Umiltà d’animo è semplicità d’espressione: sull’opera prima di Elena Buia Rutt

 

di Matteo Bianchi

L’opera prima di Elena Buia Rutt, Ti stringo la mano mentre dormi (Fuorilinea, 2012), si compone di due sezioni: I fiori col gambo corto e La casa arancione, entrambe vivide nella dicitura, entrambe giunte, come fossero mani, da un sentimento che ugualmente le attraversa, la forza d’animo. La prima, che prende il titolo dall’omonima lirica, riporta agli occhi e al naso i fiori di campo, genuini nell’essere umili, poiché a loro «piace stare vicino alla terra / da cui sono nati» (pag. 37), autentici sino alla radice. Ed «è il vigore di una radice sana», scriveva Pasquale Maffeo in Poeti cristiani del Novecento. Ricognizione e testi (Edizioni Ares, 2006); difatti il lirismo di Buia è un laico spiritualismo del significante che tende alla fede cristiana nel significato, tanto è vero che «le palme delle mani / [sono] radici / rivolte verso il cielo» (pag. 31). Dio ha «uno spazio d’aria» (pag. 29) in casa sua.

I poeti stanchi, la sua prima dichiarazione di poetica a pagina 20, si sono dimenticati la ricetta della verità e di conseguenza il suo sapore, che resta soltanto a chi abbandona i gusci della forma, dell’ego, in ciò che lo circonda. Mentre la seconda a pagina 39, Cerco una penna per scrivere una poesia, concepisce le parole che «ancora rosse in faccia / con la mano / fanno / CIAO», eco conclusiva del “cia-ciao” in dissolvenza con cui Anna Maria Carpi congeda il lettore ne L’asso nella neve (Transeuropa, 2011). Le piante non dovrebbero stare all’interno dei vasi, ma comunicare con il resto della terra pulsante: «il vaso / spaccato / dallo slancio / delle radici», quello che Franco Buffoni si riconosce negli occhi azzurro ghiaccio allo specchio de Il profilo del Rosa (2000). E quando giunge l’istante del volo, Buia scandisce parola per parola, facendone verso, per contrasto il vero silenzio di Ungaretti, da non intenderlo spazio fra i singoli frammenti. «In ogni no / precipita / un sì» (pag. 30), il paradigma delle levità non è ironico svilimento, ma consapevole fiducia nel presente. Buia usa il Libeccio, un vento caldo proveniente da Sudovest, rispetto ai nordici Maestrale e Tramontana di Montale (Ossi di seppia), per indicare la sua passione innata, il fuoco: l’accoglienza di Gesù in lei necessita di una croce. Tanto la moneta della fede è speranza di salvezza, quanto il denaro corrotto per acquistare droghe accresce un’illusione malata e straniante (Le candele, pag. 23).

A volte l’attacco delle liriche si adombra per risolversi in un flash finale ancora salvifico: «la pelle tesa sulle fronti / spande sole» (pag. 34), riferendosi alle donne sarde. È una poesia «a braccia aperte» (pag. 35), a scapito di ferirsi; prende il largo da un particolare quotidiano e nuota a perdifiato tra le immagini. I toni elegiaci di questo canto spesso intonato su sinestesie che ricordano il Pascoli simbolista dell’«odore di fragole rosse», sono un tratto caratteristico dello stile dell’Autrice. È una poesia che arriva volutamente dopo, esprime con gioia ciò che già è stato metabolizzato, e scrivere in stato di chiarore d’animo è forse più arduo che in stato di confusione, o di malinconia; siccome necessità di una mano ferma, coerente con se stessa e che conosce i propri punti cardinali. «Una poesia destinata a qualcosa che ci chiama senza sosta, ma a cui non riusciamo a rinunciare», ha raccontato Milo De Angelis di recente a una lettura a Cesena; «come al compiersi di una profezia», in una condizione vocativa che spera nella resurrezione dei fiori, «dove il loro appassire / docilmente / rifiorisce» (pag. 37).

