come terzo punto,in un dibattito innescato da Giorgio Linguaglossa sul tema ‘Critica e poesia’,interventi reperibili integralmente nel sito dell’editore Lietocolle a questo link
    http://www.lietocolle.inf/it/la_nuova_poesia_modernista_italiana_1980_2010.html

    Mi pare che tale provocazione sia in linea con quanto dice sopra Federico Federici, ritornando sulla sua interessantissima intervista:

    “Se, viceversa, ci concentrassimo sull’avere tra le mani anche un solo verso, da passare avanti come testimone? Prospettiva whitmaniana, certo, ma dà almeno alla poesia un po’ di respiro, fuori dall’apnea storica, dalla claustrofobia editoriale…”

    Un saluto cordiale a tutti
    Antonio

  • Volevo aggiungere un’osservazione riguardo a quella che ritengo essere una differenza fondamentale fra le scienze “vere e proprie” e le discipline, come la poesia, a forte componente estetica (o viscerale). E’ stata più volte sottolineata, ai fini della comprensione della poesia, la necessità del silenzio, ovvero di condizioni che permettano un’adeguata concentrazione, ma è ovviamente data per scontata anche una certa “apertura del cuore” (o un adeguato “investimento affettivo”). In mancanza di queste rare condizioni, non potranno per esempio mai essere raggiunti quei miracoli epifanici che Borges associava alla lettura ripetuta. Mi sembra evidente come, a parità di “differenziazione” tecnica dell’opera, la qualità della ricezione possa risultare enormemente variabile e come questo alimenti un enorme accumulo di risentimento. Mi chiedo se sia possibile, per un critico, muoversi tra l’offerta con autentico equilibrio e senso di giustizia oppure se tutto, in fine, non possa risolversi in altro che un moto browniano di innamoramenti, alcuni dei quali poi diventano canonici, come i “frozen accidents” dell’evoluzione biologica. In fondo conosciamo (più o meno) le vicende e i “sensi” dei vincenti, ma ci rimane del tutto ignoto il valore dei sottoalberi potati (sempre che si possa attribuire ad un’opera un “quid” antropologico indipendente dal suo contesto culturale).

  • Complimenti per l’illuminante intervista di Federico, per la sua capacità ‘iper-fisica’ d’introdurre misure e metri di chiarezza, di profondità, di semplicità al complesso dibattito in corso. Condivido molte sue riflessioni che rimandano a un pensiero ricco, trasversale e soprattutto ‘giovane’, pronto a cogliere tutti i mezzi e sollecitazioni che la nostra società iper-mediatica ci offre. Attenzione però: il web, è vero, è una grande forza di aggregazione e di capacità di fare rete, ma non tutti coloro che ci entrano e ne fannp parte, sono presenze qualificate(intendo artisticamente, vale a dire non tutti sono poeti scrittori critici etc.)E’ necessario allora, in questa logica comunitaria orizzontale e globale, introdurre alcune regole(canoni),affichè la qualità del percorso di ricerca non venga meno. Regole non elittarie e esclusiviste, ma fondamenti-principi per poter ‘distillare’ e qualificare soggetti, oggetti etc. nella marea in-distinta e caotica del web. Il canone quindi come elemento che ‘verticalizzi’ ciò che per natura procede solo per linea orizzontale e addizionante. Riguardo al futuro della poesia, credo che da sempre e per sua natura sia ana-cronistica e non ha bisogno di parametri e di misure per essere. E’ fuoco nella parola, ciò che arde attraverso il tempo, senza però farne parte, ecco perchè non si può parlare di storia quando si parla di poesia.
    Grazie a tutti per l’interessante dibattito e grazie alla redazione della nuova testata nascente.

