L’Aria n.18: frammento lungo – Il prâgma

 

auctor ab augendo
Isidoro di Siviglia, Orig., X 2

 

1. Questo UOMO non muore: in che modo è un uomo? Chi vive non è informe, o vive male. Lo stile maturo matura, e lui anche. La sua potenza è correre: con molta fretta, che ora preme. L’autore è chi aumenta.
Qualcuno si è detto, da solo: «Volli ardere!» oppure «sono re»; e viene e si mostra – VIENE – una cosa doppia, in una specie di altalena vitale, mia e più che mia. [presto non saro più DUE, ma uno] Deciderò di essere ESPOSTO, come uomo [quello di cui si disse: «sembra una donna», e allora pensai di morire, non osavo parlare]. E posso essere la cosa esposta; mi esibisco, do un esempio [eco: empio]. E chi fa così urla: guardatemi sempre, voi mi capite, sapete di me; è una bella finzione. Così la posa ride e sta; ho fatto (faccio; posso fare) il vuoto per essere ancora pieno; non sono puro. Sto sotto gli occhi. Sono la bocca. Sono villana.
Quando l’autore scrive si piace: pubblica sé e si lascia vedere. È liberissimo e la sua superficie è tutta umile e calma piatta. Ma dove si crea, lì non c’è l’Anima: c’è la sua falsità e la sua pulizia, e poi la [sua e mia] serenità di oggi, avuta oggi.

2. L’autore non è l’anima: io scrivo perché voglio, sono, posso, so. Scrivo perché non parlo: io non voglio. E scrivo per non parlare, dunque mi impongo; pubblicando mi impongo. Così l’autós si pubblica, lui QUESTO, lui STESSO, spesso. La sua umiltà è poco inerme: occupo il margine – questo margine – perché oggi non ha il centro, e gli manca. brutta storia. Lo vorrei? L’autore vorrebbe anche di più. Così l’autore si rovescia nel suo contrario: scrive e si pubblica, per negare la verità possibile: che l’autós non vale niente, [e io non valgo], che noi DUE siamo cattiva scrittura, dunque la impongo a te in questo modo. Oppure la grazia taglia me; io mi rendo libero; mi creo un’immagine reale che prende il posto di me. Adesso non sono molto forte e ho meno di 30 anni. [ma starò per vedere il «quadrato militare»; pesato da militari-medici, esaminato da un colonnello: «ce l’hai la ragazza?» sì, signore, ce l’ho: ma è la moglie di un altro] Il livello di non-letteratura – la mia vita – che tiene insieme il lavoro non vale ancora molto. Dunque voglio soddisfare la vita. [e poi l’ho soddisfatta]

3. L’uomo giovane ha conosciuto una donna. Il suo nome significa LA PICCOLA. Ora c’è la dispersione, tu non lavori più non studi più. Dopo la dispersione verrà anche la persona nuova, il nuovo. E la lingua rempaira, RIMPATRIA, si posa meravigliosamente. La lingua è in patria, questa lingua è mia. Amore regna: nel senso che «non era più una speranza ma una volontà» [Amelia Rosselli] – e noi a lei, solo bocca diffusa e bella rossa e bene.
Rimane il rapporto di questo con l’infanzia, che trema. Tutto è stato bambino: il bambino c’era, ma non esiste ora.

4. Per vivere, devi perdere, no? Ma tu sei presente nel tuo testo: sei il testo – e oggi tu sei altro: vive la persona dritta, e la sua dolcezza come questa persona, che è cara. A lei telefoni, molto: ovviamente da una cabina. Il peso morbido, o il peso piumato, sta insieme al testo: testo e peso, ben avuto. E tutta la lingua calma, che bagna il peso e il testo; che lo fa già ora.

5. L’uomo parla con le mulierculæ. Quante ne ho incontrate? E i piccoli dicono pappo e dindi, pappo e dindi, dindi e pappo. Nel volgare, io sarò quest’uomo – e anche altro, che non è uomo buono (non è – non sono – l’autorità dell’uomo: il suo peso nel corpo, che è violento): la muliercula sta col bambino: l’autore sta con la donnetta e il bambino; sta in un insieme. Davvero? Ora la lingua piace; questa lingua trilla e ritma, piace; rallenta: o trema con il cuore, incontro a un latte di madre, diffuso dentro, con la paura; e detta dentro. Ne scrivo in l’equilibrio tra le forme di superbia: mia madre, madre-perla, madre-lingua, madre sola e semplice; la mia. Sarei la persona dopo la dispersione e peggio. Qui, se posso, impongo solo il lato meno feroce dell’autós: io stesso; io che sono questa forma, non ingenua; io che non sono ingenuo, ma sono una guerra.