I colori con cui Buia sceglie di iniziare la raccolta sono – in ordine di apparizione – il rosso e il giallo, rispettivamente le margherite serrate alla luce del crepuscolo e le bocche di leone spalancate all’alba; le preme dare un tono alla vita che trattiene. Poi, con l’Estate (pag. 18) che incalza, affiorano i lembi dello scorrimento, del passare inesorabile del Tempo, ma leggero nell’accettazione di sé, di noi. C’è un “noi”, respira dentro le parole dell’Autrice, quasi si consideri viva solo se unita agli altri, un organismo completo, un albero di quercia (pag. 19). L’attesa del domani è la chiave della volontà.

Qui, però, «il nero è puro» e galleggiano in superficie come scorie sul fiume «ricapitolazioni», «recriminazioni», «compromessi» e «rimpianti», ingombri del cuore che la poiesi pulisce. E gli stati d’animo, in controcanto, zampillano; volutamente non li trattiene nell’inchiostro, li lascia scaturire all’occhio di chi legge, «indignazione / compassione / derisione» (pag. 45).

La percezione esistenziale è saggiamente ciclica nel perenne ritorno alla natura del paesaggio, perciò la memoria si fa custode della morte che è parte della vita e non altro da essa, e aleggia nelle piccole cose, per chi la sa scorgere: «Ma oggi pomeriggio / seppelliremo il pesce rosso» (pag. 60). A pagina 44 c’è la consapevolezza di un eden «a forma di persona», canta Niccolò Fabi in Solo un uomo (2009): «per mostrarmi / ignoti giardini pensili /sul mio balconcino di città», ma sempre in uno stato collettivo di fusione con gli altri; infatti Buia sottende convinta che in due si è più forti, si tratti del compagno della vita, o della gravidanza. L’acme di massima sublimazione sta nella scomparsa della nonna, per la quale risplende il valore della famiglia, del sangue caro: «perché il destino / di ogni palloncino / è di librarsi così in alto / nel cielo / da non potere più essere visto» (pag. 52).

«Non a caso, ovviamente, la silloge di Elena Buia contiene una dedica all’ebrea olandese Etty Hillesum, che, come l’ebrea tedesca Gertrud Kolmar, davanti a una reale possibilità di salvezza, scelse piuttosto di rimanere accanto al suo popolo e ai suoi affetti. Entrambe morirono in Auschwitz nel 1943. Essendo passate attraverso la paura e il dolore e avendo trovato una emancipazione personale da questa paura e da questo dolore. Come Flannery O’Connor – che Buia ha studiato da saggista e della quale ha tradotto parte degli inediti per Rizzoli – che affrontò una malattia invalidante e infine mortale senza poter smettere di ridere. Questa pare essere la genìa di donne alle quali Buia si richiama e assorella. Queste donne di temperamento sono anche unite da una fede profonda», ha argomentato Maria Grazia Calandrone (“Poesia”, Crocetti, a. XXV, n. 267, gennaio 2012, pag. 69) a proposito dell’esistenzialismo e della sua origine nell’Autrice. Durante una vaccinazione, la sofferenza spaesata di sua figlia svela di più l’unione, quel filo rosso che, da cordone ombelicale, diviene con la nascita separazione fisica, ovvero legame interiore indissolubile: «Costretta / in un ignoto / sgomento di madre / rimango, / ti tengo. / Non ti lascio più» (pag. 47). Le risa e i pianti di Miriam sono fatti che scorrono sotto al testo (suggerisce Claudio Damiani nell’empatica e affettuosa postfazione) e transumano chi segue come hanno trasformato lei, un’onda che si propaga sino all’esaurimento, alle creste diafane di schiuma. Per la figlia rifiuta lo stupido rosa, colore di genere voluto dalla società, e con lei si rifugia in un bianco abbraccio in canottiera, intimità liberata dalle vesti pubbliche. E di nuovo la negazione di un nero sterile che amalgama: «Niente notte / a impastare / i nostri sogni» (pag. 48). Buia è altissima nell’intendere il presente di un genitore che dedica il suo tempo vitale al cucciolo per formarlo, e cozza con la fissità maestosa della Storia che non risparmia un nome:

«Lei forse sa
di appartenere
a quella parte della storia
dove le macchie di mandarino
sul suo gilet di lana bianca
la strappano a quei ruderi perfetti
e la catapultano – salva –
nel tempio
di un amore
senza geometrie» (pag. 55).