  • Probabilmente hai ragione, Luigi, rileggendo il mio pezzo traccio una demarcazione troppo netta relativamente alla critica. In effetti il poeta non è solo “il luogo” dove accade la poesia, ma l’inventore della stessa, colui che la cerca, la scopre e, come tale, non è estraneo a un approccio critico (implicito nella scelta di certi luoghi, materiali, per esempio). Dopo tutto dagli anni Ottanta in poi, non solo in seno all’arte concettuale, “l’arte come definizione” ha preso campo e rimescolato le carte. Forse è più corretto dire che l’oggettività del discorso critico non dovrebbe vincolarsi a una cornice di riferimento troppo restrittiva. Un po’ come dire che un modello fisico aspira al massimo della generalizzazione possibile per quel momento. Mi pare detto in modo più equilibrato così.
    Estendendo poi il tuo discorso in materia di linguaggio, bisogna in tutti i campi cercare di fornire delle strade di accesso al linguaggio, suscitare nelle persone l’idea che la lingua non sia solo un serbatoio di segni appiccicati agli oggetti per scambiarsi dei convenevoli, per accordarsi su transazioni di cose da una mano all’altra, ma, in una qualche maniera più misteriosa e profonda, nel linguaggio ci sono degli “oggetti” (forse meglio: delle oggettività), che sono ora poetici, ora matematici, e tutti tendono al mondo o da questo provengono e si “perfezionano” nel pensiero. Bisognerebbe istigare alla lingua – qualsiasi lingua -, alla manipolazione dei segni. In questo senso avere degli esempi è utile. Anche un bambino che si mette a disegnare un albero ha di fronte a sé un albero (o pensa a quando lo ha avuto di fronte, in un certo momento della propria vita). Così chi si mette a scrivere può a un testo di Caproni, di Petrarca ecc. In qualche modo, deve aver conosciuto qualche oggetto di parole prima. (Rifletto ad alta voce, come in una chiacchierata).
    F.

  • Ero davvero curioso di leggere cosa avrebbe risposto Federico a queste domande. È anche vero che chiunque lo conosca o segua in maniera più o meno costante il suo lavoro-percorso non si è affatto sorpreso di quanto da lui affermato; magari ha avuto modo di approfondire alcuni punti.
    Mi sembra che anche se le domande sono tutte diverse tra loro, le risposte siano un unico grande corpus di un discorso al cui fondamento c’è una specie di assoluta fiducia nella parola e un esortazione al poeta ad avere pazienza. Tutto ciò è condivisibile al 100% fintanto che si osservi il problema come fosse(o riguardasse) i poeti. Ma il problema non riguarda (o non è) dei poeti in quanto autori-emarginati-dal-pubblico-dei-lettori, e non è nemmeno della poesia. Il problema, al massimo e dal mio punto di vista, è del mondo sempre più incapace di scorgere, vedere, trovare poesia nelle cose-parole. Questò è, almeno secondo me, cio che merita attenzione da parte di tutti. Ecco perché c’è bisogno di ripensare a un modo o a tanti modi non per diffondere mediaticamente la `poesia (dunque uno o più poeti: qui basta un buon team di Marketing, come suggerisce Federico),ma per diffondere un più approfondita cultura poetica (che del poeta in auge francamente se ne frega). Tutto il resto vien da sé. Il problema è: come fare?
    Sono contento che Federico (ma non avevo dubbi) veda nel web una possibilità da cogliere, ma anche qui c’è bisogno di “educarsi al mezzo” per non perdere una buona occasione. Mi collego, così, al commento di Giuseppe che riporta anche qui (come nell’intervista di Cerrai) l’esigenza di fare di internet un network vero, ossia un lavoro-di-rete dove il contributo di molti si trasforma in un unico grande sforzo per un obiettivo comune. Ma come dice Federico: sarebbe bello riuscire a mettersi d’accordo sul concetto di comunità e obiettivo/i comune/i. Che sia difficile non vi sono dubbi, ma non è impossibile. Quindi bisogna provare, “scientificamente”, e perfezionare il metodo fino ad ottenere dei risultati da valutare.
    Qui si sta provando a fare qualcosa in questa direzione. è importante, però, che chiunque entri a leggere senta la stessa esigenza e diriga la propria attenzione verso lo stesso obiettivo: capirci qualcosa in più. Chi scrive fin’ora ha dimostrato totale apertura (vedi anche l’esortazione di Giacomo nel commento della sua intervista), e questo è già un gran bel passo.

    Luigi B.

