Tutti gli autori di “Opera Prima”: Matilde Tobia

 

[Di seguito, presentiamo la testimonianza ed alcune poesie di Matilde Tobia, un altro autore della collana Opera PrimaRicordiamo a tutti i poeti inediti che vogliano partecipare alle selezioni di “Opera Prima che è possibile inviare i materiali seguendo queste indicazioni.]

di Matilde Tobia

La felicità e la gratitudine di aver discorso davvero.
Questo è quel che mi viene in mente pensando a Lemmi per uno sguardo.
Perché discorrere mi pare il verbo più adatto a descrivere l’abbandono di me stessa, di un tempo e di un luogo, per l’atto compiuto di un libro che scorre, discorre altrove.
Libero. Talmente libero da diventare “cosa”. La prima.
Opera Prima” è un bellissimo titolo di collana. E’ bello perché declinato al singolare; non potrebbe che essere così, tanto è irripetibile questa esperienza.
L’attenzione, la gentile serietà, la creativa e poetica competenza del suo curatore hanno dato “al mio discorso” la strada sicura che cercava.  A Paolo Donini –  nel suo testo critico – e a Roberto Almagno –nella sua scultura – devo la prima evidenza di quel discorrere.

 

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Prepararsi al vedere

di Paolo Donini

Tra il vedere e il nominare si dà  un nesso simile a quello che lega i due segmenti dell’abduzione.
Il vedere è percettivamente certo, il nominare ne consegue come impresa del riconoscimento.
Nel frattempo, la cosa vista laggiù è ancora sola, nella troppa luce.
Se supponiamo di soffermare  la frazione in cui l’occhio si apre al bagliore e ne è allagato, in quella il vedere è il  puro, disperato offrirsi della retina all’impressione.
Un disperato vedere che non è ancora visione.
La visione,  come la “veduta”, vuole che il vedere sia ricondotto entro la specula di un’autolimitazione, nel beneficio inestimabile di un ripensamento. Entro una “cornice”.
La visione è ripensamento o recinto al  vedere. E il recinto al vedere non può essere altro vedere.
Recinto al vedere può essere soltanto una prospezione di senso, soccorso semantico a quanto è stato disperatamente avvistato laggiù. Pratica del riconoscimento.
Toglie disperazione al  vedere il recinto di senso che lo delimita: lo steccato ermeneutico, amata cinta che accoglie  quanto è stato visto.
Ma è tale la velocità del vedere che la china opera nominante deve accelerarsi a raggiungere la misura dello scatto percettivo.
Il recinto si installa in velocità quasi-pari al vedere. E lo fa nella grazia inattesa e repentina del lemma.
Il lemma cinge il vedere, nel ripensamento repentino di quanto è stato avvistato disperatamente.
Ed ecco che tra il disperato vedere e quanto disperatamente avvistato si conchiude a riparo la grazia repentina del lemma.
E la cosa, inebetita nella luce, si riprende: si dichiara.
A riparo della furia luminosa la cosa vista trova per sé un nome. Un nome di cui cintarsi. Lemma.
Il lemma (Λεμμα), radica il suo etimo nel tema del dono, di quanto è ricevuto, ma precisa il suo impiego nella microlingua matematica e nella filosofia in ciò che è premessa al dimostrato. A quel che è certo.
Nella teorica dello sguardo di Matilde Tobia il lemma è premessa a ciò che è puramente, desolatamente visto. E lemmario sarà la provvigione di cui il poeta si incarica: repertorio, arsenale, allevamento e vivaio del nome da dispensare a ogni cosa.
Soltanto che nello sguardo, per via del primato percettivo della vista, la premessa accade in un infinitesimo ritardo, dove si dà il ripensamento. E non è, pertanto, già-certa, scontata.
La premessa è vigilanza sulla veduta, veglia nella luce immediata, avventura poetica oltre l’occhio, scommessa del dire.
La premessa è frutto della pedagogia del vedere e si fa latu sensu “promessa” dei battesimi culturali che escono a dar nome al mondo.
Il lemma, recinto al vedere, è premessa posticipata, quando conclude il giusto completarsi della visione nella dizione.
Dal nudo vedere il lemma accampa la grazia del recinto che fa la visione, la veduta: il quadro.
Fra il  rapido consonare di questi termini: vedere nominare/ cornice recinto/lemma visione infine quadro  la poetica di Matilde Tobia accerta la necessità di pronuncia dello sguardo, metodo e responsabilità, deontologia dello sguardo:

Dar corpo
al senso della vista
è storia d’una vita

lemmario d’una urgenza

In queste pagine, nella rigorosa scansione delle prime cinque sezioni si inscrive l’accertamento poetico dello sguardo, sino alla foce luminosa della presentificazione:

VI.  Il Presente.

Una ricognizione che non è sconfinamento da un’arte all’altra, né cabotaggio didascalico, perché il recinto ermeneutico richiede l’imbandigione d’una poiésis a cui il dato visivo si porga, attinga, acclarandosi nella dichiarazione.  E perché dal tempo inebetito della cosa, sola nella luce, si giunga all’incominciamento luminoso del tempo nominato, dell’essere-nel-nome presente a se stesso.
Matilde Tobia procede sistematicamente dalla cosa vista in sé a quel correlativo esponenziale che è la cosa trattata nella materia dell’Arte:la Forma.
L’indagine qui è a tutto campo, a tutto campo visivo. Dall’empiria della Cosa all’ermeneutica della Forma: nell’urgenza di una poiésis che si descrive come risposta e soccorso al nudo vedere e nella stessa urgenza che richiama il lemma a farsi parola di una critica poetante, l’unica che sappia dire l’Arte senza deformarsi in autobiografia (del critico, ovviamente).
La poesia di  Matilde Tobia  incorpora gli atti di una critica poetante, nella mimesi che la scommette vis-a-vis  sull’opera, sulla tela, nel quadro, di cui il testo non fa l’anedottica né la suggestione ma la pronuncia,  la dizione, la materia resa in  lemma, apparizione finalmente “nominata”.
Esemplari di questo procedere sono i Lemmi per Anselm Kiefer, dove l’impasto materico proprio dell’artista tedesco si “vede letteralmente”, nel suo correlativo sillabico:

E’ vicina, talmente vicina, la volta notturna ch’è bianca, non nera.
E invade la mente di chi la subisce guardandola cieco, lasciandola
spoglia.
E impastata di spessa materia e di vaghi colori.
(così bianca di stelle, è pesante una volta;
scivola giù e non trova accoglienza per farsi comprendere)

Battesimo delle Forme, questa poesia postula che lo sguardo dell’Artista includa una pre-disposizione al vedere, dall’effetto semantico analogo al nominare,  ma che in un Artista visivo questa resti visiva, e occorra dunque l’intervento del poeta a traslarla in poiesis, rivelando che l’ordinamento del “quadro” è premessa e recinto all’ordinamento del mondo:

Quando qualcuno predispone il luogo, sono le cose che possono disporsi,

Il recinto si è fatto luogo della realtà.
Questo scambio è essenziale perché in Matilde Tobia il discorso dell’Arte (e non sull’Arte) è discorso del mondo e la parola scambiata vis-a-vis con il “quadro” è dialogo nell’essere, nella vita, dove il nascere al senso, formarsi, esperire si fanno nell’Arte, esperienze nell’Arte in quanto “realtà liberata dal realismo”.
Il dialogo nell’Arte qui è niente meno che “vivere”. Vivere è la promessa a questo inoltrarsi.
Vivere ha in questa poesia il sapore dell’incominciamento offerto a mente e sensi dalla tavola o canvas su cui un altro ha fatto Forma alla vita. Umana Forma. Unico luogo e rudimento dove siamo venuti a incontrarci. Forma che ci ha formati.
Con trapassi di secoli o d’anni – mormora un coro di sodali nell’Arte –  in sale di musei, per mostre, negli studi, su lievi e faticate carte, su illustrazioni indimenticabili, nella racchiusa prossimità dell’ermeneuta in piedi di fronte alla muta elargizione del segno. Eravamo lì, siamo nati al senso lì davanti.
La “vita reale” in Matilde Tobia è questo incontro incessante tra lo sguardo, la cosa laggiù disperatamente sola, la Formache mantiene sul quadro il “maestoso silenzio” di Platone e il chino colloquio che ne guadagna fiducia, ne ottiene la pronuncia: la Poesia, più reale del reale perché tolta alla disperazione del reale, quando il reale oscilla laggiù oltre il nome,  oltre il senso possibile, dove anche un cipresso, che non sia nominato o dipinto, è assurdo.
Reale è la Formadata nell’Arte. Reale-per-noi il lemma che la dice.
L’Arte in questo libro non ha perimetro semmai perimetra il mondo, e il segno – il filo – esce incessante dal quadro a delineare la Cosa nella sua Forma intitolata, a recintare nel  vero il vero-per-noi:

Quanto pesa lo strumento che hai per costruire ciò che vuoi creare.
La tua mano, nel rifare i percorsi stabiliti per le cose che vorrai, poi,
intitolare.
. . . .
Quanto dura la lunghezza di quel nero, di quel filo che si svolge all’infinito?

Intitolare è dare il nome e l’Arte nell’intitolare conferisce niente meno che realtà.
Morandi, Melotti, Burri, Pollock, Rothko, Malevich, Mondrian, Kiefer … la  critica poetante inclusa in questo poetare non è solipsismo di fronte al “maestoso silenzio” che la pittura “mantiene” ma, nel raccolto colloquio con l’opera dei Maestri, essa è maieutica che dà  parola al quadro invitandolo a pronunciarsi sin nei minimi dettagli:

Eppure, ancora dici dell’oro della nicchia
che vibra caldo sotto il blu del lapis,
coronato da ruote di pavone;
ancora dici dei marmi verdi di colonne,
ancora della minuzia degli intarsi,

Il quadro è lì a ribadire che lo sguardo non si conclude nel vedere ma si apre all’allestire il recinto della visione:

Quando qualcuno predispone il luogo, sono le cose che possono disporsi,

Esemplari sono i  Lemmi per Giorgio Morandi che nel dire il quadro del Maestro ne rifanno in lemmi la preparazione: del tutto franca dunque la confluenza di vista in  veduta,  e della “realtà” nella sua pre-disposizione avverante.
Qui  l’atto del “preparare” le cose a mostrarsi nella luce è  fare il recinto, il “quadro”, posizionare l’oggetto  esponendolo al senso, è sospingere  il mondo verso un ordine, disporlo all’avvento del segno:

sono le cose che possono sapere
che fare di se stesse con la luce;
sono le cose che possono segnare
il vuoto che rimane, lasciato da un volume

E comprendere la preparazione è  “prepararsi”.

La poesia di Matilde Tobia traghetta la valenza pedagogica e auto-educante di questo infinibile “prepararsi” a vedere.
Restare in questo atteggiamento dell’occhio che si autosospende e delega  dal capére al capire,  con-prendere le cose, cintarle, accoglierle.
La realtà è attingibile solo in quanto già-progetto, preparazione che l’ha  già-tolta alla disperazione infinita oltre il nome. Dove oscilla, alla luce grezza, il cipresso noumenico.
Portava a un ingresso flagrante  l’intero cammino della preparazione (lemma-percezione-immagine…) e  l’operazione nominante nella muta boscaglia ottica ammette l’inoltrarsi come incominciamento continuo alla vita, al Presente essere-presente-nel-nome, là dove la raccolta sfocia alla sua fine-inizio:

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