La casa si copre di arancione al tramonto, un finale sereno che non si fa oscurare, che fa scudo alle nubi con le sue spalle di muro: il nido è difeso da loro due. Infine su la scogliera irlandese «dove i suoi figli / con gli ossi di seppia / guarniscono torte di sabbia» chiude il cerchio osservando un mare non suo, attenta, dietro al sorriso e alla calma apparente del viso, al rombo della vita nella lotta tra le onde, e scende ironizzando sulla tradizione in qualità di testamento (ritorna Montale), che per il singolo è tutto e niente al contempo: «Gigli selvatici / è nel loro cuore / che la tempesta / gioca» (pag. 57). In questo modo non impone una gerarchia tra procreazione biologica e Arte, non giudica, bensì la seconda è a supporto della prima e la valorizza riflettendola.

Elena Buia gioca con i suoni del linguaggio con rispetto e, strutturandoli all’interno di una metrica propria che ha metabolizzato il Novecento per poi “tradirlo” nel calco delle sensazioni, canta prevalentemente in prima persona, pur non escludendo alcuno dal suo panorama personale, alla stessa maniera Sereni scriveva di Saba ne Gli strumenti umani: «Sempre di sé parlava ma come lui nessuno / ho conosciuto che di sé parlando / e ad altri vita chiedendo nel parlare / altrettanto e tanta più ne desse / a chi stava ad ascoltarlo». L’amore dell’Autrice è armonia, quella che collega universalmente tutte le penne e dunque bellezza di una vita insieme, di approdare, è una serenata per Andrew, è una nenia per cullare i suoi bimbi, tali le note di Wonderful Tonight (1977) di Eric Clapton.

I poeti stanchi

Una folla di poeti
stanchi
con le corone d’alloro
tra le mani
mi viene incontro
mansueta:
«Ragazzina – implora –
ci prepareresti una torta di mele?
A forza di dire
che non esiste
abbiamo dimenticato
la ricetta.
Ancora però
ne sogniamo
il sapore».

*

Cerco una penna
per scrivere una poesia

Cerco una penna
per scrivere una poesia.
Ma intorno è solo un caos
di pennarelli secchi
e matite colorate
senza punta.

Eppure all’improvviso
– quando la mente inizia a confondersi –
zampillano parole scalmanate
che ridendo corrono
su un pezzo di foglio
e si stringono
e mi guardano
come per una foto.

Ancora rosse in faccia
con la mano
fanno
CIAO.

Ti stringo la mano mentre dormi, Fuorilinea, Monterotondo (RM) 2012, pp. 68, euro 13,00.


Elena Buia Rutt è nata nel 1971 e vive a Roma. Laureata in Lettere e poi in Filosofia, ha collaborato ai programmi culturali di Radio 3 e attualmente lavora a Rai Educational come autrice televisiva. Collabora a diverse riviste e quotidiani nazionali, tra cui “La Civiltà Cattolica” e “L’Osservatore Romano”. È autrice dei saggi Verso casa: viaggio nella narrativa di Pier Vittorio Tondelli (Fernandel 2000) e Flannery O’Connor: il mistero e la scrittura (Àncora 2010). Nel 2008 per Àncora ha tradotto, assieme al marito Andrew Rutt, le poesie di Rowan Williams, attuale arcivescovo di Canterbury (La dodicesima notte) e nel 2011, per Rizzoli, parte dei testi inediti di Flannery O’Connor (Il volto incompiuto). Suoi versi stati pubblicati su “Poesia” di Crocetti, a cura di Maria Grazia Calandrone.

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