    P.S.: non sono esattamente d’accordo sul critico-come-scienziato

  • Ringrazio tutti quelli che hanno avuto la pazienza di leggere questa lunga conversazione.
    Scrivo alcune considerazioni sull’ultimo intervento, che incide ulteriormente su punti cruciali del tema “poetico”, e non solo.
    Il problema delle arti risiede, forse, nel fatto che la loro confutazione (o meno) è essenzialmente storica, mentre la fisica non ha “storia” in questo senso: l’universo funzionava all’incirca come oggi anche al tempo dei Babilonesi, probabilmente con qualche aggiustamento astronomico o d’altri parametri. Ci fosse stata la possibilità di verificarla, la teoria della relatività avrebbe funzionato bene anche allora. Non così per le Lettere, ad esempio. Le lingue si evolvono sino ad essere irriconoscibili. Sfogliando un trattato di matematica antica, si possono facilmente ritradurre le stesse questioni di allora in un formalismo moderno, e non suonano affatto strambe: si parla di aree, perimetri, volumi, distanze siderali. Il problema metrico (in tutti i sensi) era già molto sentito. Facendo lo stesso con un testo letterario, si incontrano subito problemi di dettaglio su un mondo perduto (per lo meno nella sua immediatezza): divinità, riti, località. Ciò perché un testo è più spesso radicato nella storia dell’uomo che nell’evoluzione dell’universo, anche in ragione di scale temporali molto lontane.
    Da qui forse i diversi meccanismi di legittimazione dell’arte. A un quadro, un testo poetico, è difficile applicare con semplicità gli schemi della scienza. Si può, certamente, far riferimento alla coerenza interna del discorso dell’autore (così come una teoria scientifica aspira a non essere auto-contraddittoria), ma questo crea subito un conflitto con la durata di vita dell’autore stesso, che, magari, vorrebbe riconosciuto immediatamente un valore che è invece destinato a stabilirsi nel tempo. Non c’è poi da trascurare come l’evoluzione di un artista possa contenere proprio l’auto-contraddittorietà come componente feconda.
    “Cosa cerchiamo?”: proprio l’altra sera volevo porre, all’incirca in questi termini, la stessa domanda a una persona che stimo molto, per chiedergli il senso di questa implacabile furia poetica “contro” qualcosa, un bersaglio che cambia però rapidamente: l’editoria, il mercato, il pubblico, la critica, l’altra poesia, se stessi. A volte mi si para davanti il quadro di un pugile bendato che meni a vuoto fortissimi colpi, tanto più forti quanto più gli pare di cogliere a segno nel nulla, e questo sia tutto, con poche varianti.
    La domanda “Quale futuro?” acquista in certi contesti una velatura troppo aziendale, politica, contingente etc. La poesia, in sé, avrà sempre futuro, sono semmai i poeti (questi, quelli, altri) che, vedendo la strada accorciarsi, credono di avere poco in mano: poche medaglie, poche pergamene, poche altre mani da stringere, e allora si agitano, come creature chiuse all’angolo. Il problema è concentrarsi su ciò che si “è” (nel profondo, in sé), non su ciò che si “sarà” per gli altri, nell’indice di un’antologia, domani o mai più. Se, viceversa, ci concentrassimo sull’avere tra le mani anche un solo verso, da passare avanti come testimone? Prospettiva whitmaniana, certo, ma dà almeno alla poesia un po’ di respiro, fuori dall’apnea storica, dalla claustrofobia editoriale, avvicina la poesia al valore “discutibile” della scienza. Ecco, forse l’invocazione a un maggior rigore della critica può essere colto anche in questo senso: qualcuno che, scientificamente, studi, cataloghi, descriva, la poesia come fenomeno. Ciò non cancellerebbe tutte le implicazioni del testo in quanto “testimonianza” storica (spesso una piccola voce sopravanza le altre, trova potenza e risonanza proprio nell’acustica della storia, e si fa voce di tanti), ma chiarirebbe alcuni valori del testo in sé, a prescindere dalla sua fortuna.
    Ed è giusto anche quello che dici poi: mettere in discussione la propria prospettiva. Quando mi hanno mandato questa fila di domande, mi sono sentito alle strette su alcuni punti. Certe idee, che portiamo latenti, che ci accompagnano, vanno (con tutti i limiti di ciò che continuerà a formarsi, a dilatarsi) scritte, perché si formulino in tutta la loro imprecisione o provvisorietà e sia più facile manipolarle. Anche i versi vanno, per questo, scritti, provati: tentare la parola al mondo, vedere cosa “dice”, suggerisce spesso un modo di fermarla. Il significato del silenzio in molti autori è tutto qui: non è arida la loro vena, ma lasciano scorrere molta acqua prima di fermarne una goccia.
    F

  • Anche io sono un fisico, ma ho cambiato mestiere. Ho trovato molto interessante l’intervista. Credo che la poesia abbia bisogno del silenzio, del tempo, della pazienza e di molte altre cose; e condivido il disagio di fronte alla scrittura che va in cerca di legittimazione. Forse è anche a causa di Internet, che amplifica questo effetto: tutto è facile, veloce, non meditato. E soprattutto bisognerebbe leggersi ed ascoltarsi l’un l’altro molto di più. Trovo deprimenti i monologhi che abbondano in giro. Cosa cerchiamo? Perchè leggiamo e scriviamo poesia? Perchè interveniamo sui blog di poesia? Mi piacerebbe molto se i siti in cui si parla di poesia ci stimolassero a mettere in discussione noi stessi e la nostra prospettiva sulla poesia (nostra e degli altri).

  • mi trovo d’accordo con molte delle riflessioni di Federico Federici, grazie per questa intervista così ricca di spunti.

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