6. L’altro è tutto: io aveva – io ho – il latte dolce; lo ha il figlio. Poi dire (rimare; scuotere) è limpido; scrivere, riscrivere, è dolce: anche dolce; la sua scrittura è dolce e docile. E direi (saprei dire), dopo: come figlio (del tuo latte) io sono libero, in qualche modo.

7. Poi la prosa; il suo meglio, come prosa. Il tuo latte e la tua prosa e la tua rosa. Meglio che mai? Tutto è testo e tutto è caldo, per il conforto. Ci sono io, senza data.

8. Il cuore è veloce: uno solo – e il bisogno di questo, molto bisogno tenero, cadente, morbido, impuro – ma si esprime: la selezione prima (il diario nuovo), esercizio sul rhytmus, o il corpo che ci matura (diciamo che c’è un cuore, nel senso di centro; il cuore matura; e sul cuore sta una la spina, ma non è simbolica; e il caldo è intorno al cuore, ma è vero): come io respiro, come intono, quanto è larga la mia lettera e quanto sospirata; quanta anima, amata, nel suono delle vocali c’è; quanto corpo è stato coinvolto: e il suo lavorare caldo, fino alla chiarezza.
Io vivrei così, in questo caldo. Oppure: lo spazio della scrittura ama la comunione con te: ama coesistere con te, che non sei io – che lo sei sempre; ama il fatto che ci sei: la coesistenza di due voci, e il caos dolce (il caso dolce, in cui nascono i piccoli: tutti hanno lo stesso latte, parlato; una madre che ne è gonfia, gonfie tette; un figlio ben parlante, come è; e la grazia di eccitargli il corpo e il cuore del corpo, che mi è – rimane ferma e tesa). Questo è il minimo della presenza, solo, a cui l’autore succhia, realmente. Se va bene, diventa una bestiola con due ali e vola via.

9. L’altro autore è una donna, che scrisse della lingua come acqua: un autore e uno solo, più un’arte soffiata, che è roba sua. Lei vuole gonfiare e mostrare la nuvola, fuggire da un marito – dunque c’è la Nube. Ma vuole andare via. E nel 1999 e nel 2000 facevo i primi abbozzi [poetry], deliravo e pensavo: come farò? dicevo: Peso 55 kg. e devo avere una casa, devo andare, voglio sposarmi. E ora non ho più quel peso secco, ho una casa, ho viaggiato [Bharat, India]; e prego senza il mio matrimonio, sono incompleto: unmarried – così come deve essere. La Nuvola ha mollato suo marito e ha avuto un figlio. Il padre dell’«angelo biondo» non sono io. Ora lei non scrive nulla e dice: «Io sono solo una mamma».

10. Chi si abbandona è come una cosa. Una cosa al suo sistemarsi piano, come scrittura e statura, e sta fermo. Il tuo re e master appare più bambina, col suo lato maschile di maschiaccio – e la sua asprezza in questo; ma è una bambina. Poi si dorme; la creatura, la piccola, dorme. Lo spazio della scrittura ama la coesistenza: io e io, io e tu, ego sum e tu autem, e No, uno e due. Qui è il male e qui è lo sguardo delicato, e poi le parole; il genere impertinente, formato, con il corpo santo. Io stesso ho una forma, e sono questa forma. Posso trovare un involucro puro; anche la piccola bava che può uscirne mi appartiene. Tutta la fisionomia del libro mi risponde: si tratta di me. E tu non sei mai «un valido aiuto», e allora che cosa stiamo facendo?
L’amore, sì. Non basta.

11. Dono chiama dono. Ad esempio, la qualità della pelle, al contatto: ad esempio la pelle nelle mani; ad esempio, il modo di battere il piede a terra e saltare, incontro. Dire è limpido: degradato tutto, con qualche vita intorno [birra alle sei del mattino, poi rompere il ginocchio, per dividere due uomini; arriverà il poliziotto e dirà: checcàzz’ succede? – sono uscito, per chiudermi in una gabbia, cioè un bar; per piacere ad una donna, che dice «io non ti amo»; ma questa vita sta durando poco, e a gennaio è finita]; un po’ di degradazione e poi la solitudine giusta: felice di essere qui, felice di essere qui, felice di essere qui questa cosa e non più di questa cosa, che vive. La testa è questa mente che matura – magari schermata da foglie verdi, carta, computer, dolore e controdolore; ma sempre quella: questa, qui dimostrata.

