di Erminio Alberti
La lettura de Il potere dei giocattoli, seconda raccolta di Riccardo Raimondo, edita da Sentieri Meridiani, assume, agli occhi di un lettore attento, quasi la forma di una bildung. Perché, come ha notato bene Sebastiano Aglieco nella sua prefazione alla raccolta, questi versi «fanno i conti, insomma, con l’uscita dall’infanzia e con la responsabilità della lingua». E ce ne accorgiamo sin dalla prima sezione, dai versi iniziali, che ci testimoniano questo sforzo dell’autore, e con esso il conflitto tra mondo dell’infanzia, intorno a cui ruotano sogni, ricordi, nostalgie, e mondo del reale, il mondo «dove oggi grattano le falde/gli spurghi delle villette a schiera»: «ancora oggi stento ad alzarmi dal letto, / come quando ero bambino, / voglio restare nel buco matto dei sogni, / non voglio cadere in un altro mattino.»
La direzione in cui si muove questa formazione, verso per verso, attraversa la nostalgia dell’infanzia, passando per il trauma del mondo, la ricerca di una verità, per poi giungere a quella che Pegorari definisce «l’originalità di Raimondo», che «consiste nel restituire alla scrittura la volontà di chiedere udienza proprio in grazia della propria alterità irriducibile ai ritmi e alle (il)logiche dell’economia». Ma oserei dire di più: Riccardo Raimondo vuole ridare valore alla voluntas di agostiniana memoria, vuole sfidare il lettore, e con esso la critica, invitandolo all’interrogazione: «chiedete, chiedete pure. / Sempre questo noi potremo dirvi: / ciò che siamo, / ciò che desideriamo».
È una sfida che a prima vista potrebbe essere tacciata di presunzione, con la sua pretesa di voler superare la poetica di Montale, quasi a voler raccogliere di terra l’aureola baudelairiana, ripulendola per bene dal fango. Ma la poetica del potere dei giocattoli si muove in tutt’altro senso.
Lo leggiamo sin dalla prima poesia della raccolta, verso un ecologia del verso: «ma forse noi neanche scriviamo, / siamo scritti, / subiamo / come lo scoglio subisce la marea»; e ancora «Scriviamo come tuona il fulmine, / scorre il fiume nel solco scavato», e così via.
Ecco che la funzione del poeta non è quella di rivelatore, né di possessore di verità alcuna: il poeta diviene medium, attraverso i suoi versi comunica una verità «discesa / come goccia d’infinito / nella carne del poeta»; ma è una verità che egli stesso non comprende appieno, poiché la sua mente «non sa niente […] delle geometrie dell’anima». La sua ricerca dolorosa di una verità («Cercando il Vero, […] mi sono fatto male molto male // Questo buio nello spirito mi strilla / fa paura fa paura e la paura / tutta la coscienza mi scompiglia») trova valore nella stessa volontà di ricerca («ciò che desideriamo»).
Il Verbo assume quindi valore religioso: l’innocenza del fanciullo che scopre il mondo viene accompagnata e veicolata dalla Parola, cosicché il fanciullo possa diventare soldato e apostolo, nella sua battaglia contro il Cane Nero, effige dei valori materiali dei nostri tempi. Non è un caso che la quarta sezione della raccolta si intitoli il mio Jihad. Jihad è una parola la cui valenza potrebbe essere tradotta come “esercitare il massimo sforzo”: qui il poeta delinea il proprio nemico, il suo terreno di battaglia; qui dichiara il proprio compito («portare / questa luce fraterna / oltre la notte.»), da qui detta ordini «alla gente depressa andante / rumante a testa bassa e con lo sguardo fioco», in un misto di amarezza, ironia e sacralità. È una battaglia interna ed esterna all’uomo, che coinvolge lo spirito, la realtà, la letteratura. Il verso assume quel valore “ecologico” dichiarato in fase iniziale. E una volta dichiarato il proprio ruolo, i propri nemici, le proprie intenzioni, resta ai versi diffondere il Verbo, il soffio subìto da chi scrive, che si propaga nelle poesie erotiche, che «il poeta scrive sempre per la stessa donna […] che lei esista o meno / che lui lo voglia o no»; perché le figlie del fuoco (titolo dell’ultima sezione) sono occasione pura d’amore, vessilli d’assoluto: «Vita, vita non mia, / amore profondo che porto / dal caos, fino al senso». Così la donna diventa «la poesia segreta», «Fede e forma»; incarna la Parola e a volte la cessa: essa stessa è «sempre troppo, / troppo inafferrabile», poiché non è «di questo mondo», nonostante lo attraversi.
Raimondo dimostra una notevole abilità versificatoria, sa bene come imprimere musicalità ai suoi versi: ritmo e significato vanno di pari passo, si completano. Sono tanti i rimandi all’interno della raccolta, nonché a Ungaretti, Montale, Palazzeschi, e tanti altri, più o meno esplicitamente citati.
Degno di nota il disegno in copertina di Elisa Anfuso, Il potere dei giocattoli.
Insomma, il mio suggerimento concorda con quello di Sebastiano Aglieco: «Io lascerei parlare ancora a lungo questo bimbo, i suoi giocattoli rotti».
Riccardo Raimondo, classe ’87. Poeta, narratore, critico. Studia Lettere Moderne. Da dicembre 2011 è accademico corrispondente presso l’Accademia degli Incolti (Roma, accainco.it). La sua prima raccolta di versi è “Lo Sfasciacarrozze”(A&B 2009). La sua seconda raccolta è “Il potere dei giocattoli” (Sentieri Meridiani 2012, a cura di Daniele Maria Pegorari, prefazione di Sebastiano Aglieco, copertina di Elisa Anfuso). Ha lavorato con diversi artisti a spettacoli e istallazioni, cercando un continuo dialogo fra la poesia e arti di tradizioni diversissime (la musica acustica ed elettronica, la video-arte, i fumetti, le sculture animate, le marionette, il teatro-poesia, la fotografia), sperimentando sempre nuove strategie della creazione. Collabora con diverse riviste e webzine nell’ambito della critica d’arte, letteraria e di costume. Per maggiori info: www.riccardoraimondo.com