12. Posso dire – dico (lavoro, scrivo) – come uomo, prima che come autore. La mia cattiva letteratura è mia falsità, quando c’è; se viene una mia piccola pulizia umana, la cattiva letteratura cede. Io cedo. Posso questo; posso maturare escludendomi; lo voglio. Posso diventare un altro, come autore e uomo: soprattutto, vince l’autore, per adesso. La sua scrittura è rimasta tenera: non dolce – e dolce nella sua vera dolcezza, che ora sta crescendo. Il primo abbozzo è stato un embrione 26enne, che stava andando a fare il militare, a Orvieto, a Roma, a Genova [e poi fu rigettato: non idoneo]; e questi paragrafi preludevano veramente ad un suicidio accorto, come una cosa d’arte. Ero un embrione e non sono nato morto. Oggi è il 29 giugno 2012.
Non mi vergogno della COSA, ma della CAUSA piccola. E sono ancora geloso di chi non mi ha voluto: un’altra COSA piccola [tutt’altro che i campi elisi, mai vista una Matelda]

13. La mia educazione è automatica: uno stile, un lessico, un’immagine pubblica, la mia possibile e impossibile sessualità. Ma posso scardinare la mia educazione, in modo che diventi un’elezione. Posso cancellare il fatto che sono uomo (scrivo da uomo) e giovane (e scrivo da giovane). E la mia educazione. E la mia selezione. E la mia appartenenza. E il mio campo. Avere una famiglia.

14. Io sono prevedibile. I veleni retorici, da iniettare nelle lettere, elimineranno la macchina automatica, supereranno il prete prevedibile. Tutta la controretorica che verrà mi riguarda: ricade su di me, come voglio, e ucciderà l’automatico, il cuore prevedibile anche per me. [e alcuni nomi e nomi di libri – una Paola o un’Elena, una Chiara e un Marco, una seconda Chiara e altri, e chi non nomino – sono stati anche le mie maschere: per essere un’altra cosa, forse una donna o un autore engagé; ma tutte queste unioni sono cadute e qualcuno ha pianto; non era mai il vero amore, e nemmeno amicizia; erano grandi vincoli, per essere infelice – e io non voglio esserlo, ora; e poi l’ariete – che rompe – ha fottuto il campo; all’ariete non servono le donne dello schermo; e neanche uomini].
Ora cerco uno zero diverso dalla morte. Deve morire il contesto privato, in cui lavoro prevedibilmente. Detto in altro modo, da KAFKA: «Conosci te stesso non significa: Ossèrvati. Ossèrvati è la parola del serpente. Significa: Fatti padrone delle tue azioni. Ma tu lo sei già, tu sei padrone delle tue azioni. Questa frase pertanto significa: Ignòrati! Distruggiti! Dunque una cosa cattiva. E solo chi si china profondamente ne ode anche il messaggio buono, che dice: “Per fare di te stesso quello che sei”».

15. La parola ha lavorato come un primo latte umano. Dopo, l’adulto non ne ha succhiato più. Però parlava da piccolo. L’io non vuole più essere previsto: quindi spezza l’automatismo, suo: il contesto dell’io, il non felice.

16. Oggi io sono l’unico automatismo che posso toccare, avvelenare e distruggere. La distruzione deve fare male. La mente pietosa o spietata rimane attenta ad altro: altra scrittura, altra vita, altra passione, e i tentativi e tutto quanto il resto. Non finisce. Tutto questo era il giro dei pensieri intorno ad un concetto: chi sono in quanto autore; chi è l’autore quando fa per farsi vedere; che cosa sono veramente nella vita. Soprattutto, che cosa fingo. Finora il fatto è stato un IO schermato, male armato, con poco onore.

Massimo Sannelli
Written By
More from Massimo Sannelli

L’Aria n.7: Propositi su una Decadenza

  1. «[…] il corpo del XX secolo tende a essere il...
Read More

1 Comment

Lascia un commento